Cambio di rotta
È successo così: a un certo punto, senza neanche accorgermene, ho smesso di manipolare il mio sguardo nel tentativo di formarlo e semplicemente ho cominciato a guardare. E poi c’è stata solo la smània di ripartire daccapo.
Prima o poi, per esempio, vorrei tornare a Vienna spingendomi oltre il reticolo di strade in cui si è svolta la Jugend di Schnitzler che nel 1992, insieme agli scritti di Freud, costituì la mia guida personale nell’esplorazione della città. Vorrei tornare a New York per scoprire che la libreria Rizzoli in cui si incontrano Meryl Streep e Robert De Niro in Falling in love – una delle mie prime tappe, nel 1993 – oggi non esiste neanche più (una cosa da niente rispetto alle Torri Gemelle, mi rendo conto). E che da anni Woody Allen non suona al Michael’s pub col suo gruppo jazz, come aveva fatto quel lunedì di settembre in cui, per l’eccitazione di averlo incontrato, con Fabio chissà come perdemmo la chiave della cassetta di sicurezza dell’albergo, il cui recupero ci costò giusto i cento dollari di riserva che avevamo lasciato in custodia insieme ai documenti (e mi rivedo noi due – nella breve tappa intermedia di Amsterdam, nel viaggio di ritorno – a contare gli ultimi centesimi per entrare al museo Van Gogh e per una birra da dividerci, subito dopo, con cui confondere il jet lag, sdraiati su una panchina lungo un canale, ripensando alla Grande Mela: al cui cospetto, nel confronto ravvicinato e sfalsante, la capitale olandese ci sembrava poco più di una cittadina di provincia). La dritta su Woody Allen non l’avevo letta da nessuna parte: era stato Carlo a suggerirmela, e lui l’avevo conosciuto in Inghilterra quando aveva quattordici anni e io due di più.
Prima di partire, di Eastbourne sapevo solo qualche nozione scolastica (che era il posto dove Debussy aveva vissuto la storia d’amore con Emma Bardac e composto la suite sinfonica La Mer, e che Engels si innamorò a tal punto della cittadina del Sussex da lasciare indicazioni nel testamento perché le sue ceneri venissero sparse lì nella baia); e poi – venendo a me – che i miei genitori mi ci avevano mandato perché imparassi l’inglese nell’unico modo in cui si apprendono le lingue: usandole per (soprav)vivere. Poi lì ho incontrato Carlo: napoletano di origine siciliana, ricci rossi e occhi neri e lampeggianti, curiosi di tutto e con un gusto speciale per la bellezza discendente direttamente dai suoi antenati della Magna Grecia. È con lui che ho passato molte delle serate di Eastbourne, a condividere – nell’italiano dei nostri accenti diversi: che non lo sappiano i miei – quel frammento della nostra adolescenza in cui Whitney Houston poteva ancora cantare I Wanna Dance With Somebody e noi invece scappavamo dalla discoteca per andare al cinema a vedere Radio Days. Poi, per anni, solo lettere d’inchiostro – con internet e i cellulari di là da venire – finché è finita l’adolescenza.
Verso Sud
È il 20 luglio del 2013 e sto partendo con Fabio per andare a raggiungere Carlo in Cilento, a Pisciotta, dove lui si era rifugiato anni prima per preparare il concorso in magistratura (in quella che ora è la casa delle vacanze dove ci ospiterà per qualche giorno) e intanto lì aveva incontrato Giuliana – stesso scintillìo negli occhi – che oggi è sua moglie. Sull’autostrada mi rendo conto che da quando ci conosciamo, con Carlo, questa è la prima volta che mi muovo verso di lui: in ventisei anni, le volte che ci siamo visti – di media almeno una l’anno – è sempre stato lui a raggiungermi a Roma. Lungo la strada, di tanto in tanto, ho la sensazione che il viaggio sia nel tempo più che nello spazio. Mi càpita quando mi muovo verso Sud o verso Est, come è successo quando sono andata a Tirana e tutto insieme mi era sembrato di precipitare nell’Italia degli anni Cinquanta filtrata nella memoria, di nuovo, attraverso libri e film.
