“Saggio è chi resta libero…”. Su Giovanna Bemporad

da | Gen 3, 2024

Giovanna Bemporad si è sottomessa con il riguardo e la contentezza d’un monaco al comando di Callimaco, Μέγα βιβλίον ἲσον τῷ μεγάλῳ κακῷ, cioè conservarsi in un libriccino perfetto, piuttosto che disperdersi in traboccanti cronache. I suoi Esercizi infatti, perfino nell’ultima curatela: estesa rispetto alla princeps, non formano manco una centuria, e perciò sono eletti – magari accanto all’Alibi morantiano (1958) – come il campione più delizioso e radicale d’un’ossessiva reductio ad minimum.

La sua biografia favolosa (Ferrara 1923 – Roma 2013) inizia a tredici anni quando, in poco più d’un mese, traduce in endecasillabi l’Eneide; frequenta le lezioni di Leone Traverso, che raccomanda questa prima prova, Carlo Izzo; e prende a lavorare all’Odissea. Queste sue pièces omeriche nel ’41 verranno prescelte a Quasimodo, che pure l’anno avanti era stato applaudito per i Lirici greci. A Virgilio, ora sappiamo, torna nel 1939 con le Bucoliche, «con l’intento di ridarne “la visione elegiaca del mondo” (e per “sottrar[lo]” alla propaganda fascista che vedeva, nella latinità-italianità, la base della cultura nazionale)»[1].  

Lascia la scuola e la famiglia, sfollata a Fiesso Umbertiano; «si dichiara atea, lesbica e antifascista»[2], per quanto più in là confesserà a Pasolini che «mi servivo di quella maschera come di una corazza contro gli uomini»[3]; e peregrina da Bologna a Venezia, fino a Casarsa dove ritrova l’amico che aiuta a tenere in piedi l’improvvisata scuola di Versuta.

Bemporad, giovanissima, era una sorta di prodigio letterario. Già nota per le traduzioni dal greco e dal tedesco, la precocissima cultura letteraria e singolari abitudini di vita avevano fatto di lei un personaggio freak avanti lettera: abiti bislacchi, laceri; svagato disordine e comportamenti affatto anomali in una ragazza che sfiorava i vent’anni. Pier Paolo la cercò: lei frequentava la scuola a Bologna, al liceo Galvani: Pier Paolo le offrì la collaborazione al «Setaccio». […] pubblica traduzioni da Saffo, Goethe, Hoelderlin (traduttrice Giovanna Bemporad, che, per ragioni razziali, si firmava Giovanna Bembo), da Machado (grande passione pasoliniana), da Baudelaire[4].

L’inclinazione alla poesia compiace una spavalda complicità, e Giovanna si persuade che schifa le superstizioni di razza, sesso, generazione, censo, nazionalità, lingua. Il poeta è pertanto come un beniamino intoccabile e invincibile: tant’è che, presa da un manipolo di soldati nazisti, perché ebrea, «ebbe il coraggio di declamare il Faust [sic] goethiano nell’originale tedesco»[5], e tanto bastò a rilasciarla[6].

La letteratura, questo è il senso dell’atto sconsiderato, non può protegge dal male, ma dalla morte sì, com’era stato per Sheherezade, per Dante o i compagni in quarantena a Fiesole; o negli anni prossimi per Primo Levi, Józef Czapski, Mandel’štam… E rende liberi, se si sa resistere alla festosa sfida:

Saggio è chi resta libero, e non cede
neppure al dio che invoglia alle carezze
quando trafitti da spade d’amore
gli occhi ottusi cavalcano nei sogni
sopra l’azzurro amplissimo dei cieli![7]

Un’edizione degli Esercizi è in preparazione da tempo, nondimeno il progetto viene accantonato per la scomparsa dell’editore, l’omonimo Enrico, fino al 1948, quando viene ripreso e compiuto dai veneziani Urbani e Pettenello. Pasolini, con una recensione che col senno del poi appare come un autoritratto, esalta, e forse esaspera, la disposizione al rischio e a un’ombrosa stravaganza: 

In pieno disordine, sempre sull’orlo della fame e addirittura del suicidio, perseguitata per le strade di Bologna, Firenze o Venezia da sguardi sgomenti per il suo aspetto e le sue vesti mostruose, fischiata dai militari o dai ragazzi[8].

