Guardare/15 – Le figure della perdita

da | Giu 11, 2024

(“Guardare” è una rubrica che propone poesie scritte da ventenni e trentenni e che prova a raccontare il nostro momento storico dal punto di vista del loro immaginario. Questo percorso ci accompagnerà nei prossimi mesi con un’uscita ogni due settimane. Tessera dopo tessera si configurerà un mosaico in cui speriamo emergano interrogativi, chiavi di volta e genealogie di un tempo che muta velocemente, lascia disorientati, ma chiede anche nuove e autentiche forme del guardare. Nella quindicesima uscita tre testi di Stefano Bottero, nato a Roma nel 1994.)

 

Internamento di uno scarto di significato. I confini dell’opera sono confini ossimorici – di oggetto a una prima superficie, poi di un oltre. La coesistenza per sovrapposizione di queste due dimensioni è, in atto, l’opera d’arte. Stato di affermazione di sé, del prendere posto in un luogo e in un tempo – come si dice, fuori dal tempo.
L’opera presuppone nell’artista una fuoriuscita. Non solo in lui la spaccatura, ma la spaccatura come traversamento, perdita di una fisicità che scivola verso il dentro. Emidio Clementi, che riprende John Cage, scrive: «contenitori che perdono acqua noi siamo / nuotiamo, e ogni tanto affoghiamo». «We swim, drowning now and then». Nel movimento perdiamo il movimento, in progressione – l’opera si afferma come punto di svuotamento. Ritorna in Adonis, nel poema شهوة تتقدّم في خرائط المادة [tradotto da Fawzi Al Demi, “Desiderio che avanza nelle mappe della materia”]: «fino a svuotarsi del tutto».

Corrispondere come pesci, nel silenzio dell’annegamento, senza lessico. Dirsi con gli occhi spalancati verso il buio del significato, per un’istante in immediato legame con quest’ultimo, ma mai abbastanza legati da evitare che scivoli tra le dita. Istinto che si risolve, per sua stessa natura, nel toccare senza trattenere. Ancora

 

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La poesia come voce di animali investiti.

Movimento egressivo del respiro, ultimo – in cui convergono in maniera paradossale l’essere
definitivo e, ancora, seriale. Tutto questo significa fondare l’atto estetico come un gesto ritmico,
rimico, del tutto simile alla dipendenza eppure dato una volta soltanto. unico gesto – libero dall’essere «persona», dall’avere un peso, traiettoria, modo di camminare.
Significato che accade nel corpo, che si «attesta» dentro come l’idea che il gas sia rimasto irrimediabilmente aperto, quando già la metropolitana è nel punto in cui la rete non prende e il buio intorno spalanca il vuoto mentale.

Non sto parlando di ascesa. una distanza che si abbrevia – venire meno, qui, delle dita. Latrato che si spegne dopo l’incidente –

dopo, ricordo.


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Il poeta, traslocatore del senso. Sorregge con il corpo gli imballaggi pesanti di un qualcosa – del tutto, procedere per consumazione. Confidare nella forma del testo per trasferire un significato da una sede a un’altra, da un luogo a un altro. L’operazione grava sulla schiena. Fino a dove ha ragione la capacità di sorreggere, l’atto formale si attesta.
Incrinamento delle costole nello sporgersi per valutare lo spazio, complicazione progressiva del respiro – il procedere del trasferimento apre nel corpo la crepa. Così, nel poeta, le fondamenta sono carta bagnata. Materia predisposta a un disfarsi che non sta nel presente.

La composizione – ripetersi continuo del preludio, mai conclusione in essere. Dove avviene la fine, dove le costole passano dall’incrinatura al compromettersi del tutto – l’atto è impossibile. La manifestazione assoluta del buio annulla la pièce.