Pratiche di realtà

da | Set 8, 2013 | Senza categoria

Luisa, Luisa, dolce nome perduto. Luisa, rimpianto della sera. Luisa, nostalgia di bontà.
Vorrei parole più ispirate, ma il fatto è che inizio a sospettare che, come il suo tono di voce comincia a sparire e il volto a confondersi con altri, anche l’amore di cui parlo sia oggi in gran parte falsità. Di Luisa conservo istantanee mentali, momenti fermati, ma a volte ho paura che si tratti di ricordi inventati. Abbiamo davvero parlato di Hamsun sotto un acquazzone estivo, così come leggo nel suo racconto Parlando di Hamsun sotto un acquazzone estivo? Ci siamo davvero “abbandonati all’incanto dei corpi al crepuscolo in una villa comunale, sotto lo sguardo del custode, lontano e lubrico” (pagina 15, op. cit.)? Certo che sì, di Luisa non dubito. Eppure il ricordo, che adesso mi pulsa nelle tempie, è un ricordo di vita, o è forse il riflesso, impoverito, di quella sua pagina scritta? Solo di queste memorie stravolte, liquide, dubbie, traditrici, mi posso dire innamorato. Lei sì che era brava. Luisa viveva di realtà.

La prima istantanea è in un giardino, quello dell’università. Il tempo: la nostra giovinezza. L’azione: progetti di fama. Mi stava spiegando le sue strategie per diventare una scrittrice. «Il mondo ha bisogno di realismo. Realismo assoluto, capisci che intendo? Realismo ad oltranza!»
Io mi fingevo riflessivo così da poter abbassare lo sguardo verso i suoi sandalini beige.
«Sono arcistufa di scrittori che credono che le loro fantasie possano interessare il pubblico! E il mondo? E la vita?»
Parlavo di classe operaia, giusto così, per stare al suo passo. Luisa annuiva frettolosa, ma non ne capiva di politica. Cambiava discorso, e risprofondavo nei suoi ricci, nei denti imperfetti che mordicchiavano la sigaretta. Soffiava via il fumo e sollevava il sopracciglio, con quella sua aria calcolatamente annoiata.
«Non potrei mai raccontare qualcosa che non avessi vissuto di persona. Ma la letteratura dovrebbe sempre essere così: carne, presente, materia e sudore».
Concordavo, adorandola.
«Se tutti facessero come me, se ognuno ci desse la sua testimonianza, la scrittura diventerebbe finalmente il calco fedele della donna e dell’uomo».
Luisa, al terzo anno di lettere moderne. Unica figlia di un professore di liceo. Luisa, di madre assai ingrigita, con varie tendenze depressive. E diplomata al liceo classico, con votazione medio-alta. Pochissimi viaggi, una relazione finita da poco con un suo squallido compagno di corso. Pensavo, in silenzio, che trasformare queste esperienze in un romanzo anche soltanto vagamente avvincente potesse costituire un problema. La vita. La vita di Luisa era ciò che di meno letterario esistesse. Mi preoccupavo, ma non lo dicevo. La sognavo in classifica, baciata in fronte dal successo. Baciata da me, per tutto il resto.

