Sì (Tic Edizioni, 2024) è un libro di Alessandro Broggi. “Il secondo di una serie iniziata con Noi” (sempre Tic Edizioni, 2021), come leggiamo nella nota in fondo al libro. L’articolo che segue, concentrandosi particolarmente sul libro di più recente uscita, esplora la poetica all’origine dei due libri e analizza le strategie di enunciazione e i temi corrispondenti, per proporre una riflessione sull’importanza di questi testi.
Per la scrittura di entrambi i libri (nonché per pubblicazioni precedenti), Broggi fa prevalentemente ricorso alla tecnica del cut up, cioè preleva materiali letterari pre-esistenti e li combina e rielabora, senza citare espressamente le fonti da cui provengono. La portata di novità di libri come Noi e Sì non risiede però tanto nell’utilizzo di questa tecnica, quanto nel modo in cui Broggi ha deciso di disporne alla luce della sua poetica.
L’utilizzo della tecnica è preceduto dalla ricezione e dalla scelta dei materiali. Qualcosa di ricevuto dalla realtà, dalla lettura, dalla ricerca, viene usato per creare un’altra realtà: Broggi dispone del cut up come una forma di accoglienza della parola (e della vita) altrui. Rielaborare i frammenti di testo senza doverne citare le fonti significa dichiarare l’esistenza di un’origine mobile e molteplice per la letteratura. Dirò tra poco della disposizione di ascolto in cui troviamo i personaggi di questi libri, cosa che combacia perfettamente con l’utilizzo del cut up come una scelta di ricezione.
Esperienza di sconfinamento tanto tematicamente quanto letterariamente parlando, Noi è l’osservazione costante della vita esterna e interna a un gruppo di quattro personaggi. La prima cosa a colpire, in questo libro, è la scelta programmatica di impiegare la prima persona plurale, che si configura come la voce del pensiero e dell’esperienza di personaggi evanescenti, quasi privi di una biografia (conosciamo soltanto i loro nomi). Eleonora, Maurizio, Norberto e Tania compiono un’esperienza di allontanamento dalla civiltà per sconfinare in un paesaggio arboreo, selvatico. Il viaggio di questo gruppo fuso è metafora del dileguarsi dell’identità: Italo Testa aveva descritto questo libro come “il canto di una soggettività morente”.
In Noi i personaggi sembrano spesso immersi in un silenzio collettivo, donato loro proprio dall’uso costante della prima persona plurale, che li “libera” dalla presa di parola e da una dimostrazione di identità, tema che anche in Sì sarà centrale. I personaggi non “opprimono” la realtà con la loro presenza, scompaiono all’interno di essa. Non dicono cosa provano personalmente, non c’è mai un momento in cui i sentimenti e le pulsioni del singolo emergano in modo esclusivo. Non sono determinati da una voce esterna, sono liberi dal modo in cui potrebbero essere descritti singolarmente. Potremmo essere tentati dalla descrizione di questo gruppo di persone come cellule di un tessuto o animali in un branco, ma questi personaggi sono liberi anche da metafore e spiegazioni.
Mentre la loro soggettività si ritira, emerge un paesaggio “meraviglioso” (nel senso del “meraviglioso cristiano” di Tasso) per la quantità di strutturali incoerenze, anacronismi e impossibilità dei quali si dimostra pieno. Veniamo introdotti a una realtà che nasce dai sensi e dal riconoscersi nella relazione con essa attraverso le continue agnizioni teoriche del gruppo: momenti in cui i personaggi raggiungono uno stato di fiducia in loro stessi e in un ambiente dal quale non sono (siamo) mai stati separati. Distratti dall’esperienza e catturati da questa sorta di vita aumentata, non sono concentrati su loro stessi o su eventuali drammi personali (nonostante le difficoltà e l’orrore che possono incontrare). Sono vivi perché indescrivibili, esterni al narrato.
Nessuno dei due libri propone una ricetta di vita, una soluzione al dolore o altro che attiri luce sulla persona che scrive/pensa. C’è soltanto una vita più grande e immanente all’esperienza, che precede la nozione di identità.
Anche se con una modalità di enunciazione completamente diversa, Sì prosegue su questa stessa linea. Se Noi è un’esperienza di fusione talmente forte da rendere il dialogo quasi un pleonasmo, con Sì ci troviamo davanti a una sorta di iper-dialogo interno.