Per spingere all’estremo questa percezione, decidiamo di fare una tappa a Pompei, dove né io né Fabio siamo mai stati (colpa mia: tutte le volte che abbiamo un po’ di tempo per le vacanze lo convinco ad andare lontano, teorizzando che certe gite si potranno recuperare quando non avremo più la forza per spostamenti superiori alle due ore–– e intanto quanta bellezza ci precludo, però). Usciti dall’autostrada, per qualche chilometro seguiamo le indicazioni dei paesi vesuviani, attraversando stradine assolate e dall’asfalto dissestato, nella giungla dell’abusivismo campano, finché le indicazioni scompaiono del tutto e, pur avendo la certezza di essere molto vicini, ci perdiamo. Tentiamo qualche svolta illudendoci di poter fare a meno del navigatore e a Terzigno, d’improvviso, su uno stradone mi sembra di essere sul set di Reality di Matteo Garrone, riconoscendo, nelle palme altissime e nel kitsch scintillante dell’albergo che costeggia la strada, l’ambientazione della scena d’apertura del film. Subito mi appunto sul telefonino “Leopoldo Gran Parco Hotel” per le verifiche che ho provato a fare successivamente senza risultati (Google può molto, ma non tutto, evidentemente); e intanto Fabio mi invita a non perdere di vista l’obiettivo, incentivandomi a sfruttare la mia ipermetropia in cerca di una scritta che in lontananza ci suggerisca “Pompei”. E siccome incredibilmente non ce n’è traccia da nessuna parte, insieme pensiamo a questa insensata mortificazione del patrimonio italiano: uno dei più ricchi del mondo e dei meno valorizzati. Il percorso scoraggia quanto quello che conduce al deposito di Paperone, ma la curiosità del tesoro ci rende più determinati della banda Bassotti, anche perché in questo caso sappiamo di essere noi i derubati. A Scafati finalmente ci decidiamo a chiedere informazioni. Accostiamo la macchina davanti a un bar, dove un uomo – pinocchietti jeans, ciabatte di gomma nere e maglietta verde a righe bianche, stretta sulla pancia debordante – subito si avvicina sospettoso. “Scusi, per Pompei, da quale parte?”, domando. L’uomo mi guarda interdetto. Qualche istante e poi: “E a Pompei, dove volete andare?” Una donna che intanto si era affacciata sulla porta del bar non gli dà il tempo di aggiungere altro: “Gera’, e dove vuoi che devono andare a Pompei?” Gerardo guarda me, senza espressione: “Per gli scavi?” E qui capisco che siamo un passo oltre Walt Disney: siamo a Paperone che ha perso anche il gusto di nuotare tra le sue ricchezze e non ricorda neanche più di averle blindate da qualche parte. “Sì, la ringrazio”, lo incoraggio io. Gerardo a quel punto parla direttamente con Fabio, come se le indicazioni stradali fossero tutta una cosa tra uomini: la donna infatti indietreggia verso l’interno del bar. Io mi adeguo. E intanto Fabio sembra aver capito: fa un cenno di complicità a Gerardo e riavvia la macchina, che poco dopo ci condurrà a destinazione.
Arrested decay
Serve più distanza per raccontare Pompei. Sono ancora troppo scossa – stordita – dalla bellezza di questa città sontuosa e imponente eppure esposta a una fragilità colpevole. Penso all’immagine della polvere sulle ali della farfalla con cui Hemingway aveva definito il talento di Fitzgerald e penso che bisogna fare presto perché Pompei non rischi di scomparire al prossimo battito d’ali. Tutto insieme mi torna in mente la maglietta stretta di Gerardo, vorrei tornare indietro da lui a gridargli: “che ci fai al bar senza fare niente che qui vicino sta crollando Pompei?” E poi mi torna in mente anche Bodie, la cittadina fantasma californiana per cui è stata coniata la definizione di arrested decay (‘degrado bloccato’) che è quello che bisognerebbe fare anche a Pompei. Fermare il tempo. Fermare gli uomini e le donne che pensano che la colpa sia del tempo, come se quello che accade, mentre il tempo semplicemente scorre, non dipendesse da noi.
