Sono in due di fianco al corpo. È morto la notte, la bocca aperta, un cratere nero che ha eruttato l’ultimo sbuffo di impazienza. Gli infermieri stanno aspettando in corridoio, devono portare il corpo alla camera mortuaria. Anna; è tornata a casa dopo la veglia. Ha visto respirare Eugenio per l’ultima volta, poi ha lasciato l’ospedale. Sono in due, figlio e nipote.
Mauro si piega sul corpo, un sacchetto di ossa. Eugenio è stato un uomo forte, da giovane faceva pugilato: spalle larghe, gambe solide, braccia piene su cui si contavano vene e fibre. Ha smesso di allenarsi quando Rosa lo ha visto tornare a casa con il naso rotto: gli ha detto mai più, Eugenio ha smesso e si sono sposati. Prima è nata Anna; poi è nato Mauro.
Eugenio ha preso chili dopo il primo infarto. Prima era in forma, asciutto, merito del fumo, delle lunghe passeggiate e del verme solitario. Quando a Maribor ha mangiato una salsiccia cruda non ha pensato alle conseguenze di una scarsa igiene. Il cibo, il suo punto debole. Il negoziante gliel’aveva incartata nella pagina di un giornale: notizie in una lingua sconosciuta, notizie di tre giorni prima, la fotografia del Maresciallo Tito. Eugenio ha buttato in terra la confezione, ha morso la carne che fermentava sulla lingua insieme a spezie e grasso; non ha avvertito nessun sapore anomalo sotto la paprika e, masticando, ha raggiunto Mauro che lo stava aspettando in macchina. È salito al posto di guida, gli ha allungato il cartoccio con l’ultimo assaggio. Mauro si è voltato verso il finestrino con una smorfia di disgusto. “Almeno prova”. Eugenio di solito lo assecondava, ma non tollerava i giudizi a priori.
Ha incominciato a ingrassare dopo il primo infarto, perché ha smesso di fumare e camminare; ha sostituito passeggiate con partite a carte. Non beveva mentre giocava, mangiava caramelle. Continuava dopo cena; a letto riusciva a finire un pacchetto da mezzo chilo nel tempo di un western. A Rosa non dava fastidio sentirlo sgranocchiare, aveva sopportato il puzzo delle sue nazionali per anni. Quando è morta, è arrivato il secondo infarto.
La pancia è cresciuta con gli anni, gambe e braccia sono rimaste toniche e forti, fino a che cancro e certezza di avere un figlio come Mauro se lo sono mangiato.
Anche Mauro si è sposato, ha contribuito alla crescita demografica del paese, ma Eugenio non è riuscito a volere bene agli altri tre nipoti. No, proprio non ci è riuscito. Di buono gli era rimasto solo Carlo.
Nipote e figlio, in due accanto al cadavere che sembra incollato al materasso, talmente è vuoto, sottile. Mauro si allunga sul petto, si avvicina al volto del Cristo circondato dagli altri ciondoli; sfila la catenina con una mano, con l’altra tiene sollevata la testa. Mauro lascia scivolare la mano. Si avvicina a Carlo. “Questa prendila tu” gliela mette in mano. Il nipote sta ancora fissando il cuscino. “Tienila, è giusto che la tenga tu.” Stringe il pugno, Mauro, l’oro non suona più, torna il silenzio nella stanza. Carlo esce, sale sulla Vespa. C’è il sole, la visiera protegge le lacrime dal vento.
Rivede lo zio al funerale, indossa una giacca. L’ultima volta che lo ha visto vestito elegante è stato quando si è sposato. Ci sono le foto. Ha giocato nel giardino della villa con altri bambini, è caduto e si è tagliato il mento: due punti al pronto soccorso che Eugenio gli ha tolto dopo due settimane con le forbici sterilizzate nell’alcol, quello rosa, con l’odore forte ma buono, con l’etichetta arancione e la fiammella nera. Lo stesso odore che ha sentito nella stanza dell’ospedale. O almeno così gli è parso.