Credere
Gli eventi iniziano e terminano ma il riferimento persiste… questo corpo, queste sensazioni, questi pensieri: relazionandomi con gli avvenimenti di cui ho contezza persevero nell’alimentare la credenza di essere separato. Essere consapevoli dovrebbe invece significare essere la stessa consapevolezza, e perciò, come individuo, scomparire.
Se tolgo la mia biografia […] che cosa rimane?
Superata quell’“illusione di separatezza” al centro del libro precedente, o per lo meno accolta come tale, con Sì ci troviamo fin da subito immersi in un paesaggio di situazioni quasi infinite ben diverso dallo scenario selvaggio di Noi. Ricorrendo ancora al cut up, chi sceglie i frammenti è in primo luogo un ascoltatore e l’ascolto resta quindi centrale, ma non siamo più davanti a una ricezione di stimoli e visioni che avviene durante un allontanamento fisico. Al camminare nel paesaggio è sostituita un’esplorazione per così dire da immobili.
Se in Noi a parlare è un enunciatore plurale e “fuso”, con Sì ci troviamo davanti a una differente pluralità: i livelli di enunciazione sono adesso tre, coinvolti in una sorta di intervista o seduta di ipnosi svolta in uno spazio non precisato. I tre livelli di enunciazione sembrano corrispondere, rispettivamente per virgolette assenti, francesi (“”) e caporali («»), ai tre ruoli di intervistatore, redattore e intervistato. Il primo utilizza la seconda persona singolare rivolgendosi all’intervistato, che risponde utilizzando la prima persona singolare. Entrambi i livelli di enunciazione utilizzano il tempo presente, mentre il livello in virgolette francesi riporta il parlato-pensato e le informazioni che ne scaturiscono in terza persona singolare al tempo passato. Questa voce redattrice, in sordina, sembra avere il ruolo di fissare le esperienze, di accumulare conoscenza, oppure anche di spegnere un’idea di separazione fra i tempi del dettato.
I primi due livelli di enunciazione vivono in presa diretta: il dire e l’esperire combaciano, siamo nel momento in cui viviamo. L’intervistatore pone domande e suggerimenti di visualizzazione a un intervistato che si scambia di posto con altri e altre (sono in tutto quattro, come quattro erano i protagonisti di Noi) di cui sappiamo soltanto i nomi. Maurizio, Rebeca, Melania e Humbert rispondono con assenso alle esperienze e ampliano la visione che viene loro proposta. I tre livelli enunciativi collaborano così alla creazione di un’esperienza che rivela scoperte abbaglianti per il grado di serenità che propongono: fa la sua comparsa una fiducia in una vita molto più estesa, non singolare e non soggettiva. Segue all’operazione di dileguamento di Noi una promessa di piacere già da sempre esaudita, in corso di fruizione e abbondante, continua.
L’interrogazione costante mette in dubbio la sicurezza delle percezioni e chiede agli intervistati di immaginare: l’ambiente diventa esatto soltanto in uno stato di credenza.
I dubbi sono solo apparenti: ogni domanda dell’intervistatore contiene un tono sottostante di conferma, crede già a qualunque scena gli verrà offerta come risposta. Il lavoro che questi tre livelli di enunciazione svolgono insieme è, dunque, credere.
«[…]continuo a sognare questo sogno, credo a tutto…»
Le domande monitorano qualcosa di ambiguo, multiforme: osservare diventa un metodo di scelta di realtà (anche il cut up, d’altronde, fa la stessa cosa). Si fa esperienza di una iper-realtà fondata sulla visualizzazione, in una sorta di sogno lucido, o di ipnosi liberata, tanto subita quanto agita.
Quello stato di compresenza di dati incoerenti che trovavamo nel paesaggio di Noi qui si amplifica: l’incoerenza si evolve in una totalità di situazioni sovrapposte, un’infinita gamma di scene fuori controllo.
“E ora divertiti a vivere in un mondo non descritto.”: un mondo nuovo perché non isolabile in una definizione, emancipato dalla necessità di essere descritto. Quella libertà dalla descrizione che i personaggi di Noi avevano guadagnato allontanandosi e perdendosi gli uni nelle altre, in questo libro si estende adesso alla totalità molteplice delle situazioni. Il mondo è “non descritto”, cioè disposto ad essere descritto in ogni modo, ma restando però refrattario alla fissità che la descrizione comporta, restando cioè sé stesso.
I personaggi intervistati (anche qui evanescenti l’uno nell’altra) sono esposti a interrogativi di cui hanno già la risposta, che è appunto “sì”. Ogni domanda è un’offerta di esperienza di cui è già stata accettata la possibilità, con amore per la vita.
