Eugenio Montale. L’idea di poesia

da | Nov 16, 2023

Il testo che segue è una parte dell’introduzione di Ida Campeggiani alla nuova edizione del volume “Sulla poesia” si Eugenio Montale, da poco pubblicato per gli Oscar Mondadori.

 

La posizione culturale di Montale, la sua “idea di poesia”, è che senza sublime la poesia non esiste. A costo di metamorfizzarsi, il sublime deve rinascere, anche nei tempi moderni più ingrati e tetri, in cui la vera poesia latita a vantaggio – triste paradosso su cui il critico torna con insistenza – di un numero crescente, quasi inflazione, di sedicenti poeti. La fede montaliana nella «più discreta delle arti»[1] è una sorta di trascendenza, e allora si comprende bene, a petto di un’«umanità che non vuole più riflettere» e di una critica – quella strutturalista – che crede di esaurire l’arte nell’analisi del procedimento tecnico dell’artista,[2] anche la nostalgia per l’umanesimo di Croce: per il suo intuito e per quel suo «dono di immedesimazione» con gli scrittori sui quali, quasi vibrando per la sintonia, elabora i giudizi (le citazioni provengono dal bellissimo L’estetica e la critica, scritto nel 1962, a dieci anni dalla morte del filosofo). Se però vogliamo dirla in altro modo, senza nemmeno l’ombra di idealismi filosofici, potremmo chiosare la fede montaliana nella poesia con due versi di Congedo di Palazzeschi «Muoiono i poeti / ma non muore la poesia» (vv. 5-6). Anche per reazione alla società “aziendale” che avanza, Montale si muove proprio nell’ottica di una lunga e vitale, ineluttabile e sovra-individuale, sopravvivenza della lirica nella storia umana. Lo dimostra una delle categorie ricorrenti con cui misura la riuscita estetica di un’opera: quella dell’“atemporalità”, della sua validità eterna. Senza contraddire il concetto eliotiano di opera che scaturisce dalla tradizione, e anzi con un’interpretazione radicale di quel suo paradossale staccarsi dal proprio tempo, il recensore addita spesso una tale valenza atemporale, che sovrasta la storia, e talvolta le assegna uno splendido correlativo: i poeti cinesi Li Po e Po Chu-i, oggetto di uno dei saggi più belli («Liriche cinesi» (1753 a.C.-1278 d.C.), 1943) e esotici termini di paragone per questa sorta di «intemporaneo» (l’aggettivo è montaliano: cfr. la poesia di Satura Le stagioni).[3] È la trascendenza che appunto non deve mancare in una forma che sia lirica, leopardianamente «in ogni tempo ed in ogni luogo» (Zib. 4234, Leopardi 1997).[4] È il sublime, consustanziale alla vera lirica, anche nella modernità.

   A questa idea di poesia fa riscontro uno stile critico di stampo anglosassone, da essayist come Cecchi (ci tornerò).[5] D’altronde è noto il favore montaliano per i «critici non sistematici, non legati a preoccupazioni storicistiche e a utilizzazioni scolastiche del loro pensiero; ma, proprio per questo, utili e necessari» (Anche senza giganti è un bel panorama, 1949). Dunque largo spazio allo humour, al paradosso, a modi probabilistici e controfattuali, con i se, le domande retoriche,[6] nonché al compiacimento di costruire il proprio giudizio commentando o rovesciando quelli altrui, come si vede sin dalla recensione a Trucioli del 1920, dove Montale si rifà a Boine per prenderne le distanze; e quand’anche usa delle pezze d’appoggio, tende a farlo snobisticamente, quasi per rimarcare la propria assertività concettuale di fondo, indipendente da vulgate

e idées reçues. Questo modo di fare critica letteraria si specchia sempre in una precisa idea di poesia, e paradossalmente in quel sublime che non può mai venir meno. Se ne ha la prova riflettendo su un fenomeno definibile come l’esaltazione di alcuni minori, diciamo pure non sempre di valore (ad esempio Roccatagliata Ceccardi, «l’ultimo dei nostri bardi»[7]). Ciò che consente di innalzarli è proprio il fatto che Montale vede nella poesia un margine di imprevedibilità che permette anche al dilettante di dire qualcosa di necessario: un quid che si rivela indispensabile, un’aggiunta di consapevolezza all’umanità. Il che può accadere proprio perché la poesia è – come nella celebre massima di padre Tommaso Ceva – «un sogno fatto alla presenza della ragione» (così anzitutto in Variazioni del 1945; ma anche in La lirica francese al setaccio di André Gide; L’estetica e la critica; 7 domande sulla poesia a E.M.), «strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia» (Storia dell’araba fenice).[8]