Quell’eccentricità, invero, è il solo capriccio di chi si è riparata nel più severo isolamento ma splendido delle rime e delle sue leggi.

Intanto conosce Sbarbaro e Ungaretti che nel 1957 serve da testimone alle nozze con Giulio Cesare Orlando, democristiano che diventerà prima ministro e in seguito senatore, e che le accomoda quell’agio già ordinario nella casa del padre avvocato. La nuova vita la porta tuttavia a mettere da parte le ambizioni d’artista:

ho perso metà della mia vita a occuparmi di mio marito e della sua carriera, dimenticandomi della mia, della mia che non consideravo carriera, naturalmente, ma che però mi obbligava a coltivare rapporti sia coi letterati, sia con gli editori; e invece ho dovuto abbandonare tutto[9]

È una sepolta viva, come l’Elisa di Menzogna e sortilegio, che sa conversare coi morti:

Da ragazza prodigio mi sono trasformata volontariamente in una poetessa “postuma” e mi sono camuffata sotto la corazza delle traduzioni dei classici[10].

Così una minuta plaquette privata viene stampata solamente nel 1963[11]; e ora si può affermare che quello sprezzante classicismo sia stato il vero scandalo; quando a Palermo, le milizie in avamposto, facevano solo rumore: come bambini cattivi con le pistole di plastica. Segue daccapo un gran silenzio, ma Bemporad non sospende lo studio delle avventure di Ulisse, fino al 1980 quando ritorna in pompa magna con un’edizione sana del libello[12]. Qui, con accortezza, alle juvenilia si accompagnano le traduzioni dai poemi indiani dei Vedha, di brani da Saffo e Omero, dai moderni francesi e tedeschi. Di questo periodo rimangono, come attestati di inclusione tra i poeti di fama, delle partecipazioni televisive, tra cui la tenzone con Bonaviri, vinta[13].

Anche stavolta segue il rituale mutismo ventennale, e infatti l’attenzione agli Esercizi riemerge, e vivacissima, negli anni Duemila. Un’antologia online[14] precede (eccita?) di poco un volume dell’Archivio Dedalus che, oltre al corpus, accoglie varianti e inediti: scelta messa a fuoco dall’estensione del titolo primitivo con la coda «vecchi e nuovi»[15]. L’appendice riguarda i capitoli delle «Saffiche» e delle seniles «Poesie degli anni tardi», ma vengono disgraziatamente bocciate le versioni. Nel 2011 «Nuovi Argomenti» presenta delle extravaganti[16]; e Sossella dà fuori nuovamente il libro. In quest’ultimo caso si verifica il ripristino della lezione garzantiana, la raccolta guadagna altre liriche, ma sono ancora una volta cassate le traduzioni. «Poesia» nel numero di febbraio del 2014 dà conto di 25 inediti (dai 46 del fascicolo  formato dall’autrice), stesi ante ’48. Il fatto che fino ad allora fossero rimasti “chiusi nel cassetto”, nonostante le novissime e ravvicinate operazioni, conferma che il metodo di selezione resta rigido.

A tanta parsimonia, quasi avarizia, corrisponde una possessione, un delirio che la costringe a rivedere, raschiare, nettare quest’interminato palinsesto, cercando di acchiappare la parola segreta e impareggiabile:   

Non ho avuto mai giovinezza né adolescenza,

non ho dato importanza a quella che gli uomini chiamano vita,

ne ho data solo alla poesia, alla parola,

alla ricerca della parola giusta.

