Questa immensa telescrivente… Dev’essere qui dall’origine. Dalla nascita della casa. Riempie tutte le stanze, e nessuna è abbastanza grande per contenerne una parte intera. Potrei dire che è una telescrivente decimale, con un 7 periodico che si ripete di stanza in stanza. Ma le stanze non sono infinite. Anzi, nel mio progetto di ristrutturazione c’è un vestibolo sconfinato, poi, una scala di pietra di Rapolano, un soggiorno con angolo di cottura, un piccolo bagno, una camerabiblioteca, un’altra scala, e finalmente la grande uccelliera. O meglio, la Sconfinata Uccelliera, che è lo specchio celeste del vestibolo a piano terra.
A cosa serva la telescrivente non lo so di preciso, ma mi piace il suo ticchettio. Mi piacciono i suoi tasti di bachelite. Forse mi serve per parlare con me stesso e con Tanino, che senz’altro ha l’orecchio sinistro appoggiato alle volte del sottosuolo, e il piede destro sulla cupola terminale di qualche antica città dell’altro emisfero.
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E dunque: il dislivello tra pianterreno e primo piano è di trecentocinquantanove centimetri esatti. Gli scalini sono ventuno. Trecentocinquantanove diviso ventuno fa diciassette centimetri e un millimetro.
In realtà quel malevolo muratore è andato in su e in giù secondo la sua incomprensibile ispirazione. Ha fatto dieci alzate da sedici centimetri virgola nove, due alzate da diciassette virgola uno, quattro da diciassette virgola due, due da diciassette virgola tre, una da diciassette virgola quattro, una da diciassette virgola cinque e una da diciassette virgola sei. Naturalmente ha mescolato i numeri a caso. Così, purtroppo, un diciassette virgola cinque è finito tra due sedici virgola nove. Così, purtroppo, per due volte consecutive, esisteranno, in eterno, sei millimetri in più tra il quindicesimo e il sedicesimo scalino, e, purtroppo, sei millimetri in meno tra il sedicesimo e il diciassettesimo. E io, lo so con certezza, finirò per inciamparci tutte le volte che ci penso. Ossia sempre.
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Lei signor muratore è un mostro.
Non glielo dico con leggerezza di cuore e con povertà di spirito. No, io l’ho studiata bene, come si studiano doviziosamente le malerbe tra i crisantemi. E nessuno mi può convincere che lei non lo fa apposta a misurare così male il mondo. Mi dirà che una casa non è il mondo, e in questo le do ragione, ma anche il mondo non è una casa, e gli strumenti di misura forse non sono mai appropriati e anzi si contraddicono.
Io però ho controllato tutto con una squadra millimetrata e una piccola lente di ingrandimento. Ho messo l’occhio esattamente nel centro della lente e mi sono accucciato sotto gli scalini per evitare il più piccolo errore di parallasse. Ho lavorato con una calma infinita. Ho lavorato confidando nella vicinanza di Dio che infatti qui si è incarnato.
No, io non sono sconfitto anche se lei mi farà zoppicare per sempre su questa scala. Io non sono sconfitto perché il male non resta appeso per i piedi quando lo butto dalla finestra. Il male vola. È un piccione dal petto nero e dalle ali color carciofo. E lo sa Dio come pungono sul colmo dell’aria e sulle pendici dei ponteggi pericolanti, quelle ali dirimenti (o non dirimenti?). Lo sa Dio se oltre le penne temperate c’è qualcosa che imbroglia (o non imbroglia?) la rosa mistica dei venti. Io, nel mio piccolo, credo che il cielo sia governato dalla placida precisione delle livelle a bolla d’elio. Le cosiddette Livelle del Paradiso.
Mi creda, signor Lattanzio, solo un cielo perfettamente in piano può conservare gli angeli, senza farli precipitare nelle bassure della casa a ogni tocco di vento. Altro non saprei aggiungere. Ma neanche togliere.
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Tra il quindicesimo e il sedicesimo scalino potrei mettere un segnalibro. Una foglia, una cocciniglia morta, una piuma, una spina. Non per me, per il mio domestico Tanino che qui non c’è mai, ma che potrebbe tornare dalla cantina dell’altra casa. L’ho lasciato laggiù perché non sempre si possono estrarre i domestici dalle profondità delle nostre altre case.
Comunque, a me piaceva molto viaggiare al suo seguito. Io lo mandavo avanti (a volte spingendolo dolcemente colla punta del piede) proprio come un antico servitore, con lo stoppino e l’acetilene in una mano. Illuminava i cunicoli e diceva cose di grande spessore notturno. Come tutti i domestici scavatori recitava a memoria i versetti di un oscuro sensale di Efeso. Ne canticchiava uno in particolare (credo per darsi un ritmo escavativo): “il viaggio all’ingiù o all’insù è lo stesso”. Vaticinava delle piccionaie sotto il cappello a punta della casa (di tutte le nostre case). Mi parlava del filo a piombo che scende dal parafulmine e poi diventa invisibile.
In realtà tutte le case posano sulla delicatezza dei sentimenti dei domestici, o si appendono a certi fili, come la luna di Melisso. Se tagli un filo che non è proprio dritto, la luna cade giù, e sotto, più sotto, si spalanca d’un tratto una città volante (generalmente Costantinopoli).
Proprio così – gemeva il povero Tanino tanto per assecondarmi – le mura dell’Impero d’Oriente sono tirate su con la calce aerea, tirate su dai calanchi insaponati, dalle Poltiglie di Aleppo. Ecco Tanino (confermavo), in basso calanchi e chiaviche, in alto spine di carciofo e punte di caffetano. Ogni casa sta in equilibrio tra la terra e l’aria. Chi la tira insù chi la tira in giù… (i muratori).
Poi vengono gli idraulici con quel loro terzo elemento per così dire “taletico”. Rubinetti e bidè. Sifoni e tappi a saltarello. Collegamenti con gli inferi. Gorgoglii.
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Ma non di questo ti volevo parlare.
Volevo dirti degli avverbi che qui crescono in ogni minimo cavillo dell’intonaco, nelle bolle di calce stesa male o bruciata dal clima inadatto a qualunque perfetta ristrutturazione. Volevo dirti del viaggio verso le piccionaie che un giorno o l’altro dovrà pure incominciare. Basta non inciampare lì dove metterò una piuma o una coccinella. Basta non farsi scoraggiare da Lattanzio, che giustamente, tenacemente, malignamente, mi guarda storto, mentre col cuore gonfio di sospetto lo guardo lavorare e sbagliare ab aeterno.
*Nella foto, un monotipo di Lino Mannocci.
“Gite d’autore” è un progetto curato da Andrea Cirolla.
Il primo racconto, di Francesca Serafini, è qui.
Seguiranno testi di Massimo Raffaeli, Carmen Pellegrino, Valentino Ronchi, Emmanuela Carbé (con la collaborazione di Francesco Pecoraro) e Francesca D’Aloja.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).