A un anno dalla scomparsa di Roberto Pazzi (18 agosto 1946 – 2 dicembre 2023) affiorano questi cinque testi inediti grazie all’opera di archiviazione e conservazione del Centro Studi a lui intitolato, situato a Ferrara, proprio nella dimora dello scrittore, il cui comitato scientifico è presieduto da Dacia Maraini. Tra i versi di Pazzi il visibile trascolora in invisibile, salvato dalla parola nella poesia, l’anticipo autentico di una trasformazione semica: ciò che la parola poetica nomina si sottrae al peso della corporeità e dell’impermanenza cui è destinato dal divenire. Pazzi si conferma una penna della durata e della continuità, facendo suoi i tre assoluti di Wislawa Szymborska: «La gioia di scrivere. / Il potere di perpetrare. / La vendetta di una mano mortale». Una vendetta incorruttibile, quella della scrittura, capace di garantire una quota di eterno alle forme viventi, ai mondi, alle civiltà che franano nell’ombra, depositata al sicuro. Nei suoi ultimi versi il poeta parrebbe condividere l’oraziano «non omnis moriar», sfiorando appena le forme sensibili, l’allegria delle sue attese d’amore, la forza intatta del desiderio preservato dal compimento, il piacere di nominare la cosa nel rinvio all’infinito del possesso. Dal dubbio che tedia Dante di fronte alla risolutezza di Beatrice dal XIV Canto del Paradiso in avanti, ovvero dalla dicotomia dell’essere umano diviso tra la tensione al sublime dell’anima e l’atto amoroso con cui il corpo si riproduce, il poeta si avvicina alla nozione lirica di Petrarca e di Leopardi, cantori dell’attesa, dell’illusione e del sabato.
Quando il poeta per comporre si abbandona all’immaginazione, compiendo un atto creativo tale da valicare i limiti del reale in quanto finito, perfino il lettore sfogliandolo s’india, s’insusa a sua volta: dalla declamazione ariostesca sotto le torri del Castello Estense, nell’estate del 2021, Pazzi ha condiviso la “santità” della carne cantata dal predecessore cortese, poiché ogni bellezza manifesta un’anima, non solo quella consegnata alla teologia tomistico-aristotelica, e di conseguenza dantesca. Il divino rimane un’ispirazione universale, immortale, in cammino con la storia: «nella sua corsa l’eterno travolge il tempo», sostiene Lukács ne La Teoria del romanzo, ossia le forme di credenza nell’eterno fungono da abiti che si adattano a fisicità diverse, a epoche diverse. Il fisico di un individuo del Rinascimento non era quello odierno, tuttavia la follia di Orlando e la sua disperata ricerca con Astolfo del senno perduto riescono ancora a cancellare le impennate del presente. E a trasportare il lettore sulla luna. Non a caso, Pazzi ha condiviso sin dagli esordi la teoria calviniana che traspare come una sfida inaccettabile in Se una notte d’inverno il viaggiatore, secondo il quale evitando di considerare la presenza del lettore, quindi la possibile ricezione del messaggio intellettuale, l’opera letteraria non esisterebbe, superando lo storicismo hegeliano che il poeta ferrarese subì negli anni della formazione.
Se il Furioso, attraverso un uso paradossale dell’ironia e una struttura narrativa aperta, restituisce a chi legge la felicità di essere terrestre – e non celeste – in questi inediti l’unità profonda tra visibile e invisibile, tra oltre e vita, raggiunge l’acme in una prospettiva assolutamente laica, e tace finalmente l’attrazione angosciosa della trascendenza cattolica, la miopia di una conoscenza dogmatica. Parimenti alle ottave di Ariosto e agli spartiti di Mozart, basti pensare all’accettazione armoniosa del suddetto dualismo nel Don Giovanni, nei versi di Pazzi resiste un sentimento dell’immanenza, una definizione della realtà chiusa e completa in se stessa, senza la necessità di vicariarla con l’oltretomba e tramite una sequenza di oggetti, quegli “affetti personali” che trattengono i ricordi e dei quali Montale ne considerava essenziale il vincolo: finanche dai romanzi Cercando l’imperatore (1985), Il vangelo di Giuda (1989), Il signore degli occhi (2004), Mi spiacerà morire per non vederti più (2010), che si alternano dalla fine degli anni Ottanta alle pubblicazioni in poesia, e specialmente nel testamentario La doppia vista (2023) si evince un senso giocoso dell’esistere, per cui male e bene sono in equilibrio perfetto. E se in nessun punto il male è tanto intenso da vincere il bene, il bene non è mai definitivo e talvolta cede al male. Nel saggio di Alberto Bertoni, che chiude la vasta antologia poetica Un giorno senza sera (2020), risalta un’altra radice ferrarese che Pazzi condivideva con il Filippo de Pisis de La città delle cento meraviglie, romanzo apparentemente svagato, liricheggiante e immaginifico, composto da brevi prose cadenzate. «Ancora si sente che su questa città cordiale grava il mistero del dolore umano», scriveva “il marchesino pittore” dell’orrore che anche Pazzi a volte esplicitava con delicatezza, a volte celava dietro un’allegoria oppure parodiava con ilarità: era il medesimo mistero della morte che assediava la fantasia di entrambi.
