Cinque poesie inedite.
Mi dici che hai un piano regolatore
per la mente. Che la mente ha un piano
regolatore per il cosmo. Osserva – mi dici –
come il guscio di un uovo compenetra il sole.
Come l’asfalto combacia le stelle più lontane
col ritmo dei tuoi occhi se osservi in frammenti
la lingua che ti conduce. Mi hai detto di sostare
nel punto più remoto della luce nel tuo corpo.
Osserva – mi hai detto – con sguardi chiari
la cicatrice che è l’acqua.
Per stare uniti la coscienza mi chiedi
di osservare – di essere osservati da un binocolo
di albe, da cunicoli deserti che sono case
ormai, le case che sono un enigma. Il piano
regolatore tu mi insegni – spostare la materia
sognata nella materia dei sogni – un suono
di abiti di lino ai fianchi – tu e io che ci sfioriamo
tu e io e la solitudine di una cicatrice – mi spieghi
sott’acqua – mi spieghi che l’acqua si nutre
di idee.
*
Per misurare il sogno mio padre beve
lunghi sorsi di latte. Per misurare il vuoto
tua madre accarezza begonie, le spore rosse
di ogni rosa che portiamo dalla nascita alla cassa
di legno. Mi dici – tu scherzi sempre troppo
col tempo. Intanto la cassa apre il buio
sul tempo che abbiamo, sui giorni imbevuti.
Tu hai Elliott Smith, l’amica bruciata, il tabasco
tuo padre sorridente nelle foto. Io ho solo
i miei coltelli, un muro a mezzanotte. Così ti dico
per misurarci dobbiamo nuotare.
A casa tua nelle foto ho osservato una nave.
Una nave che mi ferma il cuore sul punto
esatto dove il mare si ferma. I nostri genitori
mi fermano il cuore. Questa misura mortale
ti chiedo – può mai essere oltre le foto?
Mi parli di una rosa che sboccia ogni giorno
dal viso. Di una nave che salpa da me
a te per fermare mio padre e tua madre.
E mio padre che beve tua madre nel latte
per crederci uniti. Apro gli occhi e ho una foto
tra le mani. Il tuo volto mi fa brutti scherzi.
*
Costruiamo una maschera. È per il giorno –
per la notte basterà la nostra faccia. Riprendiamo
così la ricerca. Nel solito bar una ragazza
gioca a carte con scheletri rosa. Ha le gambe
piene di cicatrici, due occhi diversi. Potrei
essere io – mi dici. Ma tu non bevi
con la mano sinistra. E poi hai scheletri
solo miei nell’armadio. Ad un tavolo opposto
un uomo con pochi denti sorride.
Le sue gambe bianche, la barba un rigagnolo
tra le fauci vaneggia e chiama una donna.
Ti chiedo – quello potrei essere io – se e quando
riuscirò a incontrarti. Ma questo è solo il solito
bar. Devo cambiare città, perdere molte
fermate di ogni metro che passa. Ci sono molti
più bar a Taiwan. Molti più scheletri rosa.
Oppure a Londra. Dove per il volto non basta
una notte. Costruiamo una maschera là.
*
Nasce da un cimitero qualunque – da una cieca
discarica a Beirut. In un vortice di capelli
in una ciocca di versi tagliati, tra profilattici
rotti per strada, nelle bettole accese di Mosca.
Potrebbe essere su nel cielo nero del Madagascar
le sue ossa sepolte tra migliaia di insetti.
Oppure con l’anello al dito di un soldato
e nel suo dito una fede protetta. Potrebbe nascere
ripeti la sua faccia – da un momento all’altro.
Sul tuo neo, ad esempio. Su queste dita chiuse
dentro il diario delle gambe. Nel vecchio paese
dove sei nato più volte – tra strade marine
oppure sentieri di guerra. O forse dopo montagne
nel bel profilo di un gatto egiziano, tra tende
di zenzero e mirra. Ma sei già nel cieco formicaio
nella truffa di una voce analogica. Una pelle
quasi più umana, e via i vecchi vestiti. Nel quark
del reale – o qui – tra un memento e l’altro.
*
Le due di notte sono l’ora più reale. Il quark
di ogni galassia più pura. Il digitare su una tastiera
più vera. Anche se tutto è ologramma di notte
la notte so che tu esisti. So che esiste una rete
che non ha solo aurore, ma ombre di noi
ombre più antiche di noi. Laggiù siamo le faq
di ogni dio che genera vite ricorrenti. Siamo figli
del loro bug, siamo il font extraterrestre
e hackeriamo – siamo hackerati.
Alle due di notte il centro di ogni galassia
si posa su questo foglio. Vengono raggi e bui
di raggi, come radiografie. Vedo ogni bene
e – ti dico – che il bene che abbiamo laggiù
qui è un pezzo di eternit. Ma stanotte anche
tu torni qui – e mi dici che è una fake cercare
nel linguaggio alieno in ogni bocca un mistero
di noi che chattiamo da un pianeta all’altro.
Tra le mani stringo un pezzo di eternit.