   Viene in mente il Paradosso della cattiva musica, scritto nel 1946 (lo stesso anno dell’Intervista immaginaria) in difesa delle possibilità impreviste del dilettantismo, della cosiddetta “cattiva musica”. Nel finale, dopo aver narrato l’aneddoto di Puccini che alla prova della Fanciulla del West rivelò come per ottenere l’effetto di uno squadrone di cavalleria occorresse agitare dietro le quinte un sacco di noci di cocco, Montale scrive righe di grande lucidità teorica: «Anche col sacco delle noci di cocco la Fanciulla non vivrà in eterno; ma l’episodio mi è rimasto in mente perché fa luce sulla psicologia di un uomo per cui il mondo esteriore, nella musica e fuori della musica, è veramente esistito. Ho detto il mondo esteriore e dovevo dire la realtà compatta che ci presenta la vita; quella vita nella quale non si può distinguere un didentro e un difuori e che troppo spesso i professionali del sublime mostrano di ignorare nelle loro opere; quella stessa che attende uno stile dagli artisti […]».[9] Non stupisce che il poeta delle occasioni valorizzi le potenzialità del caso, ma qui si avverte piuttosto il critico che deplora il purismo e plaude alla verità di chi comprende che nella vita «non si può distinguere un didentro e un difuori».[10] Così, all’occorrenza, Montale non disdegna le possibilità della “cattiva poesia”. Al netto del piacere un po’ affettato di esaltare i dimenticati, conta l’affermazione di un’idea di lirica non classicistica ma quasi antropologica. Opere trascurate dai critici professionisti e dagli «attivisti del gusto» (Un’antologia di Govoni, 1953), che decretano il valore letterario sulla base di ragioni storiche e di costume, sono indispensabili nella prospettiva di lungo corso, dove permangono come fuoco sotto la cenere, pronto a generare altrove qualche grande accensione. Il valore estetico è in primo piano, ma lo è proprio perché, in definitiva, le cose sono quasi indipendenti da chi le dice e tutti possono farsi poeti. Sottoposto a tale professione di dilettantismo, il “dovere” del sublime ne esce rafforzato.

   In questa visione della poesia è implicito anche un aspetto “tecnico” cruciale per Montale: ossia che la lirica moderna non è limitata a ciò che si scrive in versi. Già nella sua prima prova critica, su Sbarbaro, definisce Trucioli «scritti lirici» e addirittura «liriche in prosa», «notazioni brevi e lunghe […]» la cui «maggior parte s’innalza, stranissimo oggi!, fino alla poesia» (formule che in parte si appoggiano, come si vede piuttosto polemicamente, alla tradizione della prosa d’arte, ma che insieme già traguardano ad altre possibilità, ad esempio al saggismo lirico che Montale apprezza nei Pesci rossi di Cecchi[11]); per giungere poi alla valorizzazione del recitativo di Eliot (Eliot e noi, 1947) e alla necessità di ciò che spesso designa come «apparente prosa». Il sintagma «apparente prosa» ricorda il simile «apparente oscurità» usato nell’autocommento Due sciacalli al guinzaglio, e in entrambe le occorrenze l’aggettivo suggerisce discretamente un paradosso: nel secondo caso perché è inteso che l’oscurità tiene viva la lirica e il presunto buio è tutt’uno con il testo; nel primo caso perché la prosa continua a situarsi dentro un alone di tradizione poetica.[12] La quale forse non è più visibile a occhio nudo – talvolta spariscono, insieme ai contenuti poetici d’elezione, versi e strofe –, ma è percepibile se non altro prosodicamente, perché il rapporto tra intelletto e suono, tra senso letterale e senso musicale di un testo, resta per Montale un punto inaggirabile.

   La poesia che sia anche prosa è per Montale una prerogativa della lirica moderna ed è soprattutto una lezione anglo-americana. Chiarissimi in merito i saggi dedicati a Auden e a Hardy. Il primo è «prosasticamente diffuso anche se impiega metri tradizionali» (Generosa e oscura la poesia di Auden, 1966), e nel secondo, come si legge in Thomas Hardy (1968), l’esito è supremo nella sua perfezione paradossale: «la poesia di Hardy tanto più è poetica quanto più è prosastica nel linguaggio e nei motivi. Altra stranezza: le forme sono rigidamente chiuse, le strofe impeccabilmente tradizionali: ma di una tradizione che è quella del song, del folclore e (così hanno detto) della balladry. Hardy è riuscito a ingabbiare una grande materia prosastica nel più fitto reticolo metrico che si possa immaginare». Già queste righe – e questa capacità di Hardy di adattare la parola più semplice alle strutture chiuse anche più complesse – basterebbero a illuminare la sprezzatura prosastica di Satura, raccolta come noto elaboratissima dal punto di vista metrico (ma l’influsso di Auden e soprattutto di Hardy sul cosiddetto quarto Montale può essere documentato più nel dettaglio: cfr. qui il paragrafo I poeti).