Mauro indossa una giacca, senza cravatta. La camicia è aperta si vede la pelle sotto il collo: rosa, glabra, senza nei, luccica per colpa del sole che riflette sul sudore. Della catenina non c’è traccia.
Il giorno prima del funerale Mauro ha risposto al telefono.
“È passato un mese, io ho perso la pazienza. Se non ti sbrighi, verrò io domani a prendere quello che mi devi.”
Non è riuscito a controbattere, a rilanciare. Il gioielliere avrebbe chiuso alle sette e mezza. Alle cinque e un quarto è uscito lasciando l’acqua per il tè sul fuoco.
“Per fortuna è oro.”
“Certo che lo è, cosa pensavi che fosse?”
“Per dire… Io non la metterei mai addosso, anche se sono terrone.”
“Comunque si può fondere.”
“Ovvio, secondo te a chi la vendo una cosa del genere?”
“L’importante è che siamo a posto così.”
“A posto così un cazzo, sono tre mesi che aspetto,con questa ci paghi giusto gli interessi.”
“Stai scherzando.”
“Non alzare la voce.”
“Quanto tempo ho?”
Mauro guarda il gioielliere, sta giocando con la catena del padre, distesa davanti agli occhi;fra le dita stringe pendenti, ciondoli e medaglie. Uno per uno li lascia cadere fino a quando non raggiungono l’ultima delle maglie e il suono del metallo rimbalza sulla porta blindata. Passa un tram. Non lo vedono, il retrobottega non ha finestre, ma solo un quadro, la cassaforte aperta, la scrivania e nel primo cassetto un revolver.
“La scadenza è oggi.”
Il gioielliere sgancia la chiusura. Il primo ciondolo a cadere è il volto di Cristo.
Grecia, estate 1962. Eugenio e Rosa tornano in albergo dopo una cena alla Plaka. Per le strade ci sono cani randagi che rovistano nei rifiuti delle taverne. I musicisti se ne sono andati prima di loro, quando il cameriere gli stava scrivendo il conto sulla tovaglia.
Nessun taxi, i semafori lampeggiano, l’albergo è distante. Troppa retzina, Rosa barcolla. Cade su un prato e le si scoprono le gambe. Eugenio si sdraia, fanno l’amore. Raggiungono l’albergo due ore più tardi. Il pomeriggio successivo hanno il volo di rientro. Eugenio paga il conto, esce a fumare, sparisce dentro una vetrina. Per Rosa fa incidere le loro iniziali su un bracciale. Dietro la testa del Cristo niente. Davanti invece la corona di spine in rilievo, lo sguardo rivolto verso l’alto, il sorriso. La beatitudine del sacrificio. Sette mesi dopo nasce Mauro.
Un atto d’amore, una lacrima. C’è una goccia di sangue in rilievo sulla fronte del Cristo, c’è n’è un’altra sul secondo ciondolo, una piastrina segnata dal gruppo sanguigno A Rh +. Il secondo ciondolo è un rettangolo e cade addosso al primo: il Cristo tintinna. Quando Mauro fa la comunione va di moda portare il gruppo sanguigno al collo e si usa regalarlo. Una cosa che in genere faceva il padrino e di solito il padrino è lo zio. Di solito. Non sempre. Nemmeno tutti i padrini regalavano la medaglietta con il gruppo sanguigno; Mauro non si ricorda della comunione, di chi gli ha regalato quella roba, tantomeno chi gli ha fatto da padrino. Non l’ha mai indossata. La memoria stava attaccata al collo del padre.