Questa è stata la mia unica ragione di vita[17].

Ecco la giustificazione del titolo: una intestazione umile condivisa con gli Exercitia di Ignacio de Loyola (1548), con le antologie continiane, e che stilisticamente professa la pratica michelangiolesca del non-finito. La ricezione critica, ristretta ma invidiabile, occupa, oltre al già nominato Pasolini e Baldacci, anche Spagnoletti, Zanzotto, Pagliarani, Anceschi, Raffaeli, Trevi; e Berardinelli. A questi vanno addizionati i ricordi apparsi alla morte: tra gli altri di Magrelli, Cortellessa e di Paolo Tonini che pubblica online le immagini di certi documenti, tra cui la poesia A un’etera[18] (non presente nelle edizioni Dedalus né in quella Sossella); mentre più recenti sono le note di Sgarbi e Sica.

In un percorso inverso, facendo finta di mettere da parte l’influenza ricevuta dagli autori tradotti (penso a Saffo e Novalis per il tema della notte), si fa notare un gruppo di italiani su cui Bemporad ha meditato e che ha accasato nei propri versi. Sono Leopardi, Montale, “in negativo” il Betocchi di Realtà vince sogno (che è del 1932) cui oppone in polemica la poesia Sogno vince realtà (ed. Sossella, p. 78). Nella più sontuosa poesia, La ninfa e l’ermafrodito (ibid., p. 66), il femminiello che viene commendato per la sua superba bizzarrìa fisiologica, ricorda le vertigini grammaticali dell’Adone mariniano o, verrebbe da dire, quelle di Lucio Piccolo, non fosse però che non può essere; ma di certo il contatto più sicuro resta l’Alcyone, perché evidentemente il secolo ha ancora bisogno di d’Annunzio:

Chiusi i suoi grandi occhi insufficienti
dove essenze d’aurora e d’ideale
galleggiano, ha disteso il fianco ambrato
tra pioppi ed olmi anelanti all’altezza
l’ermafrodito; ha disteso il suo corpo
sull’erba, vinto dal meriggio fulvo
che impone una consegna di silenzio
e una riserva d’ombra ad ogni fronda
sospesa al dolce incanto del suo sonno.
Sono strali nel fianco e nel mio cuore
le linee del suo corpo, chiare, lisce
fino ai capelli, attorti in arabeschi
simili a verdi draghi addormentati.
Forse il belletto aereo dell’aurora
ha tinto questa bocca, molle e gonfia
come un frutto dei tropici. Il suo riso
che ride alle ninfee mi intesse il velo
di una trapunta gelosia; mi apprendo
come un’ape al suo labbro materiato
di piacere e di sonno; vi suggello
solitudini lunghe e incontri rari,
stagioni d’odio e d’amore, l’asprezza
della morte essenziale, e mi allontano
sull’ala ebbra e inquieta del pudore.  

E in più luoghi c’è, inatteso, Penna, a cui Giovanna Bemporad porta via il puer beatificante (D. 179):

Non sottomessa ma ribelle al fascino
dispotico che emana il dio fanciullo.

La coincidenza, che non è esclusivamente semantica, è con questi versi:

Ma il mio dio se ne va in bicicletta
o bagna il muro con disinvoltura[19].    

O anche:

Ricordati di me, dio dell’amore[20].

La concezione erotica per entrambi ignora riferimenti alle vicende e alla realtà biografiche, e si spiega nel desiderio. Lo spasimo è promotore della fissazione su questa deficienza di cui, in fondo, si sa non si vincerà mai la padronanza. Ciò viene evidenziato, per esempio, dall’uso del condizionale in Viva in me geme la tua carne, palpita (D. 135):

Vorrei perdermi in te, con braccia ardenti
stringerti esangue, fiore che tra i fiori
recisi dei suoi petali si spoglia.