L’approdo che diventa lascito immateriale cui giunge una ricerca durata sessant’anni, cominciata da Pazzi al fianco di Vittorio Sereni, nel 1965, a Bocca di Magra, e avvalorato dall’epistolario Come nasce un poeta (2018), a cura di Federico Migliorati, è la celebrazione dell’età estrema come illuminazione di un’esistenza intera, una sorta di inno religioso alla sua ricchezza, un guadagno insperato di senso che rischiara sull’orlo del Nulla, o del Tutto, la maturazione dell’eternità. A nutrirne la consapevolezza sono anche le stagioni della recente storia testimoniate dal poeta, tra il 2019 e il 2023, con la pandemia e la sua sospensione di concepire il quotidiano, che gliene aveva fatto recuperare il valore perduto. La fermata conclusiva, dedicata alla sorella Emilia, spenta dalla malattia che come un monito sordo colpì egli stesso prima della clausura, rimanda al concetto junghiano di sincronicità, per cui a ogni causa non segue un effetto diretto e immediato, dovuto a una struttura temporale non lineare, ma circolare. Il tempo si flette, il tempo ritorna e non soggiace a una distensione coerente e rettilinea, monotematica. Conscio e inconscio, azioni e congetture appartengono alla medesima dimensione, dunque le cause possono precedere gli effetti, uscendo dalla consueta progressione logica. E per condensarlo in una metafora ossimorica spesso ripetuta da Pazzi, è quasi avere “nostalgia del futuro”.
Matteo Bianchi
DESIDERIO
Riprendimi, incantami,
possiedimi, tormentami,
non lasciarmi,
tienimi con te,
non voglio perderti,
stringimi ancora,
tu mi difendi dalla paura
che solo il nulla sia alle spalle,
e non la calda folla dei volti,
quando ti persuadevi a perdonarmi
se ti seguivo,
se ti tradivo nel sorriso
di chi mi rubava
e subito il tuo fuoco
accendeva il lampo del sì,
perché sempre sei tu a tenermi,
tu compi il miracolo,
somigli all’eternità,
spopoli il nulla,
tu solo vinci,
desiderio.
IL BACIO DELLA NOTTE
Vince la luce,
perdono le tenebre,
farfalla catturata dalla lampada,
mosca presa dall’odore,
già uccello lanciato verso il sole.
Allodola o usignolo?
Ormai ci sfioriamo
poco prima dell’alba,
quando la notte bacia il giorno.
Chi mai sarà colui che s’avanza?
Non lo conosco ma lui conosce me,
mi sorride, aspetto che mi chiami.
LA CHIAMATA INFINITA
Chiudendo la telefonata
esito a spegnere la tua voce,
spero sempre che lo faccia tu,
balbetto parole di congedo
a provare quando non ti sentirò più,
non trovo mai il coraggio
di farti cadere
lo lascio alla forza delle cose.
Verrà un giorno
che uno di noi due
mentirà l’arrivederci
sapendo che non ci sarà
più una chiamata
neanche dall’al di là.
Ma tu ribatti e protesti,
se non sento dirmi ciao
non la finiamo più,
e così mi hai detto scherzando
proprio quello che vorrei.
LA VITA FRA LE DITA
Il mondo mi scivola fra le dita,
il desiderio di correre a vederlo
è sempre giovane
e pure me ne sto a letto
assaporando la partenza infinita,
baciato dalla dolcissima
mattina d’ottobre.
Mi lusinga sotto le coperte
la voglia di partire,
le carte d’imbarco già pronte,
il numero di posto sempre dispari,
ma non ho paura del tredici
né del diciassette,
sono dentro la mia vita
che scoppia se non la stringo,
se non le sfilo l’anello dal dito
per metterlo sotto la lingua
e sparire per gioco
come quando per incanto sparirò.
LA FERMATA
Il mondo sognava di fermarsi
nel suo galoppo verso il nulla,
era il sogno che volevi raccontare
ma non ci sei riuscita, stavi male,
hai detto solo sono stanca
te lo dirò domani,
e non hai avuto quel domani.
Ormai infinita la promessa,
ora so quanta fretta avevi, Emilia,
quasi morendo volessi aiutare
il mondo a fermarsi
prima che nemmeno a sostare
riuscisse più,
perché in quel temporaneo arresto
c’è un amore per la vita così grande
da bruciare le parole per dirlo.
Ecco perché oggi molti parlano
di quel che non sanno,
che invece tu sapevi.
E i molti che non sanno
aiutano il mondo
con la loro paura,
non hanno altro.
MATTEO BIANCHI (Ferrara, 1987) si è specializzato in Filologia moderna a Ca’ Foscari sulla poetica di Corrado Govoni. Nel saggio "Il lascito lirico di Corrado Govoni" (Mimesis, 2023) ha messo in relazione i profili di Giorgio Bassani, Roberto Pazzi, Angelo Andreotti e altri scrittori emiliani contemporanei. Ha pubblicato le raccolte "Fischi di merlo" (Edizioni del Leone, 2011), "L’amore è qualcos’altro" (Empirìa, 2013), "La metà del letto" (Barbera, 2015) e "Fortissimo" (Minerva, 2019). È redattore di Pordenoneleggepoesia.it e dirige il semestrale “Laboratori critici” (Samuele Editore); come giornalista scrive per “Il Sole 24 Ore”, “Left”, Globalist.it e “Il Foglio”. Dirige il Centro Studi “Roberto Pazzi” della sua città.