Cinque poesie in anteprima da “Il miracolo” di Kaveh Akbar, poeta e narratore iraniano-statunitense, da poco uscito nella traduzione di Mia Lecomte e Andrea Sirotti per Il Saggiatore.
RISTORANTE DI REZA, CHICAGO, 1997
i camerieri ciondolavano riempiendo shaker
di sommacco sparecchiando
piatti di cipolla e ravanelli
mio padre indicava ogni persona sussurrava
persiano dell’uomo vecchio con la barba
argentata sussurrava araba della donna con
il neo all’occhio persiano il ragazzo che versa
l’acqua bianco l’uomo al telefono
avevo otto anni
ancora soffice come un pollice e meravigliato
chiesi come facesse a dirlo visto che
erano tutti pelle-
marrone-capelli-scuri come noi quasi tutti
nel ristorante sembravano come noi
sorrise un piccolo
sorriso orgoglioso un nido caldo
porto col labbro disse è facile disse siamo solo più brutti
tornò al suo agnello ma io ero sconcertato appena
toccato il mio gheimeh avevo grandi occhiali e pessimi
denti mi sentii molto persiano
quando la donna
con occhi chiari e capelli biondo-castano
lasciò il nostro assegno mio padre mi guardò
dissi araba? Scuoteva la testa rideva
andammo in macchina a casa crebbi ci vollero anni per
mettere insieme ciò che mio padre
quel giorno intendeva mio padre che ascoltava
esclusivamente i Rolling Stones
che chiamava i Beatles
una band per ragazze
mio padre che indossava solo nero anche
intorno a casa il cui ombrello
faceva piovere le cui braccia
potevano tagliare rete metallica e fare lo stufato e
gonfio di vecchie cicatrici di fattoria mio padre mio
padre mio padre fece
il mondo il primo suono che ho mai sentito
è stata la sua voce che sussurrava l’adhān
nel mio orecchio destro non avevo bisogno
d’altro mio padre amava
che fossimo brutti e così da brutto
ero benedetto sorridevo con tutti i denti
MADRI CHE UN TEMPO FUI
Madre dita nel fango. Madre ciotola da mendicante.
Madre merlettaia che tamburella la propria ragnatela, neonati
che se la mangiano intera. Madre resistente al candeggio. Madre grembiule
imbrattato di farina. Madre fiore. Madre Florida,
l’osso bagnato. Il trono di marmo. Madre rispedita indietro.
Madre retro flessa si arriccia come calligrafia. Madre dipendente
dalla luce. Madre? Dipende dalla notte.
Madre per la quale il cielo intero.
Madre nascosta nelle tende, canticchia troppo forte.
Madre verme al sudario. Madre lo pensò possibile.
Madre sbagliava. Madrecanzone. Nostra Signora Madre di Letti Bagnati
e Aggressiva Disgrazia. Madre diospero, nome suona
come il suo sapore. Madre con tutta la sua ingrassante creazione.
Madre che resisteva mentre accadeva.
GLI INCIDENTI DELLO SPIRITO NON ESISTONO
Puoi tagliare il corpo in due come
una candela per raddoppiarne la luce
ma devi prepararti
ad alcune conseguenze.
Tutto ciò che so di scienza –
neuroni, neutrini, malattia
trasmissibile – potrebbe stare
in uno stuzzicadenti, con legno in avanzo.
Soffialo via, come un ciglio
o luce artificiale. Mostrami una bestia
che si ama senza posa
così come l’uomo più miserabile.
Aspetterò. In verità hanno mandato giù
la lingua, riempendoci di parole
come acqua di mare riempie un polmone.
Puoi sentirli dare ascolto ora
al nostro ascoltare. Richiedimi
del mio dubbio – turchese
oggi e duromandorla. Parla
solo di ciò che lui stesso non può vedere:
un cromosoma che si inchina educatamente
al successivo, o il modo in cui le nostre labbra
a volte quando dormiamo si muovono ancora.
CAMPANA DEL PELLEGRINO
Domando.
Di essere perdonato.
Domando.
Un’anima più forte.
Chiunque abbia mai incontrato.
Era abbastanza piccolo.
Da starmi.
In un occhio.
COME FUNZIONA LA PREGHIERA
Rintanati nella nostra minuscola cameretta, così vicini che il
bordo del mio tappeto copriva il bordo del suo, io e mio fratello
pregavamo. Avevamo 11 e 18 anni, forse, o 12 e 19. Era tornato dal
college dove costruiva i computer da solo e le ragazze lo baciavano
in bocca. Io ero a malapena qualcosa, volevo solo essere lasciato
in pace a leggere e guardare I Simpson.
Pregammo insieme come avevamo fatto migliaia di volte,
affrettando le abluzioni sul lavandino, stendendo i nostri janamaz
verso la finestra di fronte all’olmo che un’estate aveva ospitato un
vero nido di corvo pieno di corvetti: frutti arruffati dal becco nero,
erano miracoli di cui non pensavamo di fare tesoro.
Io e mio fratello ci affrettavamo in maldestre posizioni di lode,
silenziosi come la luce che si raccoglieva intorno a noi. La stanza
era così piccola che il nostro letto doppio la occupava quasi tutta, e
quando mio fratello, alto e smisurato, fece per inginocchiarsi, urtò
con il piede il fermaporta di ottone spiralato, che sprigionò un forte
brooong. Il rumore si schiantò nella stanza come un lungo proiettile
bagnato frantuma la porcellana.
Mio fratello trattenne una smorfia e io cercai di soffocare un
grugnito ma la solennità ignorò le nostre suppliche – scoppiammo,
la risata ci esplose in faccia passando per i corpi e il pavimento.
Non riuscimmo a trattenerci, ridevamo del nostro ridere, l’allegria
una corda a sfilacciarsi infinita in ogni dove.
Non è che ci dimenticammo Dio o i martiri o la santa parola del
Profeta – piuttosto il contrario, in effetti, eravamo ragazzi fatti per
amare ciò che ci stava sotto il naso: io e mio fratello ci stendemmo
l’uno sull’altro, ridendo lacrime nei nostri tappeti da preghiera.
Kaveh Akbar (Teheran, 1989), poeta e romanziere iraniano-statunitense, è direttore del corso di Scrittura creativa dell’Università dell’Iowa e responsabile delle pagine di poesia della rivista «The Nation». Ha pubblicato la raccolta di poesie Calling a Wolf a Wolf (2017) e il romanzo Martire! (2024), e ha curato la raccolta The Penguin Book of Spiritual Verse (2023). Le sue poesie sono apparse su diverse testate, tra cui «The New Yorker», «The New York Times», «The Paris Review» e «The Best American Poetry».