E finalmente suona la musica.
Una musica che chiede il trionfo e il raccoglimento mentre le luci artificiali cambiano la dimensione delle cose. Il cielo è ancora azzurro. Sono quasi le nove e le lampade ingialliscono la terra di albero, schiariscono il manto di Datilero, fanno brillare i lustrini sul vestito di Manuel Escribano. Lui sembra preso da un dèmone, sembra che non veda altro che Datilero davanti a sé, un animale in cui forse si specchia, e in cui convergono, come se si fossero dati appuntamento, tutti i fili del suo destino. Escribano ha una storia che pochi conoscono e anche l’uomo che siede dietro di me chiede lumi. E dire che viene qui da quando aveva quattro anni. Adesso ne ha quasi settanta, ha seguito tutti i toreri di Andalusia, tutti i toreri di Spagna e tutti i giovani che passano dalle scuole andaluse. Insegna tauromachia, il vecchio, ha toreato da giovane, sbatte la mano sul bastone e chiede alla ragazza accanto che guardi in fretta sul suo smartphone, che gli dica: di che anno è questo ragazzo che sta dando tutto? Quando ha preso l’alternativa? Possibile che lui non lo sappia? Lui sa che è di Gerena, ma altro no, non lo sa. Gerena è qui dietro, a pochi chilometri da Sevilla, e dunque è chiaro il motivo per cui sta dando più che tutto, sta sfidando davvero la morte, si sta gettando costantemente sulle corna del toro. Questa è casa sua, questa è una delle massime cattedre del toreo, questa è la plaza che chiunque sognerebbe. E lui, Escribano, quando ha toreato qui l’ultima volta? Possibile che nessuno sappia rispondere? Il vecchio grugnisce, si muove sul sedile, è impaziente.
E intanto il ragazzo continua a volteggiare. Si è messo per la seconda volta di fronte alla porta da cui l’animale esce. Ha mosso la cappa con ispirazione e ora volteggia sulle banderillas che infila sul dorso del toro scegliendo figure spettacolari e pericolose, perché segue la musica e chiede l’applauso. Ecco, è del 1984, Escribano, dice la ragazza. E qui non torea da sei anni. Il vecchio scuote il capo e sospira. Che nessuno sappia granché di questo matador che sta facendo esplodere la Maestranza con l’ultimo toro, l’ultimo toro in assoluto, della feria, non è cosa sorprendente. Nessuno lo aspettava. Non era in programma. I fascicoli stampati per la giornata di tori non riportano i suoi dati, non raccontano la sua carriera, non mostrano sue immagini. Il suo nome, del resto, pareva dimenticato, qui. Almeno da quando era parso torero poco spettacolare, poco artista e la sua città aveva lasciato che corresse via. Poi qualcuno ha fatto il suo nome in un momento difficile e tutti hanno detto sì, muovendo il capo, all’improvviso ricordandosi del valore e anche delle scarse pretese economiche. Non si poteva far altro. Non si poteva perdere tempo. E così eccolo qui, Escribano. Per necessità. È capitato, infatti, che il torero di gran richiamo, El Juli, sia stato ferito, proprio a Sevilla, qualche giorno fa. Una cornata di quindici centimetri e quello che era stato il bambino prodigio del toreo, il matador che il giorno di Pasqua aveva incendiato la Maestranza zuppa di pioggia, ha dovuto rinunciare alla sua grande sfida. Una sfida tutta particolare perché l’ultimo giorno di feria, la domenica che chiude la festa infinita di Sevilla, è tradizione che entrino nell’arena sei tori di Miura, i tori più noti di Spagna, quelli che hanno fatto più vittime fra i toreri, hanno ucciso, terrorizzato, sbaragliato. Tori mitici, superbi e temuti soprattutto per il carattere, non tanto per la taglia che pure può essere di per sé terrorizzante. Un carattere imprevedibile e furibondo segna la psiche di questi animali, spingendoli a improvvise giravolte, scarti inattesi e quasi felini, cornate che uno difficilmente potrebbe aspettarsi. Ebbene, Juli doveva essere qui, oggi. Aveva scelto di affrontare finalmente gli animali che le star del toreo tendono a evitare lasciandoli a chi si è fatto una carriera nel mondo dei tori duri. Il caso però ha impedito a Juli di mettersi in gioco e gli organizzatori, all’ultimo momento, hanno scelto Escribano.