   Poiché il comparativismo perpetuo, tra poeti di tradizioni culturali diverse e persino tra esponenti di arti diverse, è una delle costanti della critica montaliana, l’etichetta dell’«apparente prosa» si applica tanto a Hardy quanto ad alcuni poeti-prosatori italiani, come Gozzano, autore di «novelle in versi», e Sereni con la sua colloquialità musicale.[13] E quindi in Due artisti di ieri (1949), dedicato a Puccini e a Gozzano, troviamo il «prosaismo apparente (e voluto)» dei Colloqui; in Il «Nuovo Colombo» della poesia francese (1951) Saint-John Perse è definito autore «in prosa, o apparente prosa, non in versi»;[14] ancora nel 1951, nel saggio Il cammino della nuova poesia, la categoria non poteva mancare a proposito dei «poeti che “non svoltano”, che scrivono tirando di lungo, orizzontalmente, in prosa o apparente prosa» (figli di Browning e Whitman e nipoti dei secentisti inglesi che trovano «nel teatro elisabettiano e nella poesia barocca del Seicento una fonte che autorizza ogni audacia», tanto che «la così detta poesia della disintegrazione – da Eliot agli Apocalittici – è nata in America e in Inghilterra dal contro-influsso esercitato in quei Paesi da certa poesia francese entichée di poesia inglese. Dove il genio della lingua lo permetteva nacque un effettivo verso libero, che poté essere libero anche assoggettandosi a nuove astruse regole, come nel caso di Gerard Manley Hopkins»). Appena due anni dopo, nel 1953, Montale usa l’espressione nella corrispondenza con la Spaziani: «tu devi avere, in apparente prosa, la prima stesura» del madrigale Per album (La bufera e altro), ossia proprio una lettera che ne anticipa le immagini così come lo stile asindetico.[15] In Parliamo della poesia (1957) troviamo «apparenti versi». Nel Ricordo di T.S. Eliot (1965), ecco la rievocazione di «una musica bassa, apparentemente prosastica, parlata e non cantata». Nel discorso pronunciato nel 1975 in occasione del premio Nobel il fatto che la lirica ha rotto le sue barriere è presentato come un merito insufficiente per far fronte all’alluvione della cultura di massa: «C’è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia» (È ancora possibile la poesia?).[16]

A questa riflessione è riconducibile un’immagine con la quale il recensore evoca figuralmente il problema del rapporto tra dizione e metro, quella del metronomo. Strumento, va da sé, eluso dai veri moderni, che seguono simmetrie spontanee, imprevedibili: di Zanzotto, «poeta percussivo ma non rumoroso», Montale scrive che «il suo metronomo è forse il batticuore» (La poesia di Zanzotto, 1968), alludendo anche all’intonazione preconscia e balbettante di tanta sua poesia; di Eliot, già nel 1950, che non obbedisce «alle leggi di un metronomo» (Invito a T.S. Eliot); degli anglo-americani, nel 1951, che la loro vera dizione tende a essere impossibile «a regola di metronomo», evidentemente a favore di nuovi, non meccanici contesti armonici (e in prima fila abbiamo il caleidoscopio epico-lirico dei Cantos, il classicismo artefatto di Eliot, con «l’odore del cloroformio», il virtuosismo di Auden e altri “nuovi” poeti: Il cammino della nuova poesia).[17] La fonte, per dir così, non può che essere anglo-americana: è, probabilmente, uno dei precetti dell’Imagismo dettati da Ezra Pound, ossia «As regarding rhythm: to compose in the sequence of a musical phrase, not in the sequence of a metronome» (A Retrospect).[18] Ma l’immagine, nell’uso di Montale, viene a ribadire il carattere necessariamente paradossale dell’«apparente prosa», che non è più questione di orologeria ma nemmeno deve raggiungere la libertà totale. Perciò il metronomo non sparisce ma diviene interiore. Così è, significativamente, anche nelle due occorrenze più tarde dell’immagine: nel saggio già citato su Zanzotto del 1968 e in Poesia inclusiva del 1964 in cui si legge che «si affacciano […], in America ma ora un po’ dovunque anche in Italia, i poeti inclusivi capaci, come fu detto di Rossini, di mettere in musica anche i conti della lavandaia. La loro musica, però, quasi non si distingue più da quella della prosa; il verso è sostituito dalla riga, che con i suoi molti “a capo” mantiene l’illusione ottica del verso. […] Scrivono seguendo un metronomo interiore». Interiorizzarlo vale a dire realizzare quell’approfondimento dei valori musicali – approfondimento non arbitrario ma intellettuale, condotto non in uno stato di sonnambulismo ma nella piena luce della ragione – che Montale reputa indispensabile nella modernità. La poesia, con il sublime di cui non può leopardianamente fare a meno, deve insomma metamorfizzarsi per rimanere sé stessa: «Ora la gemma / delle piante perenni, come il bruco, / luccica al buio, Giove è sotterrato» (Il gallo cedrone, vv. 15-16).

