Il sociologo francese, Emile Durkheim in una sua importante riflessione sull’argomento, arrivava alla conclusione che il suicidio dipendesse più da dinamiche sociali che da problematiche individuali. E ammoniva dal considerare la società come mera somma di individui, trattandosi di un organismo più complesso di condivisione di istanze personali.
La parola “condivisione” è la parola chiave del nostro tempo ed è la parola chiave per capire le nuove generazioni.
Se qualcuno si domandasse “perché una ragazza di oggi può uccidersi?” ecco una possibile risposta in presa diretta:
“Una sera era a una festa di fighetti, quelli pieni di soldi che frequentava le sere in cui noi non potevamo uscire. E quelli che hanno voluto coprire la cosa nei mesi passati. L’hanno fatta bere troppo, e si è sentita male. È andata in bagno e l’hanno seguita, lei barcollava, l’hanno circondata, le infilavano un dito in bocca e le chiedevano di fargli… e nel frattempo la filmavano!”
Da manuale. Sembra prenda spunto da una canzone de I cani, un gruppo elettropop romano: “I pariolini di 18 anni comprano e vendono motorini, danno le botte di cocaina, fanno i filmini con le quartine, perché anche se non fosse amore, non per questo è da buttare”.
Le “quartine” sono appunto le ragazzine di prima superiore. Cioè di 14 anni.
Qualunque fosse il suo contenuto è un fatto che il video di quella sera finisce su Facebook. Viene condiviso. Le arrivano 2600 messaggi di insulti in poche ore. Lei non regge la pressione di quello che oggi viene chiamato “cyber bullismo” (una parola idiota per un concetto idiota). E si toglie la vita attribuendo la responsabilità del suo gesto alla “cattiveria della gente”, soprattutto via web.
Ma i social network sono anche lo strumento con cui il dolore per la perdita trova il suo sfogo. Svariate le pagine in cui questa ragazzina continua a postare commenti, molte le lettere destinate direttamente a lei. Basta farci un giro per rendersi conto che l’emotività, sovraesposta, di ragazzini e adulti, è della stessa matrice dell’odio che l’ha condannata. Il filo conduttore è un’illogicità di fondo e un fiume di parole senza filtri, senza nessuna rielaborazione, da condividere assolutamente.
Questo nostro tempo è contraddistinto da un’immediatezza inedita, in cui ogni minuscolo atto quotidiano deve essere condiviso immediatamente perché diventi reale. E, data l’enorme rilevanza data ai personaggi famosi, quando condividono le loro faccende, anche noi ci convinciamo che interessi a qualcuno del nostro compleanno, della nostra gita al mare, del nostro disappunto su ogni questione politica o sociale e della nostra gioia privata. Come piccole tribù ci seguiamo a vicenda su Twitter, rilasciando costanti dichiarazioni, auto rispondendo a interviste precostituite da noi stessi su Tumblr, condividiamo le nostre fotografie su Facebook o su Instagram, affinché i nostri accoliti possano seguire i nostri pellegrinaggi.
È la massimizzazione, quella che stiamo vivendo, dello stracitato aforisma di Andy Warhol: in futuro saremo tutti famosi per 15 minuti. Avrebbe dovuto aggiungere: ma solo nella nostra testa. Perché i vip restano. È la nostra percezione a farci pensare che il nostro parere e le nostre giornate siano di un qualche interesse per gli altri, come quelle delle “persone veramente importanti”. Qualche pazzo, vaticina che siamo di fronte alla democratizzazione delle possibilità e inneggia a frodi come il self-publiching e alle autoproduzioni musicali come se fossero una rivoluzione senza precedenti. “Se ce l’ha fatta Justin Bibier” o “Se ce l’ha fatta Lana Del Rey”, perché non tu, col tuo gruppetto di musica alternativa post-punk-elettro-dubstep? Se quella è stata notata da quello stilista per il suo book on line, se quella si fa pagare per i suoi autoscatti su Instagram, perché non tu, che te ne vai in giro con quattro stracci trasparenti e stai meditando di acquistare quel nuovo perizoma che non si indossa ma si appiccica addosso?
Niente di nuovo.
Ma cosa è cambiato oggi?
La cosa oggi è diversa nelle dimensioni. E la quantità si traduce dialetticamente in qualità.
Viviamo con immaginarie telecamere sempre puntate, le macchine fotografiche (e i filtri dell’iphone) ci cacciano come se fossimo animali pregiati ed eccoci, sul nostro piccolo palco, ad aspettare gli applausi. L’approvazione sociale si costruisce sui like e sui followers che otteniamo raccontando e riraccontando la nostra vita.