A Napoli Eugenio compra un gobbo portafortuna, una gioielleria del Vomero. Eugenio odia i cornetti in corallo. Il commesso srotola cilindri di velluto. La figura del vecchio con cilindro e bastone, curvo come una L risalta sul nero. Di fortuna gliene ha portata tanta. Fortuna e denaro. Al ritorno dal viaggio, non ha ancora finito di digerire sfogliatelle, mozzarelle in carrozza e pizze fritte che tre contratti di fornitura lo aspettano sulla scrivania. Mattoni, prefabbricati contro terreni. Un mediatore. Sono gli anni in cui i paesi vengono aspirati dalla città. Anni in cui Eugenio quella fortuna la consuma tutta e al figlio rimane solo lo scarto che gli serve per vincere le prime mani di poker sulle brande della caserma.
“La scadenza è oggi.”
Ripete il gioielliere e la croce, il terzo ciondolo cade. Al centro, nel punto in cui si uniscono i due elementi perpendicolari, è più sottile. I baci di Eugenio l’hanno consumata, ogni sera prima di prendere sonno si segnava nel nome del padre del figlio e dello spirito santo e poi rendeva omaggio alla santissima trinità con un gesto pagano. Lo fanno in Grecia, Russia, Albania. Lo ha visto fare. Pulire il vetro con un panno, strofinare forte e poi baciare il volto dei santi, oppure il crocifisso. Accendere una candela. Passare la mano destra sulla fronte, sfiorare la bocca dello stomaco. Spalla destra e poi sinistra. Lui no Padre testa, Figlio plesso solare, Spirito a sinistra, Santo a destra come ogni cattolico di Santa Romana Chiesa e Rito Ambrosiano.
Si faceva il segno della croce prima di prendere sonno, davanti a un carro funebre, passeggiando lungo il parco del cimitero. I nomi degli eroi morti nella Prima Guerra e quello dei loro figli, scomparsi vent’anni più tardi. Compagni di scuola. Coscritti. Anziani.
“Non mi prendere per il culo. Fosse la prima volta ti lascerei il beneficio del dubbio. Ma è come la bronchite di mio suocero.”
“Cosa?”
“Cronica, ma che ti parlo a fare…”
“Ma ti giuro, non è così!”
“Piantala”
“Ti giuro che stasera ho in ballo un movimento serio, due o tre gambe sicure le tiro su. Te le porto domani.”
“Con due o tre gambe non ci faccio un cazzo.”
Si sgancia una moneta, inizia a ruotare sul banco. Il Santo che uccide il drago, Giorgio V. Il Santo che uccide il Drago, Giorgio V. Fronte, retro. Una sterlina del 1915. Un ricordo del papà di Eugenio, il nonno di Mauro, il bisnonno di Carlo. Eugenio l’ha portata a far montare e se l’è messa al collo. Gli inglesi li ha sempre odiati. Più dei tedeschi. I tedeschi in fondo non sono male, non credevano in quello che hanno fatto, hanno seguito l’imbianchino austriaco travestito da pifferaio magico. Imprigionati da procedure e senso del dovere. Gli inglesi no, sono ipocriti, ambigui, doppiogiochisti. Dei traditori. Nessuno scrupolo, nessun onore, solo tornaconto. Radono al suolo città e poi si travestono da liberatori.
Aveva messo in guardia Mauro, come un padre deve fare, ma Mauro no, non l’ha ascoltato, ha fatto ciò che i figli fanno sempre, o quasi, l’ha ignorato e si è messo in società con Frank; cosa ci facesse un costruttore inglese fra Milano e Brianza, nessuno è mai riuscito a capirlo. Mauro è andato con lui a Montecarlo: abbracci, cene offerte, credito al tavolo di chemin de fer. Poi il conto: la casa di Noli come ricompensa per aver ritirato la denuncia. Frank è andato dai Carabinieri di San Remo raccontando di una truffa. Assegni in bianco in cambio di contante. Roba da disperati .
Il guantone cade per ultimo, rotola lontano dal gruppo di pendenti, scivola nel cassetto. Si ferma accanto alla tacca del mirino.