Questa visione è estranea al sentimento petrarchesco, e l’iperletterarietà[21], il lusso stilistico e l’artificio della patina anticata, non dovrebbero essere ricondotti ai Fragmenta[22] ma, semmai, all’eco più remota di Dante: perché l’insoddisfazione sprona a raggiungere l’oggetto contemplato, e si compiace di questa raffinatissima condizione di irrisolto IN-namoramento. La pratica erotica non si scioglie, infatti, nel ricordo doloroso dell’assenza (Laura è il fantasma di qualcosa perduto per sempre); ma, al contrario, s’avvampa del desiderio, fantasia o intelligenza, di qualcosa che sta davanti, o troppo in alto.

Questa mescolanza di suggestioni e di teorizzazioni convive negli Esercizi nei modi pacifici di un sincronismo neopagano: una religio ristretta a poche divinità, resa secondo gli stilemi apollinei, e quietata in una visione erotica e naturale del cosmo (riecco il dantismo). Allo spazio concesso all’amore si alterna e intrica l’altro Ur-tema: la morte, che, paradossalmente, non viene esperita come il raggiungimento di un punto finale ma è assimilata all’esistenza (Mia compagna implacabile la morte, in D. 27):

Mia compagna implacabile la morte
persuade a lunghe veglie taciturne.
Ma non so che inquietudine febbrile
fa ingombro a questo dolce accoglimento
calando il sole, prima che ogni gesto
si traduca in memoria e che ogni voce
s’impigli nel silenzio. Forse il vento
porta come un rammarico del tempo
che non è più, trascina per le strade
deserte una fiumana d’ombre care.
E biancheggia un’immagine tra i gigli
di giovane assopita nel suo riso.

In modo più appariscente si manifesta nel momento dell’abbandono (Veramente io dovrò dunque morire, in D. 25):

Veramente io dovrò dunque morire
come un insetto effimero del maggio
e sentirò nell’aria calda e piena
gelare a poco a poco la mia guancia?
Più vera morte è separarsi in pianto
da amate compagnie, per non tornare,
e accomiatarsi a forza dalla celia
giovanile e dal riso, mentre indora
con tenerezza il paesaggio aprile.
O per me non sarebbe male, quando
fosse il mio cuore interamente morto,
smarrirmi in questa dolce alba lunare
come s’infrange un’onda nella calma.

È in questi due testimoni, ma potrei citarne altri, che la speculazione sul tema è condotta seguendo la prassi razionalistica. Si concentra sulla condizione materialista ed esclude l’eventualità che venga acclamata come premio, o liberazione o condanna: Thánatos è, e basta.

Infine, il metro: quell’endecasillabo che è parte imprescindibile della forma e del contenuto dei testi. Si sa che Bemporad è assillata da questo metro e lo persegue senza timidezza‏:  

Fin da bambina mi ero innamorata dell’endecasillabo e mi ero ripromessa che al termine della mia vita mi sarebbe bastato poter dire di aver scritto anche soltanto qualche bell’endecasillabo. D’altra parte la lingua italiana si appoggia naturalmente sull’endecasillabo: perfino le frasi più banali sono spesso endecasillabi, come quella che si legge nei tram: “Sorreggersi agli appositi sostegni”[23].

Il verso ha suggestionato e impegnato la scrittrice in un tentativo, legittimo e orgoglioso, di impadronirsene in ogni aspetto tecnico. È importante rimarcare come l’uso che ne fa nella poesia in proprio è analogo a quello della traduzione omerica dove viene prescelto per equivalenza all’esametro. La convinzione è che così come quel metro era naturale per il poeta greco, per lei, italiana, lo è questo. Ecco perché negli Esercizi non si risente di alcuna pesantezza di maniera ma, al contrario, il verso si percepisce nell’unità tra ritmo, stile e senso (o sensualità).