Comincia la faena. Si freme nella speranza del trionfo. Datilero segue la cappa del torero che pare immolarsi. È molto strano e a raccontarlo potrebbe sembrare una peripezia della penna ma intanto Escribano si è definitivamente trasformato. Ha un volto animalesco. Grandi denti che assomigliano a denti di cavallo, zigomi alti e guance incavate, occhi sporgenti, in cui la sclera bianca brilla nella luce come l’oro dei suoi alamares sfiorati dalle corna di Datilero mentre infilava sul suo dorso l’ultimo paio di banderillas al violin, dopo una finta di corpo che ha dato i brividi. Penso alle notti insonni prima di tornare in questa plaza, i due giorni di preparazione intensa e concentrazione e le ore che si allungavano e accorciavano nell’attesa. Un concentrato di tutte le notti passate negli anni di tristezza, malinconia, improvvise speranze, sogni. Penso a quante volte dev’essersi svegliato di notte con l’incubo della fine o con il sogno troppo luminoso di un trionfo. Ho sentito raccontare così spesso la storia: ragazzi messi nell’angolo, dimenticati, terrorizzati dal vuoto, pieni di speranza e di fantasticherie, destinati a notti da brivido, con le mille immagini di trionfi irreali o di epiloghi tragici che scintillano nella dimensione onirica. Ma non sta ricordando nulla, adesso, Escribano. Semplicemente si sta lanciando sul suo toro, il suo ultimo toro, l’ultimo toro di Sevilla. E proprio mentre si ferma a guardare negli occhi Datilero e sulla plaza cala uno di quei silenzi sacri che solo in questo mese e solo a Sevilla puoi sentire, il miracolo comincia a avverarsi. Un canto lacera l’aria. Un uomo si è alzato in piedi e tra la folla che stipa il tendido meno costoso, quello che è teoricamente esposto al sole, comincia a cantare la sua invocazione flamenca. È come una saeta al passaggio della Vergine Macarena o del Cristo del Gran Poder. Una saeta che rimpiange e ammira, racconta e invoca, chiede perdono per tutti i peccati del mondo. Allora il pubblico esplode, la banda ricomincia a suonare e Escribano e il suo toro diventano una sola cosa, una sola figura, un intreccio tale di uomo e bestia che tutti noi abbiamo la possibilità di vedere vivo, adesso, quell’essere che crediamo mitico o immaginifico: il minotauro.
Eccolo qua, il minotauro di tutti i libri, da quando eravamo bambini a quando abbiamo potuto leggere di Creta, Minosse e Pasifae. Escribano e Datilero, un essere sacro, un animale immolato per la felicità della festa e per la festa che deve sconfiggere la morte. La Maestranza è diventata un sospiro unico, un corpo solo come il corpo di Escribano e di Darilero. Giorni e giorni a aspettare, giorni di corride dignitose, noiose, buone, discrete, e qualcosa si trova sempre, diceva Bergamìn, qualcosa di bello si trova anche nelle corride più noiose e grigie, sì, lo diceva il poeta, l’esperto, ma meglio le grandi corride, meglio le serate epocali. D’altronde la Maestranza è generosa, il pubblico vuole godere, provare piacere infinito, e così la Maestranza riesce a toreare in prima persona anche i tori dei toreri che non ne hanno più, come per il sesto animale della serata più attesa, quella terribilmente deludente di Manzanares. Adesso però non serve. Non serve che il pubblico spinga il suo torero. La Maestranza può sognare a occhi aperti. E tacere. Così, quando arriva il momento della verità, non si sente volare una mosca. Fuori, le macchine che dovrebbero passare sul Paseo Cristóbal Colón, lungo il Guadalquivir, sono scomparse. C’è solo l’attesa della figura perfetta. Il vecchio dietro di me lo bisbiglia: “forza, lanciati, lanciati alla morte, Escribano, non aver paura ora”. Si sente il rumore impercettibile della muleta che si muove nell’aria, il grido del torero, vediamo la croce immaginaria formata dal suo braccio sinistro che chiama il muso di Datilero e il braccio destro, la spada che sale oltre le alte corna, poi c’è solo il corpo di Escribano che si tira a morire, che si unisce alle corna del toro, le evita, la spada immersa fino all’elsa, l’animale che traballa, sussulta e cade. Il sacrificio. La morte e la vita.Trionfo, lacrime. Datilero, magnifico Miura di 563 chili, nato a Lora del Rio, finca Zahariche, quasi cinque anni fa, è osannato. Il pubblico chiede il massimo dei trofei. Il presidente concorda. Datilero viene spinto sulla sabbia in un giro d’onore e riceve da morto ciò che nessun animale allevato può mai sognarsi, ossia il rispetto, l’ovazione, quindicimila persone in piedi, l’applauso più lungo, l’unico applauso eterno che quest’anno un toro abbia ricevuto alla Maestranza. Escribano raccoglie le due orecchie dalle mani dell’ alguacil e percorre lo stesso giro del toro con cui ha realizzato i suoi sogni. Il vecchio dietro di me fa grandi gesti ma non ha più forze, è come in pace, svuotato, si appoggia al bastone e mormora: “ah, questa è toreria. Per questo andiamo e andremo sempre ai tori”.