Libera dal peso, la catenina continua a ballare nella mano del gioielliere, si contorce, si ferma dopo qualche istante. Il gioielliere la posa. Mauro segue i suoi movimenti con il naso, il mento e tutto il corpo. Adrenalina. Poche ore, apre la Buca e sistema le cose, sistema il calo di adrenalina che lo fa dormire tutti i giorni fino a tardi e lo lascia con il sapore di ferro fra lingua e denti. Vede la mano del gioielliere che entra nel cassetto. pensa stia recuperando il guantone. Papà l’ha comprato dopo averlo visto al collo di Monzon, pensa. Il pugilato che sport idiota. Lo sport, che passatempo idiota. L’emozione la dà la scommessa. Il momento in cui l’atleta si sta per rialzare e tutto è perduto. Senti cuore, cervello e inguine pulsare assieme, fondersi nel magma che sputi fuori con un “nooo” e poi rientra in un “sì” aspirato, ti scalda quando l’atleta crolla al tappeto. Ha perso. Tu hai vinto. Scommetti. Vinci. Perdi. Non si può fare a meno di quella risacca.
Mauro ha scommesso sul guantone, ha perso, un’altra volta. Il gioielliere impugna il revolver, niente oro in mano. Non ci sono finestre. La stanza è blindata. Ronza il motore della saracinesca che si chiude, il tram delle sette e mezza passa sui binari davanti al negozio.
Alla Buca non c’è più nessuno quando Mauro arriva con il braccio appeso al collo. L’effetto dell’antidolorifico sta passando, alla fitta dietro la nuca gli corrispnde un bruciore alla mano. Solo il quinto metacarpo non è fratturato, la radiografia sembrava un pacchetto di cracker calpestato. Mauro cammina facendo attenzione a non inciampare fra le macerie e i fasci di tondini. In ospedale gli han chiesto come ha fatto, nessun riferimento al gomito nello stomaco, al polso stirolato, al calcio del revolver, all’alito del gioielliere.
“Questo ti farà passare il vizio una volta per tutte”.
Quando rimette piede sull’asfalto, appesantisce il passo per scrollare terriccio e ghiaia dalle suole, si allontana dalle recinzioni.
Le pastiglie vanno prese a stomaco pieno. Pensa, le stesse parole del dottore che ha fatto finta di credere alle sue bugie.
Davanti all’ospedale si è fermato alla farmacia di turno, ha cambiato una banconota da venti Euro. In tasca gliene sono rimasti quindici: cinque per il panino, dieci per le slot.
“È avanzato un tramezzino con il tonno. Lì nell’angolo c’è la cambiamonete.”
Il barista sta sciacquando la griglia della macchina per il caffè.
“Vada per il tramezzino e una bottiglietta di naturale.”
“Non preoccuparti, te li porto io”.
Mauro infila dieci euro nella fessura illuminata e la cambiamonete gleli restituisce. Lui soffoca una bestemmia, non è facile stropicciare la banconota con una sola mano funzionante, la sinistra. Mauro non è mancino. Inverte il senso di inserimento, piega gli angoli, soffoca un’altra bestemmia, fino a quando i soldi spariscono e da un altro buco escono i gettoni.
Intanto il barista ha sistemato le tazzine sulla griglia di appoggio, ha tolto il cellophane dal tramezzino e lo ha sistemato su un piatto.
“Eccoti servito”.
“E la bottiglietta di naturale?”
“Le ho finite, vado a prenderle in cantina”.
Mauro annusa il tramezzino, lo morde controvoglia, la mano fa male e le pastiglie vanno prese a stomaco pieno.
Infila il gettone, blocca il primo quadrante, il secondo, il terzo.
Il barista entra con una confezione da sei, dall’apertura accanto al bancone vede Mauro saltare, i gettoni schizzare fuori dalla slot.
“Cos’è questo cinema?”
“Non avevo mai provato con la sinistra e funziona cazzo, funziona!”
“Che stai dicendo?”
“Ti dico che ho capito il trucco, il segreto è la sinistra”.
I gettoni continuano a uscire, cadono per terra fra lo sgabello e il tramezzino rovesciato.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).