Ogni distanza, ogni sana e rispettabilissima distanza, viene a saltare. Cantanti, politici, scrittori, personalità di vario genere parlano direttamente coi loro seguaci, rispondono ai complimenti, si indignano per le critiche.
E siccome le critiche possono essere mosse, in un tempo brevissimo, da enormi quantità di persone, ogni frase si amplifica fino a rendere intollerabile, anche per personalità affermate, quel muro di diffamazione.
E questo è ancor più vero quando la mancanza di strumenti culturali permette ai rumors di riecheggiare nel vuoto pneumatico delle nostre coscienze.
Il mondo dei quattordicenni di oggi è già radicalmente diverso da quando, pochi anni fa, con un romanticismo oggi in disuso, i Baustelle cantavano a proposito di una ragazzina di quattordici anni di ieri che si era tolta la vita: “Con una bic profumata da attrice bruciata, La guerra è finita, Scrisse così”.
Oggi l’ultimo messaggio è uno status. Che non profuma di nulla. Questi ragazzini hanno l’imperativo di condividere tutto. E tutti questi video e tutti questi messaggi, nel bene e nel male, sono quello che resta di una ragazzina suicida. Una moderna lapide virtuale su cui postare (e ripostare) nuove epigrafi.
Epigrafi che mi sembrano, a prima vista, mostruose. Mostruose perché nella loro inconsapevolezza sono irrimediabilmente kitsch. Cosa sia il kitsch ce lo spiega mirabilmente Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere. Libro che ho trovato noioso e infantile come romanzo ma strabordante di intuizioni geniali e lezioni filosofiche, come saggio sul futuro. Cioè il nostro presente.
Il kitsch, per Kundera elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile e si pone come l’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere. In altre parole, nel regno del Kitsch, impera la dittatura del cuore e i sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone.
Il Kitsch bandisce dalla vita tutto quello che turba. È il dominio dei gattini negli scatoloni, delle foto allo specchio con la lingua di fuori e delle frasi costruite per produrre, in chi ne usufruisce, un sentimento univoco, un “ooooohhh” corale in cui la zuccherosità dei baci Perugina, sia il livello medio dello stato mentale dei nostri avatar. Il kitsch fugge l’individualismo, il dubbio e l’ironia.
Ed esprime sentimenti tanto universali quanto pienamente condivisibili. Questo è il problema. I sentimenti univoci che questi messaggi vogliono produrre, con la loro faciloneria, riducono tutto a una questione di like (non è un caso che l’unlike, come bottone da cliccare, non esista). Quanti ne conquisterò con questo post?
Tutto questo, associato al lutto, mi sembra terrificante e mi viene voglia di condannare, senza appello, queste pratiche in cui foto di gatti e cuoricini, tempestano le pagine in cui si condivide una tragedia senza alcun pudore.
Ma d’altra parte non è forse estremamente sgradevole agli occhi di ogni ateo, la liturgia cattolica durante le esequie? Non è forse improponibile agli occhi di un illuminista, tutta quella paccottiglia ideologica delle religioni pagane o politeiste? Cosa penseremmo oggi dello sfarzo con cui gli antichi egizi seppellivano i loro faraoni, accompagnandoli con oggetti di cui un corpo putrefatto (o, in quel caso, mummificato) non avrebbe potuto in alcun modo servirsi?
La morte è un fatto biologico i cui processi sono scientificamente studiabili e, nonostante le sue cause possano essere molteplici, esistono parametri clinici e legali di cui l’umanità si è dotata per distinguerla dalla vita. Questi parametri possono essere più o meno parzialmente discutibili. Ma, in buona sostanza, sono dati di fatto di cui possiamo empiricamente renderci conto. Invece. La cognizione del dolore, e la gestione del dolore, sono determinate dal tempo e dallo spazio in cui ci si trova. E non esiste (e non può esistere) un metro di giudizio oggettivo con cui misurare l’accettabilità o l’inaccettabilità delle pratiche con cui gli esseri umani cercano di esorcizzare la morte e tentano di dare un significato alla (propria) vita.
Non so, quindi, cosa pensare di questi ragazzini di oggi, né del loro dolore, né delle loro colpe, né della loro fragilità. Penso che il bisogno di condivisione sia un imperativo antico. E che i social network siano una variante di forme di aggregazione millenarie che amplifica l’eco delle nostre Confessioni. Forse il punto non è tanto censurare o snobbare le nuove forme di liturgia, quanto riflettere su quali strumenti critici riusciamo a trasmettere alle nuove generazioni e quali strategie di sopravvivenza suggerirgli per affrontare questo mondo, in cui, il Grande Fratello, siamo diventati noi.
Questa riflessione prende spunto da un articolo di cronaca apparso su Panorama.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).