Che cos’è la toreria. Che cosa enorme la toreria. Che grandezza lascia in tutti noi, la toreria. Questo concetto tanto difficile da spiegare. Che ha a che fare con i tori ma non si esaurisce in essi. Che racconta uno stato d’animo, una propensione, un’attitudine, un ideale. Qualcosa che ha a che fare con un modo di camminare, di guardare davanti a sé, di tenere la testa alta, in tutti i sensi. E molto di più. Tutto quello che ha mostrato Escribano ora e in parte anche gli altri due toreri della serata, con i loro aiutanti. La toreria. Come spiegarla? Pochi giorni fa, alla feria, ho visto un’anziana donna spagnola che insegnava lo stile a una straniera. Si trattava di ballo, sevillanas, ovvio. La ragazza straniera capiva al volo, seguiva i movimenti, aveva ritmo e memoria, sapeva bene come replicare le fasi del ballo. Certo, non era che agli inizi, ma la vecchia spagnola era orgogliosa di lei e le dava mille suggerimenti, consapevole che avrebbe imparato. Solo in un’occasione, però, la donna è stata risoluta e drastica con la ragazza. È stato quando le ha preso in mano il mento e lo ha alzato, lo ha spinto in su con forza, quasi con violenza, come a voler essere ascoltata davvero e una volta per tutte. Stava suggerendo all’apprendista che un aspetto formale è assolutamente necessario, se si vuole davvero crescere nell’arte. Si tratta di una specie di fierezza, quell’orgoglio andaluso, il sanguigno fare i conti con se stessi, la decisione, l’atteggiamento forte, visceralmente prepotente, di chi si vergogna solo di potersi mostrare vergognoso, di chi ha un senso dell’onore che va oltre se stesso e che andando oltre se stesso va a creare proprio se stesso. Ecco, tutto questo, tutto questo che in Andalusia potreste vedere nei balli e in certe epocali scenate d’amore, schermaglie di fierezza e onore, tutto questo lo ritroverete in un concentrato assoluto in quella che viene chiamata toreria.
Servono alcune nozioni, però, per spiegarsi. Innanzitutto la vergüenza, ossia la vergogna, che in Spagna ha due facce, non solo la tensione a vergognarsi di ciò che è vergognoso ma la tensione a esaltarsi quando non ci si può in nessun modo vergognare, ossia quando si manifesta una tale forza interiore che è impossibile poi provare vergogna. Quando dunque si mostra invece la vera vergüenza, ossia il pundonor. Ecco l’altro tassello: il punto d’onore, letteralmente, niente che abbia colori politici, come una trita retorica di sinistra ci ha ormai abituati, senonaltro in Italia, a pensare. Semmai quel che proprio lo stesso termine italiano racconta: punto d’onore, amor proprio. Assieme a vergüenza e pundonor c’è però un’altra nozione ambigua a completare il quadro che può spiegare la toreria. L’ambiguità qui è sostanziale, come per la vergüenza, ossia è connaturata al concetto stesso e anche al termine spagnolo. Sto parlando dell’ilusiòn, che in spagnolo, come vergüenza, non ha solo il significato per così dire negativo che noi attribuiamo in italiano. Ilusiòn significa semmai sogno, speranza piena, desiderio ardente, talmente ardente che quando muore e si esaurisce diventa pura e semplice illusione. Ebbene, pundonor, senso di onore, ossia rispetto di sé; vergüenza, ossia capacità di non vergognarsi; ilusiòn, ossia speranza ardente. Sono questi i tre tasselli che costituiscono il cuore della toreria. Quel che abbiamo visto risplendere sulla Maestranza di Sevilla stasera.
La feria intanto è al termine. Si aspetta solo mezzanotte per i fuochi d’artificio finali. Il pubblico della Maestranza sciama a piedi o in calesse verso gli ultimi scampoli di questa infinita festa. Alla Bodega San José passano di mano in mano panini alla pringá, coppe di alcolici, bicchierini di vinello di Jerez, piatti di gamberetti bolliti e cosparsi di sale grosso. Di nuovo si tenta di raccogliere in un gesto il senso della serata. Lo sguardo, la fronte, le figure, lo scintillio dell’abito, le corna di Datilero che saranno presto lavorate da un impagliatore a dare eternitá all’animale nobile e selvaggio. E come fanno allora a Parigi senza tori? E come fanno a Roma, a Londra, Berlino, New York, Barcellona? E come fanno in tutte le città in cui non è possibile vivere quel che ha vissuto Sevilla stasera? Questa è la domanda definitiva. Perché il mondo dei tori può dare infinite delusioni. Ma quando risorge, risorge per sempre. E ti spinge a pensare che non ci possa essere nulla di più grande, nulla di più eterno e immortale. Quelle emozioni che hai provato lì, in quel momento volatile e effimero, come potrai mai più provarle? E come potrai raccontarle? Forse dovresti solo dire quel che basta, ossia che quella sera c’eri e che quella sera è successa una cosa straordinaria come stasera, quando su Sevilla, sulla fine della sua festa, prima che la sua festa infinita volgesse definitivamente al termine, ha brillato lo spirito eterno della toreria incarnato nell’animale che l’uomo creò proprio per sconfiggere la morte: il Minotauro.
La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
La seconda qui.
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Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).