I dati raccolti dall’intervistatore (le esperienze in corso) sono dati rilevati e creati. La prosa si concentra costantemente su un’ambiguità strutturale, condizione di questa esperienza di vita estesa, che poi non è altro che la vita al di fuori di quell’illusione di separatezza.
Sogno, ricordo, rielaborazione, immaginazione: è lo stesso. Sono definizioni che perdono la loro membrana distintiva: non è una selezione di esperienze, ma un attraversamento – sembrerebbe – ad opera di un’umanità-luce, qualcosa capace di vivere in tutte le direzioni e che al contempo rimane la nostra specie.
Eterno assenso
In fondo al libro troviamo un doppio indice che propone la lettura dei capitoli in due ordini diversi.
In ordine di pagina:
(Scioglimento), (Attività), (Riavvio), (Comunicazione);
oppure nell’altro ordine suggerito:
(Riavvio), (Comunicazione), (Attività), (Scioglimento)
a cui seguono tre prose in coda al libro:
“Altri segni”, “Tertium Quid” e “Ultimo esempio”.
Sì è un libro che si può leggere quindi almeno due volte in due modi, con due inizi e due finali: un libro che si sovrappone a sé stesso, eludendo le classiche misure di “contenimento” che lo renderebbero ciò che è. La poetica della non-separatezza intacca perfino la carta. Questo è l’esito di un processo interno certamente alla testualità, ma evidente graficamente anche nel para-testo: oltre al cut up, e al doppio indice finale che rende Sì una sorta di libro-uroboro, bisogna fare caso ai titoli dei capitoli (termini-ombrello vaghi, adatti a una vasta gamma di esperienze/possibilità) e alle parentesi fra le quali sono racchiusi, che cercano di sottrarli al loro ruolo di demarcazioni separatrici; per non dimenticare il titolo stesso, “Sì”, che unifica la postura di ogni voce presente nel libro (ricezione, accettazione, conferma) e si configura come una comunicazione di assenso rivolta all’esterno, alla vita.
Il libro che si era concluso con «Su, ce ne andiamo» forse ricomincia con il testo Uno di Sì con «Allora ricominciamo», ma anche con il testo Quarantuno all’inizio “concreto” del libro, per ordine di pagina: un elenco di condizioni di vita e umore, di infinite situazioni e possibilità a disposizione dei personaggi. Si tratta di un unico esteso periodo, attraversato da una forte sensazione di fiducia, inesorabilità, futuro nel presente, come se però, al contempo, tutto questo non fosse così importante, e cioè non fosse così isolabile nelle mani di qualcuno soltanto.
[…] non recitando più la parte di quello che si identifica, che si confonde, che crede nel tempo o che qualcosa sia importante; facendoti sconti senza condizioni, strada facendo, secondo le necessità che incontri, senza scapiti e con orgasmo. Come avviene per tutto ciò che è vivo: smarrendoti e ritrovandoti a perdita d’occhio come seguendo il filo di un’idea sfuggente…
Il carattere di “eternità” del libro si vede appunto anche in questo scioglimento che precede il “riavvio”, e lo si legge anche nella frequenza con cui si lasciano situazioni per esperirne altre, in un continuo re-start: le esperienze sono legate e in continua metamorfosi, si è sempre in corpi e ottiche nuove, sempre all’inizio di una nuova scena in cui è possibile credere.
Pan-esperienza: fantascienza?
Potremmo considerare Sì un libro di fantascienza filosofica, come Solaris o Ghost in the shell (che affrontano temi affini alla pan-esperienza di una realtà estesa), ma a differenza di questo genere di narrazioni, rispetto alle quali possiamo in ogni momento considerare la nostra separatezza, in Sì questa non è un’operazione altrettanto facile da compiere.
Al centro del libro c’è un’esperienza di vita generale anche nostra, e il coinvolgimento di chi legge è dato da questo tema, e non dalla possibilità di relazionarsi personalmente a un preciso evento o sentimento presentato. Il tema della pan-esperienza arriva a disperdere la possibilità di fiction e la possibile attribuzione a un genere specifico (non romanzo, non sci-fi, e via dicendo).
“[…] cominceremo a distrarci”. (Noi)
“[…] la sua curiosità somigliava a distrazione” (Sì)
Essere disposti a credere e a dire di sì alla vita significa accettare di farsi distrarre da lei, cioè esperirla fuori dalle nostre parole. La distrazione risulta quindi un’operazione di ascolto, in linea con il cut up e con il preciso utilizzo delle marche para-testuali, che indicano un indistinto legame della vita con tutto.
