Viaggio in Magna Grecia / 2

da | Set 17, 2013 | Senza categoria

Non c’è nulla di antico a Riace. Ma il lembo di sabbia sul mare di lá della statale 106 ha una vitalità unica da queste parti e c’è qualcosa di antico che la spiega. I famosi bronzi che avrebbero potuto cambiare la storia di questo piccolo centro calabrese sono lontani da quarant’anni ormai, da quando un sub romano li trovò poche centinaia di metri al largo della costa. “Neppure un segno, una lapide, nulla hanno messo” mi dicono nella macelleria lì a due passi. Ma importa poco. Perché appunto le abitudini antiche qui sono tornate in altro modo. Attraverso un uomo che un giorno di luglio del 1998 osservava il mare e lo sbarco di centinaia di migranti in cerca di un futuro e, diversamente dagli altri, pensò che il problema sarebbe potuto diventare risorsa. Bastava una sana ospitalità, istituzione antica, istituzione che i greci portarono qui. La xenia (da xenos, straniero e ospite), ossia accogliere soprattutto chi è più estraneo e straniero, a patto che l’ospite sappia valutare adeguatamente ciò che gli viene offerto. Quell’uomo, Domenico Lucano, divenne sindaco undici anni dopo, e attraverso l’integrazione, ha riaperto scuole, ridato vita a botteghe di artigiani, riportato la gente a abitare il paese e a girare per le strade. Il suo nome è finito, unico italiano, fra i venti candidati al “World Mayor Prize” che premia il miglior sindaco del mondo. Penso a lui, mentre entro a Monasterace, dove il sindaco, Maria Carmela Lanzetta, è stata appena costretta alle dimissioni. Pochi chilometri e gli stessi sogni diventano impossibili. Proprio qui dove sorgeva un porto aperto a traffici e scambi, una città che i coloni di Crotone fondarono come avamposto contro Locri: Caulonia.

La bellezza di questi luoghi è struggente. E si accompagna a un abbandono intollerabile. “Nulla, non c’è nulla, qui” mi dice un uomo che fa su e giù con Siena dove vivono i figli e che ha aperto un bed & breakfast – caso raro da queste parti. “Abbiamo solo il mare. Nessuna struttura. Né strade, né porti. Ci sono ancora ponti cascanti fatti da Mussolini, si figuri. Ma il mare non possono mica bruciarlo”. Su una spiaggia selvaggia, percorsa da dune, eucalipti che al vento paiono argentati e macchie di cardi e finocchio selvatico in fiore, si affacciano i resti di quella che fu Caulonia, riportati alla luce a inizio Novecento dall’archeologo principe della Magna Grecia: Paolo Orsi. Sotto al faro di Punta Stilo, oltre i binari del piccolo treno che costeggia il mare, si entra in un’altra epoca: porte, case, un tempio e un santuario a due passi dal mare, lo iodio che tempesta le narici. Il famoso mosaico del drago è in mostra nel piccolo museo e la custode, Annamaria, con la gentilezza di chi si è abituato a contare i visitatori sul palmo della mano, mi spiega ogni cosa. Evita di raccontare soltanto della famosa battaglia della Sagra, un fiume che passava proprio da queste parti. I nemici locresi sbaragliarono Crotone e Caulonia assieme, in uno scontro talmente sproporzionato che solo un intervento divino poteva spiegarlo. I locresi, infatti, in quindicimila affrontarono centoventimila nemici e, sicuri della fine, “mentre cercavano di morire onorevolmente, splendidamente vinsero”. Era circa il 550 e dovevano passare vent’anni perché a Crotone arrivasse chi diede un segno immortale alla città: Pitagora.