A questa esclusività dell’endecasillabo non corrisponde un metro chiuso. I versi sono sciolti, barbari; e malgrado il richiamo a voci ingombranti della tradizione, Bemporad è convinta dell’originalità e novità del proprio lavoro, come rivendica in questa intervista del 1986:

Usare l’endecasillabo non significa applicare la misura di un verso stereotipo uguale in chiunque l’adoperi. La tradizione poetica italiana ci insegna che c’è l’endecasillabo di Dante e quello di Petrarca, l’endecasillabo del Foscolo e quello del Leopardi, l’endecasillabo di Ungaretti di Sentimento del tempo e quello di Saba e perfino quello del primo Pasolini. Non è certo mai in nessun modo lo stesso endecasillabo. Ognuno opera un’invenzione del proprio endecasillabo e naturalmente lo adatta ad esprimere di volta in volta i contenuti della poesia altrui e della propria. Io ho tentato di avviare l’endecasillabo, senza incrinarne la struttura, verso la possibilità del discorso diretto, verso la chiarezza che altri trova nella prosa. In questo senso, come ha anche detto Pasolini in una sua recensione, il mio endecasillabo è al limite della dissacrazione. Intendendo il mio rapporto con l’endecasillabo in questa maniera innovatrice e vitale, concordo con Canali che vede la «rivoluzione» moderna della frantumazione o della illimitazione ritmica realizzata da me entro il sistema metrico tradizionale[24].

La musica accoglie nel ritmo – lunghezza e accentuazione – il significato più intimo della composizione, e la lettura scandita con precisione agevola la comprensione.   

Per quanto questa dichiarazione sia chiara, mi rimane un tarlo che non riesco a spiegarmi. Considerando nel suo insieme l’attività lirica e quella di traduttrice si realizza una certa “schizofrenia”. Il disordine si percepisce nel fatto che la vocazione lirica, presente in un unico petit livre, non trova soddisfazione nella traduzione di un testo ampio come per l’appunto è quello omerico. Una pacificazione, semmai, la si riscontra con l’escamotage dell’incompletezza: dicevo sopra del non-finito; ma su questo punto bisognerà ritornare; così come va approfondito l’uso degli aggettivi cui dedica un’attenzione quasi quasi paragonabile a quella data al metro. L’impiego è sovraccarico – sia nella posizione denotativa sia in quella connotativa – eppure risulta  essenziale, e non si percepisce come sperpero né come bigiotterria. Diceva Pasolini che l’aggettivazione è «così fantastica da richiedere uno stato di felicità» (in D. 201). Questa furia, come il ricorso all’endecasillabo, costituiscono dunque un metodo di lavoro, una disciplina, o testardaggine, che le concede di tornare altrove e in un altro tempo, dove sta più comoda e si sente a casa. Una soluzione come un’altra per tirarsi fuori, come Hardy, dalla fastidiosa e “pazza folla”, resistere alla noia del mondo ed essere «veramente contemporaneo»[25].  

  

NOTE:

[1] E. De Signoribus sul sito dell’editore: www.edizioniquattroventi.it/cat158.php?n=1 [24.12.2023].

[2] F. Di Battista, La fille prodige della traduzione. Giovanna Bemporad da Omero a Rilke e ritorno, in «Tradurre. Pratiche teorie strumenti», 19, 2020.

[3] G. Bemporad a G. Grieco, Trentasei notti in cantina con Enea, in «Gente», 41, 21 ottobre 1983.

[4] E. Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli, 1978, p. 61 e p. 63. Lo scrittore aveva iniziato a lavorare a una biografia di Bemporad, interrotta a causa della morte nel 2006.

[5] In V. Pezzella (a cura di), Giovanna Bemporad. A una forma sorella, Edizioni Archivio Dedalus, 2011, p. 66.

