Mi piacciono i libri in cui il Personaggio del Padre è importante. Figlio di genitori divorziati, mi hanno sempre interessato, in particolare, i romanzi con un padre morente o direttamente morto. Al liceo ero un grande fan dello schiaffo che il padre di Zeno gli rifila sul letto di morte e il mio libro preferito era Il Male Oscuro.
Mettetevi nei panni di un sedicenne che ha problemi col proprio padre e che sfogliando le prime pagine del Male Oscuro capita su un passaggio di questo tipo: “A forza di scoprire contraddizioni e deficienze, riuscii gradatamente a liberarmi della sua strapotenza e a passare, con l’alzata di testa dell’arruolamento volontario, alla seconda fase, quando, francamente, questo padre arrivai a mettermelo sotto i piedi, tanto da poterne avere addirittura pietà qualche volta”.
Tutto questo mi sembrava una questione estremamente seria, degna di essere approfondita leggendo Jung. Recentemente però ho riletto un centinaio di pagine del Male Oscuro e le ho trovate spassosissime. La parte in cui il figlio non riesce a restare nella stanza d’ospedale per via dell’alito cattivo del padre già più di là che di qua? Meravigliosa. Quando si chiede se è il caso di farlo operare perché sopravviva con un ano artificiale o se sarebbe più dignitoso farlo morire e basta? Spassosissimo.
Mi ero accorto che Berto faceva ridere la prima volta che l’ho letto?
Ho sempre pensato che quello fosse un modo di compensare, di compatirmi magari, adesso mi chiedo se invece non mi stavo vendicando di mio padre leggendo Giuseppe Berto.
Ad ogni modo, una riflessione di questo tipo mi ha spinto ad interrogarmi sui padri e i figli che compaiono nei romanzi che ho amato in tempi più recenti (e, si spera, con maggiore consapevolezza). Adesso vorrei analizzare la figura di Phil Preminger e di suo figlio Marshall, protagonista, quest’ultimo, del racconto Il Condomino di Stanley Elkin. (Il modello alla base del racconto di Elkin è La Resa dei Conti di Saul Bellow, anch’esso dotato di una meravigliosa Figura Paterna di cui parlerò nella seconda puntata.)
Il Condominio
Marshall è un quasi quarantenne negli anni settanta, conferenziere fallito, ormai senza agente, con l’unica prospettiva concreta di scrivere la tesi e ereditare dal padre morto prematuramente. In aereo, mentre si sta recando a Chicago per il funerale, chiede alla hostess carta e matita e si fa i calcoli su quanto potrebbe guadagnare dalla morte del padre.
“Lavorando su cifre vecchie di almeno quindici anni (e per di più basate su cose che aveva origliato, su casuali sbirciatine a libretti bancari, vaghi ricordi di alti premi assicurativi, frammenti di ricordi dell’umore di suo padre risalenti a quel paio di volte in cui si era vantato di aver comprato delle obbligazioni che poi gli avevano fruttato il doppio o il triplo), fece una stima della sua eredità: doveva essere sui duecentoventicinquemila dollari”.
Lordi. Farlo fantasticare sull’eredità è un modo stupendo di farci capire che Marshall non sa quasi nulla del padre.
Quando vede per la prima volta il corpo del padre, un dipendente delle pompe funebri che passava di lì gli fa:
“Sembra assurdo (…) ma gli hippy fanno proprio un figurone nella cassa da morto”.
Il padre nel feretro aveva un aspetto stranamente sano, “florido”; indossava “giacca edoardiana, camicia con una fantasia da carta da parati, cravatta della stessa stoffa della camicia”. Vestiti che Marshall non gli aveva mai visto addosso. Si era fatto crescere capelli e basette. Secondo Marshall il padre emanava “un oscuro senso di potenza”. Secondo il tipo delle pompe funebri che, si presume, di corpi doveva vederne parecchi, era solo un hippy e da morti gli hippy venivano meglio degli altri.
Ecco come si svolge la conversazione tra Marshall e un collega del padre al cospetto della salma. Il primo a parlare è Joe, il collega:
“Non sarebbe mai dovuto andare in pensione” (…)
“Joe, mio padre era esausto. Non ne poteva più di viaggiare”.
“Nessuno gli impediva di lavorare in ufficio. Nessuno gli impediva di dettare le condizioni”.
“Era un commesso viaggiatore”.
“Nessuno gli impediva di condurre le vendite dall’ufficio. Il settore dei gioielli su misura non sarà più quello di una volta, ma ci sono ancora acquirenti che vengono fino a Chicago. Nessuno gli impediva di assumere dei giovani non ancora laureati e mandarli a battere il suo territorio così da avere il tempo di vedere tranquillamente i clienti in ufficio. Nessuno gli impediva di usare il telefono. In tanti lo fanno”.