Anche lui, il saggio che inseguiva le armonie del cosmo, quando si avvicinò alla costa italica dopo aver abbandonato l’isola patria di cui fuggiva la tirannide (Samos, oggi di fronte alle coste turche), vide prima di tutto le colonne del tempio di Era a Capo Lacinio. Quarantotto colonne doriche poco fuori dalle gigantesche mura della città, allora estesissima. L’unica colonna rimasta in piedi sulla roccia a strapiombo sul mare ipnotizzò quei pochi viaggiatori che nell’800 ebbero il coraggio di allungare le rotte del loro Grand Tour fino allo Ionio. “Una sola colonna, anello tra passato e presente” scrisse Craufurd Tait Ramage nel 1828. Ma già Livio aveva esaltato la natura di quei luoghi “più celebri della città stessa”. Oggi, spazzato dal vento, Capo Lacinio, per tutti semplicemente Capo Colonna, fatica a restituire integra quell’aura mitica che ha sempre avuto. I lavori di “miglioramento della fruibilità dell’area” sono ancora in corso, nonostante la “data di scadenza” specificata sui grandi cartelloni sia ampiamente superata. Reti pencolanti, nastri di divieto che tremano nel vento. Chi dovrebbe essere al lavoro non c’è e le passerelle di legno che attraversano l’area obbligando in uno stretto passaggio hanno allontanato irrimediabilmente i visitatori dalla colonna. Sembra l’opera di una mano distruttrice. L’idea di un folle che ha deciso di rompere la magia della più bella colonna greca sul Mare Ionico, il nostro Capo Sounion. “Deve capire che per gioco erano arrivati a spararci contro” mi dicono nel museo. “E non potrebbero farlo lo stesso?” domando io “Se, come ora, nel sito non c’è nessuno di guardia, chi vuole può sparare anche dalle passerelle. Quelle impediscono soltanto il movimento dei visitatori”. Alzano le spalle, i custodi, e si richiudono sui loro smartphone. Il museo raccoglie la storia di Capo Colonna, ma il tesoro del tempio di Era è esposto a Crotone. La meravigliosa corona d’oro di fine VI secolo che cingeva il capo marmoreo della dèa scintilla accanto alle sirene che resero famosa la città. Del resto, nel 530, la vera sirena qui non aveva ali d’uccello, arrivò dal mare e fu accolta come una divinità. Si dice che i crotonesi affranti dalla sconfitta con Locri si sarebbero gettati nella dissolutezza più profonda se non fosse arrivato lui.

Predicava misura, temperanza, uguaglianza e solidarietà. Spinse gli aristocratici a purificare il loro innato desiderio di gloria in un desiderio di prestigio per l’intera cittadinanza. Dotato di poteri sciamanici, Pitagora insegnò le pratiche ascetiche e spiegò come l’anima passasse attraverso i corpi, reincarnandosi. I famosi atleti di Crotone capaci di tante vittorie a Olimpia ripresero a vincere con il grande Milone che conquistò sei volte consecutive l’alloro nella lotta. La scuola medica raggiunse un inarrivabile splendore. Crotone fu di nuovo compatta e riuscì a sconfiggere Sibari, colonia sorella ormai troppo potente, nel 510. Accadde allora quel che nessuno avrebbe immaginato: Pitagora spinse i crotoniati a moderazione nella vittoria e a un’equa ripartizione delle terre. Ripartire le terre conquistate? La reazione fu talmente violenta che l’uomo considerato alla pari di un dio fu costretto a fuggire. Ancora oggi Crotone porta i segni di quella storia. La città è bellissima. Dal lungomare si sale alla rocca in un attimo percorrendo strade chiamate sempre “discese”. I vicoli del centro sono un groviglio di case antiche, chiese, vociare continuo. E di fronte al Museo Archeologico sta il palazzo che racconta, nel suo nome, la storia del latifondo, la casa padronale ormai abbandonata dei Barracco, mitici proprietari terrieri, possidenti di un’intera regione, detta “il Dragone”, 30.000 ettari da un mare all’altro. “Non abbiamo più nulla” mi racconta Enrico Barracco, uno degli ultimi discendenti, giornalista. “Se veniamo a Crotone dobbiamo cercare chi ci ospiti. D’altronde ormai eravamo tutti a Roma, nessuno seguiva più le terre. Si sa come vanno queste cose. In fondo, l’inizio della fine fu quando si persero le abitudini antiche, l’austerità del lavoro quotidiano e si cominciò a pensare ai matrimoni, a legami con famiglie nobili non calabresi. Allora, i Barracco iniziarono ad allontanarsi da qui per fare la bella vita altrove”. Non è stata tanto la riforma agraria, insomma, a riuscire in quello in cui Pitagora fallì, ma la mano di una specie di fato, inesorabile. Il sangue delle famiglie che un tempo ebbero tutto e forse troppo. Si racconta che a Roma, quando il Museo Barracco (ossia, il politico e collezionista Giovanni, 1829-1914) fu ristrutturato, all’inaugurazione l’allora Presidente della Repubblica Cossiga chiese se ci fosse qualcuno della famiglia. Dopo un breve silenzio, la visita riprese nell’imbarazzo. Erano rimasti tutti a casa, i Baroni che un tempo avevano posseduto più di chiunque altro in Italia. Del loro museo e della celebrazione inaugurale, si erano dimenticati.

[continua…]

La prima parte è qui.

Il reportage di Matteo Nucci è originariamente apparso sul “Venerdì di Repubblica”.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).