[6] Una variante di quest’episodio, o un addendum, riporta che che «catturata dalle SS e sotto minaccia di fucilazione, grida “non si uccide la poesia!” e declama in tedesco i versi di Hölderlin […] “Le SS rinunciarono alla fucilazione e mi rinchiusero nelle carceri di Rovigo. Qui per tre mesi mi tennero sotto il torchio dei loro terribili interrogatori. Ma non approdarono a nulla. A stancarsi furono loro, i miei aguzzini, e mi lasciarono andare.”»: in Sara Mostaccio, Giovanna Bemporad la poetessa enfant prodige, amica di Pasolini e contestatrice ante litteram, in «Elle» online: 21 gennaio 2020.

[7] G. Bemporad, Crisi meridiana, in Esercizi vecchi e nuovi, a cura di V. Russi, Sossella, 2011, p. 70. Citando da quest’edizione, si riporterà nel testo tra parentesi “S” e il nr. di pagina.

[8] P.P. Pasolini, in «Il Mattino del Popolo», 12 settembre 1948.

[9] G. Bemporad, in Giovanna Bemporad. A una forma sorella, cit., p. 38.

[10] G. Bemporad a G. Grieco, Trentasei notti in cantina con Enea, cit.

[11] Ead., Poesie e traduzioni, Tipografia La Rapida, 1963.

[12] Ead., Esercizi, con una nota di Giacinto Spagnoletti, Milano, Garzanti, 1980.

[13] «[Episodio] 7: Giovanna Bemporad», in Vita da poeta, RAI 3, 17 dicembre 1987; «Poeti in gara», rubrica all’interno del programma L’Aquilone, RAI 1, maggio 1989, e RAI 2, 26 maggio 1989 (Giovanna Bemporad vs Giuseppe Bonaviri).

[14] F. Marotta, Gli Esercizi della vita. Omaggio a Giovanna Bemporad, cui si allega una generosa antologia di testi alcuni dei quali hanno «subìto revisioni più o meno sostanziali, da parte dell’autrice, rispetto all’edizione Garzanti (1980)» e per giunta un inedito: Vendemmia, in «Reb Stein» online: 7 luglio, 2009.

[15] Ead., Esercizi vecchi e nuovi, a cura di A. Cirolla, Edizioni Archivio Dedalus, 2010. Citando da quest’edizione, si riporterà nel testo tra parentesi la sigla “D” e il nr. di pagina.

[16] G. Bemporad, Nuovi esercizi, a cura di A. Cirolla, in «Nuovi Argomenti», 54, aprile-giugno 2011, pp. 149-150; le poesie si leggono alle pp. 151-157.

[17] G. Bemporad ad A. Cirolla, in Per Giovanna Bemporad, in «Minima & Moralia» online: 7 gennaio 2013.

[18] P. Tonini, “Non si uccide la poesia!” Frammenti ritrovati di Giovanna Bemporad, in «L’arengario. Studio bibliografico» online: 20 gennaio 2013.

[19] Sandro Penna, Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri, in Poesie, prose e diari, Milano, Mondadori, 2017, p. 43.

[20] Un altro mondo si dischiude: un sogno, ibid., p. 565.

[21] «Alla Bemporad sembra indispensabile tutta la poesia»: G. Spagnoletti nel risvolto dell’edizione Garzanti, ora in D. 203.

[22] A Petrarca rimanda C. Paoli in Giovanna Bemporad. Il mito della poesia, in «Poesia», XXVII, 290, febbraio 2014, pp. 55-56.

[23] G. Bemporad, citata in A. Cirolla, Giovanna Bemporad, in «Nuovi Argomenti» online: 5 gennaio 2014.

[24] B. Balistreri intervista G. Bemporad (1986), ora in «Quaderni di arenaria», 3, luglio 2013, pp. 42-43.

[25] «è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo»: G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, 2008, p. 9.

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht, dove inoltre conduce il progetto di ricerca «Observatory on Dante Studies». Tra i suoi libri segnaliamo "Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori" (Marsilio 2019, traduzione inglese: Brill 2022); "Le ore del meriggio. Saggi critici" (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese); "Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti" (Marsilio 2021, Premio Nino Martoglio).