Il miracolo

da | Feb 27, 2025

Cinque poesie in anteprima da “Il miracolo” di Kaveh Akbar, poeta e narratore iraniano-statunitense, da poco uscito nella traduzione di Mia Lecomte e Andrea Sirotti per Il Saggiatore.

 

RISTORANTE DI REZA, CHICAGO, 1997

 

i camerieri ciondolavano riempiendo shaker

        di sommacco sparecchiando

piatti di cipolla e ravanelli

mio padre indicava ogni persona sussurrava

persiano dell’uomo vecchio con la barba

        argentata sussurrava araba della donna con

il neo all’occhio persiano il ragazzo che versa

l’acqua bianco l’uomo al telefono

                                                          avevo otto anni

ancora soffice come un pollice e meravigliato

chiesi come facesse a dirlo visto che

                                                          erano tutti pelle-

marrone-capelli-scuri come noi quasi tutti

             nel ristorante sembravano come noi

                                                          sorrise un piccolo

              sorriso orgoglioso un nido caldo

porto col labbro disse è facile disse siamo solo più brutti

 

                         tornò al suo agnello ma io ero sconcertato appena

toccato il mio gheimeh avevo grandi occhiali e pessimi

              denti mi sentii molto persiano

                                                            quando la donna

               con occhi chiari e capelli biondo-castano

lasciò il nostro assegno mio padre mi guardò

               dissi araba? Scuoteva la testa rideva

                      andammo in macchina a casa crebbi ci vollero anni per

               mettere insieme ciò che mio padre

quel giorno intendeva mio padre che ascoltava

                esclusivamente i Rolling Stones

che chiamava i Beatles

                                          una band per ragazze

               mio padre che indossava solo nero anche

                                  intorno a casa il cui ombrello

               faceva piovere le cui braccia

                                   potevano tagliare rete metallica e fare lo stufato e

                gonfio di vecchie cicatrici di fattoria mio padre mio

padre mio padre fece

          il mondo il primo suono che ho mai sentito

                          è stata la sua voce che sussurrava l’adhān

                               nel mio orecchio destro non avevo bisogno

                               d’altro mio padre amava

                          che fossimo brutti e così da brutto

                                                ero benedetto sorridevo con tutti i denti

 

 

 

MADRI CHE UN TEMPO FUI

 

Madre dita nel fango. Madre ciotola da mendicante.

Madre merlettaia che tamburella la propria ragnatela, neonati

che se la mangiano intera. Madre resistente al candeggio. Madre grembiule

imbrattato di farina. Madre fiore. Madre Florida,

 

l’osso bagnato. Il trono di marmo. Madre rispedita indietro.

Madre retro flessa si arriccia come calligrafia. Madre dipendente

dalla luce. Madre? Dipende dalla notte.

 

Madre per la quale il cielo intero.

 

Madre nascosta nelle tende, canticchia troppo forte.

Madre verme al sudario. Madre lo pensò possibile.

Madre sbagliava. Madrecanzone. Nostra Signora Madre di Letti Bagnati

 

e Aggressiva Disgrazia. Madre diospero, nome suona

come il suo sapore. Madre con tutta la sua ingrassante creazione.

Madre che resisteva mentre accadeva.

 

 

 

GLI INCIDENTI DELLO SPIRITO NON ESISTONO

 

Puoi tagliare il corpo in due come

una candela per raddoppiarne la luce

ma devi prepararti

ad alcune conseguenze.

Tutto ciò che so di scienza –

neuroni, neutrini, malattia

trasmissibile – potrebbe stare

in uno stuzzicadenti, con legno in avanzo.

Soffialo via, come un ciglio

o luce artificiale. Mostrami una bestia

che si ama senza posa

così come l’uomo più miserabile.

Aspetterò. In verità hanno mandato giù

la lingua, riempendoci di parole

come acqua di mare riempie un polmone.

Puoi sentirli dare ascolto ora

al nostro ascoltare. Richiedimi

del mio dubbio – turchese

oggi e duromandorla. Parla

solo di ciò che lui stesso non può vedere:

un cromosoma che si inchina educatamente

al successivo, o il modo in cui le nostre labbra

a volte quando dormiamo si muovono ancora.

 

 

 

CAMPANA DEL PELLEGRINO

 

Domando.

Di essere perdonato.

Domando.

Un’anima più forte.

Chiunque abbia mai incontrato.

Era abbastanza piccolo.

Da starmi.

In un occhio.

 

 

 

COME FUNZIONA LA PREGHIERA

 

Rintanati nella nostra minuscola cameretta, così vicini che il

bordo del mio tappeto copriva il bordo del suo, io e mio fratello

pregavamo. Avevamo 11 e 18 anni, forse, o 12 e 19. Era tornato dal

college dove costruiva i computer da solo e le ragazze lo baciavano

in bocca. Io ero a malapena qualcosa, volevo solo essere lasciato

in pace a leggere e guardare I Simpson.

 

Pregammo insieme come avevamo fatto migliaia di volte,

affrettando le abluzioni sul lavandino, stendendo i nostri janamaz

verso la finestra di fronte all’olmo che un’estate aveva ospitato un

vero nido di corvo pieno di corvetti: frutti arruffati dal becco nero,

erano miracoli di cui non pensavamo di fare tesoro.

 

Io e mio fratello ci affrettavamo in maldestre posizioni di lode,

silenziosi come la luce che si raccoglieva intorno a noi. La stanza

era così piccola che il nostro letto doppio la occupava quasi tutta, e

quando mio fratello, alto e smisurato, fece per inginocchiarsi, urtò

con il piede il fermaporta di ottone spiralato, che sprigionò un forte

brooong. Il rumore si schiantò nella stanza come un lungo proiettile

bagnato frantuma la porcellana.

 

Mio fratello trattenne una smorfia e io cercai di soffocare un

grugnito ma la solennità ignorò le nostre suppliche – scoppiammo,

la risata ci esplose in faccia passando per i corpi e il pavimento.

Non riuscimmo a trattenerci, ridevamo del nostro ridere, l’allegria

una corda a sfilacciarsi infinita in ogni dove.

 

Non è che ci dimenticammo Dio o i martiri o la santa parola del

Profeta – piuttosto il contrario, in effetti, eravamo ragazzi fatti per

amare ciò che ci stava sotto il naso: io e mio fratello ci stendemmo

l’uno sull’altro, ridendo lacrime nei nostri tappeti da preghiera.

 

Kaveh Akbar (Teheran, 1989), poeta e romanziere iraniano-statunitense, è direttore del corso di Scrittura creativa dell’Università dell’Iowa e responsabile delle pagine di poesia della rivista «The Nation». Ha pubblicato la raccolta di poesie Calling a Wolf a Wolf (2017) e il romanzo Martire! (2024), e ha curato la raccolta The Penguin Book of Spiritual Verse (2023). Le sue poesie sono apparse su diverse testate, tra cui «The New Yorker», «The New York Times», «The Paris Review» e «The Best American Poetry».