L’ulivo
Il 21 luglio è il compleanno di Hemingway. Quando lo ricordo mentre usciamo in barca – una undici metri bianca e blu a vela, che il mio immaginario immediatamente associa al Pilar anche se non è un peschereccio – a nessuno degli altri tre, comprensibilmente, appare come una rivelazione. Non potendo issare le vele per mancanza di vento, procediamo a motore verso Capo Palinuro e lì ancoriamo, in prossimità dell’isolotto del Coniglio, finché è tempo di tornare indietro in serata.
È qui che arriva una folata di vento da cui Carlo si sente immediatamente tentato. Ma non fa in tempo a issare il fiocco – meditando se procedere anche con la randa – che il mare improvvisamente si ingrossa e le nuvole minacciose che sembravano lontanissime, di là dalle colline della costa, con un niente sono sopra di noi. La barca si inclina, rischiando più volte di scuffiare e, anche se Carlo mantiene la calma dando la sensazione di avere tutto sotto controllo, vedo Giuliana impallidire. Fabio cerca di rendersi utile ma non conosce il linguaggio marinaresco e Carlo fa prima a fare da sé che a parafrasare per lui la manovra in cui avrebbe bisogno del suo aiuto (se solo gli scrittori comprendessero sempre quanto può essere vitale la scelta delle parole probabilmente molte delle loro barche non correrebbero il rischio di affondare). E io invece non faccio niente. Mi alzo solo in piedi, esaltata, per prendere in faccia gli spruzzi di schiuma delle onde che continuano a frustare la barca e in quell’istante preciso, in uno sguardo lungo ventisei anni, intercettando quello di Carlo, ritrovo di colpo la curiosità imprudente dei due adolescenti di Eastbourne.
Di ritorno dal porto, in macchina c’è un silenzio irreale. Con tutta evidenza, frammenti degli istanti più pericolosi della piccola traversata stanno rimbalzando da una testa all’altra, mentre la tensione decanta. Ma neanche quando resto sola, in giardino, mentre gli altri finiscono di prepararsi, affiora una lucidità tardiva a suggerirmi pentimenti. Piuttosto, dato che mi sento ancora molto viva, resto fissa a contemplare gli ulivi secolari che circondano la casa. Sono alti, col busto spesso e una chioma foltissima. È una cultivar specifica della zona – la pisciottana – particolarmente resistente alla siccità e alla salsedine, con cui si produce una qualità di olio molto profumata. I Greci considerano l’ulivo un dono di Atena, ma da queste parti preferiscono raccontarsi la storia di Eipnelas e di Aitas: i due ragazzini, spaventati dall’idea che la loro amicizia potesse finire per colpa di Kronos, si rivolgono ad Apollo che, esaudendo il loro desiderio, quando sono abbracciati, li unisce per sempre trasformandoli in una pianta di ulivo che da allora rappresenterebbe per questo pace e amicizia. A pensarci, mi accorgo di non aver mai sentito una storia tanto insensata. Non tanto perché non saprei che farmene dell’eternità impiantata nella terra, ma perché, specie nelle amicizie, proprio al contrario tendo a fidarmi della selezione di Kronos. Non ne conosco nessuna che meritasse di essere continuata che si sia estinta per sempre, e nessuna che sia durata senza che da una parte e dell’altra – fosse solo con un pensiero da lontano, come dal traliccio delle Conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino – non ci si preoccupasse di alimentarla col giusto nutrimento. È sempre un fatto di assunzione di responsabilità; e sebbene stando al mito – facendo finta che senza la loro scelta dissennata non ci sarebbe stato uno dei frutti più preziosi del Mediterraneo e il meraviglioso nettare che ne deriva – mi senta grata a Eipnelas e a Aitas, ora che Carlo mi raggiunge e propone anche a Fabio e Giuliana un ristorante vista mare in cima al borgo antico di Pisciotta, non baratterei per un secolo di eternità un’ora da lassù. Finché ce ne saranno per continuare a guardare.
“Gite d’autore” è un progetto curato da Andrea Cirolla.
Dopo il racconto di Francesca Serafini, appariranno i testi di Roberto Amato, Massimo Raffaeli, Carmen Pellegrino, Valentino Ronchi, Emmanuela Carbé (con la collaborazione di Francesco Pecoraro) e Francesca D’Aloja.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).