VP: Come funziona l’atto del ricordo – e in generale la memoria – nella sua poesia?
MDA: Dici bene: il ricordo è un “atto”, possiede l’energia di un gesto vero e proprio, che
può essere tenero ma anche un violento, capace di entrare fisicamente in luoghi dove
regna il più severo divieto di accesso e robuste inferriate sbarrano la strada.
VP: E da dove ha origine il ricordo? Se da un fatto reale, da una memoria ricostruita…
MDA: Il ricordo ha origine da un fatto reale, indubbiamente, ma poi plasma questo fatto e
lo innesta in una ricostruzione che è tutta sua e tende ad assecondare il destino
desiderato da ciascuno di noi. Forse per questo Jacques Lacan parla di una
coincidenza tra percezione e allucinazione, sottolineando il peso dell’io ideale
nell’atto del ricordo. Senza giungere a tale ed estrema ipotesi, ritengo anch’io che la
dimensione allucinatoria sia importante nel ricostruire il passato e tenda a raffigurarlo
secondo una pulsione che è tutta nelle richieste del presente e nelle promesse del
progetto.
VP: Lei spesso cita città, piazze, vie; numeri di autobus. A suo avviso quelli sono
luoghi reali, tangibili? Sono davvero fissati nel tempo o è proprio la poesia a dare
loro questa cristallizzazione?
MDA: In “Tema dell’addio”, come hai notato, la memoria si intreccia strettamente ai luoghi,
non può farne a meno, non esisterebbe senza di loro. Un tram di Roserio, un portone
della Prenestina, un albero di Quarto Oggiaro diventano prima testimoni oculari e poi
messaggeri che percorrono il tempo e giungono fino al presente della pagina:
nell’atto della scrittura vengono interrogati più volte, mi costringono a recarmi da
loro fisicamente e ogni verso è il frutto di questo interrogatorio.
VP: Una domanda che mi pongo spesso è: quando scrivo sto parlando con loro? Sto
parlando con i miei morti?
MDA: Indubbiamente stiamo parlando con loro e continuiamo senza tregua a interpellarli.
Ma loro non parlano con noi e le loro parole sono soltanto quelle che noi
immaginiamo. Tutto ciò è tragico e definitivo. “Eppure io ero con te / e tu non eri con
me”.
VP: E da questa domanda vorrei quindi capire – forse lei ci avrà già pensato – se il tempo è
davvero relativo, tangibile e osservabile come una palla di vetro con la neve, così da
potere girarci intorno e osservarlo sotto diversi punti di vista, quando scriviamo.
MDA: “Tangibile” direi di sì, poiché ha la durezza di un corpo contundente e talvolta si
avventa su di noi come un nemico a mano armata. “Osservabile” direi di no, perché è
un aggettivo troppo tranquillo per gli uragani che il tempo genera nella nostra mente.
VP: Qualche tempo fa facevo una riflessione tra tempo cronologico e tempo qualitativo. Suggerivo che l’azione poetica fosse in grado di “arrestare” il tempo cronologico e costruire un tempo alternativo e se possibile, quindi, qualitativo. Si potrebbe affermare che questo accada durante la riflessione poetica?
MDA: Accade proprio questo, indubbiamente. Nell’esperienza poetica si intrecciano
diversi tempi: quello cronologico (Kronos), quello mitico (Aiòn) e quello
decisivo (Kairòs) che ci suggerisce il momento propizio, la parola giusta e
insostituibile. Da tale intreccio scaturisce un tempo universale e al tempo stesso
millimetrico, dove ciò che abbiamo vissuto si unisce a ciò che vivremo, dove
esistono simultaneamente memoria e progetto, ricordo e utopia, rimembranza e
attesa.
VP: Quanto “il tragico” fa parte della contemplazione poetica e dello
svisceramento del tempo passato? In parole povere, è attraverso “il tragico” che il
poeta riesce a trasformare gli avvenimenti del passato e a scrivere nelle piaghe
del tempo?
MDA: Il tragico è un muro che la parola deve oltrepassare, un posto di blocco severo
e inesorabile dove la parola si arresta in attesa di venire alla luce. La parola
poetica infatti giunge a noi da lontano, da molto lontano, e deve compiere un
lungo percorso prima di arrivare alla pagina: è un percorso accidentato, un
percorso ad ostacoli, pieno di dighe, sbarramenti, frontiere, sabbie mobili che
tragicamente arrestano il corso e minacciano di troncare la sua esistenza. Ma se
la parola riesce a superare questi ostacoli, porta con sé tutto il peso, la luce e la
verità del suo “tragico” cammino.
VP: È ruolo (o condizione) del poeta quella di rendere eterno un avvenimento, una persona? E, si può dire, infatti, che il poeta fa un esercizio di “cristallizzazione creativa”?
MDA: Il poeta sicuramente immerge ciò che trascorre in una permanenza e gli conferisce la possibilità di durare. Ma non lo cristallizza. La sua durata è viva e mobile, ricca di pieghe segrete, di misteri, di ombre cangianti e appassionate.
VP: Scriveva che il ricordo è una coincidenza tra percezione e allucinazione. Precisamente: “ritengo anch’io che la dimensione allucinatoria sia importante nel ricostruire il passato e tenda a raffigurarlo secondo una pulsione che è tutta nelle richieste del presente e nelle promesse del progetto”. Crede che attraverso l’atto del ricordo e successivamente della scrittura questa allucinazione debba essere necessariamente individuale o, invece, possa anche essere collettiva? Mi domandavo se è proprio durante questa complessa allucinazione individuale – che poi viene condivisa nell’atto della lettura – che si generino percezioni alternative, che si discostano da una visione, per così dire, lineare. Non parlo di un’ucronia temporale, quanto di una rivoluzione percettiva.
MDA: “Rivoluzione percettiva” mi sembra un termine esatto, poiché coinvolge il poeta e il lettore in un comune universo e il lettore, ogni lettore, avverte nella parola qualcosa di arcanamente proprio, qualcosa che aveva già vissuto senza saperlo e che ora brilla sulla pagina. In tal senso si può dire – citando il Pascoli del “Fanciullino” – che noi troviamo nella parola poetica ciò che aspettavamo veramente, la voce oscura del nostro desiderio, perché essa affonda in una realtà profonda che sfuggiva allo sguardo e che finalmente viene alla luce, una realtà che affratella tutti i lettori e in questo senso è corale, riguarda un’intera comunità. E l’esclamazione “finalmente!” esprime davvero questa scoperta fondamentale, questa rivelazione che riguarda le fondamenta della nostra vita.
VP: Nella sua poesia il tempo e la memoria giocano un ruolo cruciale, ma altrettanto importante è l’oblio. Come riesce a bilanciare questi due aspetti nella scrittura? La poesia diventa un atto di recupero del passato o c’è un valore anche nell’accettare ciò che è destinato a essere dimenticato?
MDA: L’oblio è il buio nebbioso da cui emergono all’improvviso, come un’illuminazione, scene e figure del tempo trascorso. Questo buio, come hai acutamente osservato, è necessario perché l’immagine ricreata appaia in tutto il suo splendore e in tutta l’esattezza dei suoi contorni. Su questo tema c’è un libro di Maurice Blanchot, “L’attesa, l’oblio”, che ho tradotto negli anni settanta e che ti consiglio di leggere.