In questo senso anche Sì, come Noi, è un libro di utopia (ne aveva parlato Andrea Inglese su Nazione Indiana), ma realizzata a priori. Il libro, anche per questo motivo, si sottrae alla malinconia dei drammi personali e si carica di godimento estemporaneo e di felicità del vivere, in un modo che raramente può capitare di incontrare.
Nel capitolo Comunicazione leggiamo:
Il comunicare non è soltanto un’attività che veicola informazioni, ma è la forma nella quale esisti, ti connetti con un paesaggio di interazioni.
La realtà è neurale, un ambiente di reazioni a impulsi immaginativi. Ogni capitolo è sospeso da cliffhanger per così dire vuoti: nulla ci suggerisce che qualcosa di sorprendente ci attenda (quella è la certezza). L’attenzione è catalizzata dall’ineluttabilità di successive possibilità di felicità. Sì è un libro pieno di fiducia, non prosastica né euforica: non trionfalmente umana.
Tutto quello che leggiamo è il frutto di una comunicazione, cioè di una precisa forma di relazione non necessariamente verbale. Se “il comunicare […] è la forma nella quale esisti”, questo libro e le relazioni al suo interno sono una forma di vita, il momento della connessione. La relazione che avviene nel presente è l’esistenza.
«Sto per immergere le mani e bere dell’acqua dal torrente.» è una frase che contiene fotogrammi di futuro: i livelli di enunciazione si propongono vicendevolmente focalizzazioni su scene e dettagli con un dialogo infuso di assenso. Sarebbe quindi un dialogo evitabile, retorico? Chi enuncia, in questo libro, è d’accordo con chi ascolta: stanno assistendo alla corsa di un presente multiforme verso esiti in cui è stato possibile credere.
Con l’intersecarsi dei tre livelli di enunciazione, i livelli di inchiesta, presa diretta e narrazione si fondono in un’unica esperienza e l’accordo fra le voci finisce per risolvere in una libertà dalla vita “parlata”.
«Evitando di trarre la propria identità da un’idea di separatezza, non c’è altro o diverso che possa minacciarlo, negarlo o sconfermarlo.»
La realtà non può più essere considerata un nemico, né un’entità separata. I personaggi perdono così l’impulso a usare le parole e i nomi come un’arma di difesa, che costruisca identità.
In virtù della loro capacità di dire “sì” accedono alla possibilità di vivere senza paura, e sono perciò onnipotenti perché completamente vulnerabili, attraversati da infinite e compresenti relazioni. In più, l’esperienza sembra compagna della sua conclusione: alla comparsa di una coordinata successiva, si abbandona la scena precedente con uno slancio: la separazione viene sconfitta con ogni frase.
Anche l’imperfetto usato dal livello enunciativo “rielaboratore” (in virgolette francesi) va in questa direzione, perché dona un senso di permanenza all’atto del credere, più che agli eventi che vengono lasciati e ritrovati.
Esperienza come amore
Il capitolo chiamato Attività, in particolare, è il momento in cui le specificità dei vissuti (e quindi le riconoscibili identità, qui solo nomi) vengono scardinate. I personaggi sono capaci di tutto, sanno fare infiniti mestieri e vivono infinite e (non) combinabili situazioni. Mansioni anche in contraddizione tra loro, che dimostrano un depotenziamento dell’importanza attribuita a dati, ruoli e legami costruttivi di un’idea del sé. Ancora una volta: “Se tolgo la mia biografia che cosa rimane?”
Ci si può sorprendere a sorridere leggendo accostamenti come: “ti occupi di pena di morte e diritti umani, presti servizio in una cineteca, hai intrapreso la carriera di bagnina”, per livello di assurdità, ma anche sempre di serenità e libertà dilaganti che ne scaturiscono. L’assurdità degli accostamenti è infatti espressione della caduta dell’importanza di tutte quelle vicende biografiche che consolidano l’identità e ci permettono di considerare la nostra vita come qualcosa di compreso e distinto dal resto.
[…] Ti trastulli e ti dai attivamente da fare,
[…] Sei ancora tu, restando lo stesso sei tutte le persone.