Il primo racconto su cui si era già messa al lavoro era la descrizione puntuale di una sua gita in Val Camonica, là dove “fissando rapita le sponde incantate del Lago d’Iseo”, aveva intuito di provare profonda attrazione per il tabacco e la caffeina. Me lo consegnò una settimana più tardi, pretendendo che lo leggessi accanto a lei, sulla panchina della facoltà. «Pregnante», le dissi. Il suo sguardo orgoglioso è la seconda istantanea che conservo di lei. Aveva intenzione di stilare i resoconti fedeli di tutti i ricordi dell’infanzia, di ogni avventura dell’adolescenza. E il fatto che infanzia e adolescenza non fossero stati più significativi o intriganti dell’infanzia e dell’adolescenza di chiunque altro, per lei era soltanto una virtù. «La vita vera, senza inganni. Esperimenti di realtà».
«Luisa, – azzardavo – ma se la gente ha già vissuto quello hai vissuto tu, perché dovrebbe aver voglia di leggerti?»
«Stupido. Vedi che sei stupido?» Fissava un punto all’orizzonte e mi atterriva scostandosi la frangetta dagli occhi. «Perché io lo so aggettivare meglio».
Forse era questo, il suo segreto. Povero, timido studente di lettere: leggevo libri per fuggire. M’ero votato a Melville e a Kipling per sognare, e mi ero sempre ripetuto che, se si sceglie la pagina scritta, è perché una vita non ci basta. Leggevo per vivere altre storie. Ma questa mia arte di sottrarmi mi aveva portato ad essere schivo, e a guardare Luisa attraverso le rime dei poeti, a confonderla con le illustrazioni e con le immagini delle copertine. Lei no. Aveva fame e aveva sete. Calata nel mondo, sapeva che scrivere significava immergere la mano nel metallo liquido dei fatti, per pescare l’essenza e aggettivarla a piacimento. Senza tradirla, letteraturizzarla.
Dopo La gita in Val Camonica, il suo racconto successivo segnò il primo blocco da scrittrice. Una stanza era il ritratto puntiglioso della sua camera da letto. La rincontrai sulla panchina, nervosa e frenetica come le succedeva spesso davanti ai più lievi fallimenti. «La scrivania va pure bene. Ma la parete, oh Dio, la parete!» Smaniava. «E il lettino da bambina? E lo squallore dell’arredamento: il comodino, la cassettiera, l’armadio». Perché quell’insoddisfazione, che l’era spuntata al secondo paragrafo, era in realtà insoddisfazione verso la sua esistenza stessa. «Ho una vita borghese, ecco cos’è. Altro che stanza, altro che casa! È che ho giornate senza intreccio».
«Potresti scrivere di questo. Alienazione!»
«Sciocchezze. E la carne? E la materia?»
«Potresti cercarli». Le asciugai una lacrima. Le strinsi un braccio, per conforto. «Luisa: ne hai ogni qualità».
“In quell’istante, e per la primissima volta, riuscii ad avvertire la sua libido prepotente. Lo scongiurai di riportarmi a casa, e fu in quella tarda mattinata che l’aria ricolma di ricordi d’infanzia della mia cameretta rosata si saturò completamente dei sospiri soffusi di due amanti”.
Così almeno leggo nel finale del primo racconto che le riuscì di pubblicare, terzo all’interno di un’antologia scabrosa di giovani autrici di letteratura erotica. Fu quello l’inizio della gloria. L’epoca dell’impudicizia, la liberazione dei costumi, vide in Luisa un talento perfetto. Le sue confessioni di vita vissuta fanno ormai parte delle lettere patrie. Quello che ancora stento a credere è fossi io il protagonista di quei suoi esordi passionali. Io, con la testa ancora in subbuglio. E io, con il tarlo del sospetto di essere usato per scopi autoriali.
«Luisa, – dicevo – sono contento per te».

La terza istantanea la ritrae distante, pensosa sul letto. Sembrava insensibile alle mie carezze. «D’accordo, d’accordo, il racconto va bene». Ed in effetti, l’irruzione del mio personaggio nella sua cameretta piatta aveva dato alla trama una svolta. «Ma adesso? Dovrei puntare un po’ più in alto. A un romanzo potente. Hai mai letto Moravia?» All’improvviso mi sentivo a disagio. «Bisogno assoluto d’ispirarmi» sbuffò, rivolgendomi un’occhiata implorante.
Non è per vergogna, non è questo. A ventun anni, vedersi letteraturizzati, in ogni parola, in ogni gesto, è un ottimo spunto per la vanità. E così vivere e parlare sapendo di essere già parte della pagina scritta: aiuta soltanto l’autostima. Confesso, mi sentii onorato. E mi servì come palestra. Quel che ho imparato dell’arte amatoria, lo devo a quei giorni di realtà. E se come critico letterario sono riuscito ad affinare lo stile, è stato grazie all’attenzione che avevo iniziato a porre a ogni frase che dicevo, a ogni aggettivo o esclamazione: sapevo che tutto rischiava di finire dentro i racconti di Luisa.
È l’ambiguità del nostro amore, quel che non fa dormire la sera. Non c’era alcun dubbio che quanto descritto, nella dovizia dei particolari di un’Avventura di periferia – il primo romanzo, tutt’ora in ristampa – corrispondesse a verità. Certo che il cardigan al centro della scena più forte de Il cardigan fosse il mio cardigan di allora. Ma Luisa, eroina di realismo, riusciva a guidare la nostra storia con la maestria della romanziera. Luisa iniziava a cambiare la vita per asservirla ai suoi bisogni. Voleva realismo? Aveva bisogno degli eventi. Mi aveva costretto a perversioni in un cinema per passione, o per dare sale al suo racconto Perversioni in un cinema? E quando mi svegliava a notte soltanto per dirmi: «Ti amo», era il suo affetto che parlava, o le esigenze strutturali?