“Mah, non saprei”.
“Era una questione di invidia. Non voleva che la gente pensasse che lavorava per me. Non mi sopportava. Io volevo bene a Phil, ma lui ce l’ha sempre avuta con me”.
“Che sciocchezze. E di cosa doveva essere invidioso? Era un uomo molto dinamico”.
“Era un portento, ma era invidioso. Lo è sempre stato. Io ero un dirigente e lui un commesso viaggiatore. Non guadagnavo più di lui, anzi era lui che guadagnava di più, ma io avevo più benefit. Essendo un dirigente avevo diritto a un maggior numero di azioni. E a lui questa cosa non andava giù.”
“Gli piaceva il suo lavoro”.
“Lo odiava. Gli sarebbe piaciuto avere la sua scrivania personale, nel suo ufficio personale, con la sua segretaria personale, e non una dattilografa qualsiasi. Gli piaceva l’idea di fare scena. Quando la ditta si è presa il settimo piano del Great Northern Building io mi sono fatto in quattro per fargli avere quell’ufficio. Quelli di New York volevano farci una sala d’esposizione. E lui pensava che ero io a mettergli i bastoni tra le ruote”.
“Santo cielo, Joe, la prego, non parli così di mio padre. Lo fa apparire un uomo piccino”.
“Piccino lui? Era il Parco Nazionale di Yellowstone in persona. Solo le nullità come me hanno decoro e forza di carattere. Gli uomini come Phil sono folli, meschini e straordinari”.
“Le voleva bene”.
“No. Ero io che gli volevo bene, mentre lui sparlava di me con quelli di New York. Mi disprezzava. Pace all’anima sua”.
Se trascrivo questo lungo brano è per far vedere con che gusto Elkin ci mostra che Phil Preminger è meno reale per il figlio Marshall che per il suo collega Joe.
Non solo Marshall non ha alcuna intenzione di scoprire qualcosa di nuovo e vero sul conto del proprio defunto padre, ma è così poco autentico che non riesce neanche a soffrire in modo diretto senza passare attraverso il filtro di quello che lui crede sia il modo giusto di soffrire per la perdita del proprio padre. Al tempo stesso non è in grado di portare avanti lo shiva, il periodo di lutto previsto dall’ebraismo.
L’eredità di Phil consiste in un appartamento all’interno di un condomino abitato da arzilli vecchietti. Niente cash. L’appartamento per giunta è carico dei debiti delle spese condominiali arretrate. Marshall decide di vivere lì.
“Non c’erano foto di sua madre né di lui, non gli parve di riconoscere nulla della casa precedente. Tutto era nuovo, costoso, raffinato, insomma, l’appartamento di uno scapolo vent’anni più giovane di suo padre (cioè lui, se se lo fosse potuto permettere?) o di una coppia senza figli”.
Insomma Phil Preminger era un vedovo che si trattava bene. Uno spendaccione. Portava avanti un flirt con una vicina di casa mezza pazza più giovane di lui (giovane quasi quanto Marshall) con cui forse si era sputtanato parte dell’eredità.
Ecco un dialogo tra Marshall e la vicina (il primo a parlare è lui):
“Per lo meno ha vissuto una vita piena”.
“Cinquantanove anni? Cinquantanove anni sono una vita piena?”
“Voglio dire che ha vissuto la vita nella sua pienezza. Ogni giorno per lui era una nuova scoperta. Traeva piacere dalle cose. Ha mantenuto fino alla fine un atteggiamento curioso nei confronti della vita. Credo che sia questo il motivo per cui è andato in pensione prima. Per provare cose nuove. Per continuare a scoprire, continuare a imparare”.
“Non sapeva cosa fare”.
“Si godeva il suo appartamento. L’ha sistemato con tanto amore”.
“I conti da pagare lo mandavano al manicomio”.
“È morto nel sonno. (…) E dunque senza soffrire?”
“Chi lo sa? (…) Se il cuore ti ruzzola per le scale probabilmente un pochino soffri”.
“Per lo meno non ha sofferto a lungo” (…)
“È morto solo. Se sei solo quando muori, hai tutto il tempo di provare paura”.
Marshall porta avanti il proprio complesso edipico (possedendo l’appartamento del padre). Non ha gli strumenti per partecipare alla “res publica” del condominio. Non li ha maturati. Si è limitato a ereditare e per questo non può partecipare all’utopia vagamente kafkiana di quel complesso di torri climatizzate. Non vuole vendere, ma non ha posto all’interno della comunità di anziani che popolano il condominio (simili alla versione malvagia di quelli di Cocoon, anziani in costume da bagno che non si scambiano le foto di figli e nipoti, che non possono neanche farli entrare in piscina perché una regola interna vieta che si portino ospiti).