La vita di Maurizio (unico dei personaggi a essere presente anche in Noi) non è qualcosa di comprensibile attraverso gli eventi che gli capitano, il lavoro che fa o le sue scelte. Fa sempre cose incompossibili. Conoscere Maurizio, Rebeca, Humbert o Melania è qualcosa di possibile soltanto come superammasso di eventualità interrelate, ed è possibile, soprattutto, fuori dalla descrizione.
La pan-esperienza si declina anche come esperienza amorosa fra i quattro personaggi. Gli innamorati e le innamorate somigliano molto alla realtà alla quale si è disposti a dire “sì”, o meglio: l’innamorato/a sembra essere parte inestricabile del paesaggio di situazioni, anche lui o lei una totalità in stato di quiete rigogliosa.
Vede e sente quello che c’è da percepire: il fenomeno che un altro essere umano crea.
[…]
Si concentra su quello che può fare e non su ciò che non può fare, non cerca assensi: è semplicemente disponibile.
A rendere la realtà fisicamente attraente è la sua disponibilità. Ancora: «[…]non ricorre a discorsi o domande, né a nessun altro dei mezzi che abbiamo per distoglierci dal presente.» La disposizione ad accettare la realtà e a crederle (l’amore?) sfonda le difese linguistiche che ci illudono di essere irrelati, e attinge a una grandezza di vita descritta con ogni coordinata e subordinata soltanto per essere immediatamente lasciata senza addii, con serenità.
L’innamorato/a di nuovo: «[…]Di lui non vedo solo particolari slegati, riesco a conoscerlo…» Non eventi e aspetti separati, né azioni di un io in una singola storia proposta: si riesce a conoscere la realtà come intrinsecamente legata alle sue parti, vedendole insieme come nella persona oggetto di amore.
Il lirismo del dileguare di cui ha parlato Italo Testa per Noi, qui è amplificato, e si evolve adesso in una disposizione lirica propria non di individui in stato di scomparsa, ma di dileguati in stato di beatitudine, un gruppo esteso all’infinito caratterizzato da una soggettività adesso completamente vulnerabile, molto simile a un paesaggio vivente.
Le tre prose poste in fondo al libro sono strettamente imparentate con Sì, ma potrebbero anche essere ulteriori inizi per altri libri.
In Altri segni a parlare è l’io di un organismo natante non definito, che si tratti di una persona o di un microrganismo non è in discussione: come al solito al centro c’è l’esperienza. Espressioni come “la distesa prossima del mare e ogni genere di simpatia” , “alleati con tutto” e ancora “quando i nostri nuovi silenzi saranno più accurati delle vecchie parole” danno la misura dell’inesauribile legame con la vita che nutre la poetica di questi libri e ancora di quel dileguarsi verbale che crede in una realtà di relazione.
Tertium quid è invece una terza strada appunto, forse al libro che abbiamo appena “finito di leggere”, ed espande la carica di non-finitezza di Sì parlando di una coscienza che esperisce una metamorfosi generale, sembrerebbe ancora una volta “per distrazione”. Da notare in particolare per questa prosa, anche se vale per tutte e tre, è il tono di non-addio, questa volta: un desiderio di raccontare l’infinito.
In Ultimo esempio invece una voce esterna parla di “loro”, una collettività più ampia del gruppo dei quattro che abbiamo appena lasciato. Questa voce somiglia molto a quel “noi” del primo libro, che era sia estratta dal gruppo sia parte integrante di esso. L’immagine iniziale della prosa propone una collettività sconfinata, molto simile alle luci dei beati nel Paradiso di Dante, dotate di una gioia che in Broggi proviene dal completo assenso alla vita: «questo sì, quello sì e la risposta non merita alcuna domanda. Qualcosa si può immaginare… Persone.». Ultimo esempio si conclude con «Non voglio aggiungere altro.», ma è facile, dopo aver letto l’indice in fondo, andare al capitolo Riavvio e leggere la frase «Allora ricominciamo», come un ripartire di nuovo dell’esperienza inesauribile.
Tutte e tre le prose sono una non-conclusione per un libro che non può e non deve essere concluso, e che con ogni frase scopre un orizzonte di serenità che dire “collettiva” è già troppo definente. La libertà, in fondo a questo libro, sembra la prerogativa di chi ascolta e si lascia attraversare, oltre che l’unica condizione di vita possibile.
Oggi è rarissimo trovare testi che brillino in questo modo per la chiarezza della poetica che li anima, e ancora più raro è scoprire scritture che propongano di credere nella nostra vita. Se ci chiediamo quale sia il motivo, possiamo gioire dell’esistenza dei libri di Alessandro Broggi.