Il giorno in cui, nel modo più letterario possibile, venni a scoprire della sua relazione clandestina con il suo vecchio compagno di corso, mi limitai a sedermi sul letto, tra lui che taceva e lei che piangeva, protagonista della scena madre. «Luisa, – obiettai – non ami davvero questo torsolo».
«No, forse no. È stato il furore prepotente della carne».
«Luisa, stai solo cercando di complicarti la vita per scriverci su un nuovo romanzo. Forse se certe cose venissero lasciate all’immaginazione…»
«Capisco, – rispose – capisco che non puoi comprendere. Né perdonare. È giusto. Sparisci, ora, e lasciami con il mio peccato».
«Ma la vuoi smettere? Non c’è bisogno di vivere tutto per descriverlo! Non c’è bisogno di rovinare le cose per adattarle al tuo copione! Luisa…» Le carezzai un piede mentre il terzo incomodo si eclissava prudentemente in salotto. «Potremmo essere felici».
Si limitò a guardarmi fredda. «Io riesco a essere felice soltanto quando mi rileggo».

Finì con Luisa. Ma non finì la sua carriera, come chiunque già saprà. Da lontano, straziato, ne seguivo le imprese sui giornali. La moda della letteratura erotica aveva lasciato il posto ai racconti introspettivi, alle autopsie dell’universo familiare. Si sposò, e credo di proposito, con l’uomo più insignificante che le riuscì di trovare. Ebbe altri amanti, così come appresi dal suo best-seller Gli amanti, e divorziò, “con l’emozione con cui una vergine si può apprestare all’altare” (Il divorzio, p. 125). Quando il paese si innamorò della letteratura esotica, partì per l’India e si lanciò in una relazione tormentata con un magnate di Babar Pur. Tornò in Italia, sopportò un calo delle vendite intorno ai trentatré anni. Si suicidò, con grande successo, durante il trionfo dell’esistenzialismo francese. In punto di morte, mentre attendeva un po’ impaziente l’effetto dei medicinali, fece in tempo a descrivere le proprie emozioni in una lettera d’addio che resta tra le opere del realismo migliore. Cadde riversa sulla scrivania, lo sguardo vitreo, le dita contratte, e un vago sorriso sulle labbra violacee.

Oggi Luisa s’è fatta irreale. Quando non leggo per lavoro, sono tornato ai primi amori: i vecchi libri d’avventura, le fughe dal mondo che mi fanno felice. Eppure non posso fare a meno di ripensare alla sua lettera, a quel finale strepitoso del suo esperimento di realtà. “La vita è un brogliaccio senza scopo, – scrisse – senza capitoli, struttura, colpi di scena, capoversi o morale. Viverla appieno, e inventarsene il senso, significa farsi romanzieri”. Così, ancora adesso, davanti a ogni gioia, a ogni imprevisto e ogni dolore, ripenso a Luisa, a quei giorni perduti. E quando la vita si fa letteraria, e degna di essere descritta, sospiro, sorrido, e m’illudo di scorgere, dietro la casualità degli eventi, il suo tocco impagabile. Il tocco da autentica maestra, che qualcun altro, casomai, può scegliere di chiamare destino.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).