In sostanza, Marshall è meno vivo del padre morto. Ma è un problema sopratutto narrativo. È infelice, ma la sua infelicità non è a fuoco. Non ha un mondo interiore da contrapporre a quello esteriore (come, ad esempio, ha Tommy Wilhelm ne La resa dei conti) e io non ho capito perché Marshall era così frustrato fin dall’inizio del racconto e cosa si aspettava succedesse.
Ovviamente il mio è un discorso personale che parte dal presupposto che Il Condominio è un capolavoro e uno dei libri più importanti che ho letto nell’ultimo anno (al pari, per dire, di Limonov).
Continuando però la mia anal-isi, dirò che secondo me Elkin gioca sporco con la sessualità di Marshall, tenendo per le ultime pagine come fosse un colpo di scena un’informazione fondamentale per il lettore: Marshall Preminger figlio di Phil è vergine. Ho trovato quella rivelazione un tentativo tardivo di spingerci a provare empatia per un protagonista meno tridimensionale dei personaggi secondari.
Tra le poche cose che sappiamo della sua vita prima del condominio c’è il fatto che all’inizio della carriera di conferenziere le cose andavano forte. Si trattava di conferenze brillanti sul tema delle liste di 10 persone/cose/libri/eccetera che avrebbe portato su un’isola deserta. Marshall quindi è uno scrittore pop (sono gli anni settanta!) in grado di descrivere un’epoca a lui lontana (quella in cui il padre e la madre si erano conosciuti in campeggio) con paragrafi meravigliosi come questo:
“Da qualche parte c’era la foto di un gruppo di ragazzi, suo padre e i suoi amici, avvolti nei sacchi a pelo, distesi in fila sotto il sole come vittime di un disastro. E le ragazze – Floradora, Gibson, Bloomer, o come si chiamava quel genere di donne negli anni Venti – già circonfuse da un alone di nostalgia virato seppia che gonfiava i loro pantaloni alla zuava, ispessiva i calzini, allargava i maglioni, intricava i riccioli”.
Leggendo un paragrafo del genere mi chiedo prima di tutto perché Marshall abbia smesso di scrivere.
Secondo poi: è possibile che anche nel periodo in cui girava facendo conferenze Marshall non scopasse?
Parecchie pagine prima, Elkin aveva trovato un modo infinitamente migliore di intrecciare il discorso dei soldi a quello del sesso, e per farci capire come entrambe le cose avessero a che fare col padre di Marshall: facendogli venire un’erezione mentre la vicina lo abbraccia per consolarlo. La vicina di poco più grande di lui, che si faceva le storie col padre Phil, e che gli ricordava leamiche che i genitori invitavano a casa quando lui andava al liceo:
“Sapeva perché le trovava così attraenti: erano entrate nella vita dei suoi genitori all’epoca della fortuna economica di suo padre, e quindi la loro presenza era associata alla tv, ai nuovi gadget e ai vari comfort. Forse la pochezza della sua vita sessuale dipendeva dal fatto che non era ricco, e l’erezione – un’altra strana reazione dislocata che solo ora si andava sgonfiando – dipendeva dal fatto di essere tornato a casa di suo padre”.
C’è una bella differenza tra “pochezza della sua vita sessuale” e verginità.
Il sentimentalismo artificiale di Marshall diventa, con questa mossa, parte della struttura del racconto ed è un peccato perché per quel che mi riguarda sarebbero bastati il cadavere hippy di Phil Preminger, il suo appartamento da playboy e le lettere della vicina.
C’era bisogno di portare Marshall al massimo grado di frustrazione, di farlo diventare il più sfigato possibile, per portare avanti la storia (in un modo che non vi dico)?
Sembra che Elkin, per convincerci che il suo personaggio era veramente ridotto male, finisca per compiere lo stesso errore di Marshall quando questo sente di dover dire cose importanti. La retorica di Marshall (“Per lo meno ha vissuto una vita piena”) si sgonfia davanti a immagini come il cuore che ruzzola giù dalle scale o la metafora del Parco di Yellowstone. Allo stesso modo è come se ci fossero due Elkin: quello insicuro che il lettore abbia recepito il messaggio; e quello che dice tutto facendo venire un’erezione al proprio protagonista.
Conclusione
Facendo un rapido calcolo basato su racconti vecchi di quindici anni e “cose origliate”, quasi certamente, quando mio padre morirà si sarà portato a letto più donne di quante io in tutta la mia vita riuscirò a fare, anche tornando single e impegnandomi con tutte le mie energie per raggiungere l’obiettivo.
Mettersi sotto i piedi il proprio padre, non è una cosa così semplice.
Adesso che ci penso anche il protagonista del Male Oscuro non se la passava poi così bene.
La seconda parte è qui.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).