 

 

NOTE:

[1] È ancora possibile la poesia? (1975).

[2] Nelle pagine sullo strutturalismo, che ha comunque il merito di aver riabilitato la non-poesia, ci sono intuizioni che profetizzano derive in corso, come il filologismo odierno: cfr. ad esempio «Il limite della critica strutturalistica è che essa presuppone la poesia, e che in fin dei conti può farne a meno. Si può benissimo fare l’analisi di un’opera indegna di esser letta; a un certo punto il gusto di usare con perfetta perizia i ferri del mestiere può diventare fine a se stesso» (Strutture poetiche, 1963).

[3] Numerose le evocazioni di Li Po e Po Chu-I, da Poesie di Furst del 1937 a Govoni-Turazza del 1952 a Un’antologia di Govoni del 1953 ad altri pezzi ancora. Inoltre, in De Pisis (1954) Montale parla di «una poesia che sembra tradotta dal cinese, da un originale inesistente, tale da assegnare a De Pisis un onorevole posto in una possibile antologia di poeti fuor del tempo e della storia (un’antologia che farebbe furore e che non è stata ancor tentata, almeno in Italia)»; in Le poesie di Carlo Porta (1954) si legge: «La modernità del Porta […] sta […] in una certa atemporalità dell’opera sua. […] Le opere di questi poeti appartengono, per noi, a quella ricorrente vita delle forme che non è forse, ma appare a noi, metastorica. Può darsi che […] le disgrazie di Giovannin Bongee ci facciano pensare a Po-Chu-I caduto di portantina mentre si reca a ossequiare servilmente il nuovo padrone».

[4] Cfr. la critica al carattere banalmente monadico di tanta poesia contemporanea, contrapposto a una trascendenza che nella lirica premoderna era garantita almeno dall’artificiosità tecnico-retorica: «E tutti si distinguono per la straordinaria privatezza (privacy) dei loro contenuti. Esprimono l’aspetto fenomenologico del loro esser uomini “in situazione” (anagrafica, temporale e strettamente individuale). Inclusivi di tutto, escludono la trascendenza di quella che fu tradizionalmente la poesia e l’alta retorica, si vergognano assai ragionevolmente di esser detti poeti e sembrano vivere in un perpetuo terrore che diremmo aziendale. […] Se la poesia – non importa se in prosa o in verso – avrà ancora un avvenire, il suo scopo non potrà esser […] la descrizione dell’angoscia del signor X, abitante in via Y, numero di telefono Z, alle ore 16.45 del 18 luglio dell’anno 19…» (Poesia inclusiva, 1964).

[5] Cfr. Lonardi 1980, pp. 1-32.

[6] Caratteristiche messe in luce in Mengaldo 1998 [2000] e in Mengaldo 1998b.

[7] Variazioni del 1974.

[8] Sull’espressione di padre Ceva e sul luogo (crociano) che deve aver ispirato Montale, cfr. Nozzoli 2020, pp. 151-157.

[9] AMS, pp. 383-389: 389.

[10] Su come le ragioni del suono possano prendere il sopravvento su quelle della correttezza logico-grammaticale, vengono in mente zone della stessa poesia montaliana, non solo nelle traduzioni, in cui parole o versi hanno moventi sonori, dettati dall’istinto e non dall’appropriatezza semantica; certo si tratta sempre e solo di lessico («faville di un tirso», diaspori etc.).

[11] Usciti proprio nel 1920: «[…] Emilio Cecchi che in quegli anni aveva già pubblicato Pesci rossi, raro esempio (allora) di una poesia a sfondo saggistico, e cioè di una prosa che si innalza alla poesia senza ricorrere al linguaggio così detto poetico» (Saggi e vagabondaggi, del 1963: SM2, pp. 2553-2554). Quella di Trucioli è dunque una prosa poetica e Sbarbaro è poeta anche desanctisianamente: «La parola ha nello Sbarbaro le stimmate della propria genesi dolorosa e necessaria. E dacché i poeti si riconoscono da quest’ultimo comune carattere, che manca alla quasi universalità degli scrittori, è lo Sbarbaro non pure artista, ma poeta». Sul rapporto tra Cecchi e Montale cfr. Lonardi 1980, pp. 1-32; Nozzoli 2000; Contorbia 2006; Scaffai 2007.

[12] Parlando di alone della tradizione, mi rifaccio alla metafora montaliana della «grande cometa della tradizione formale, diciamo meglio quella della Convenzione, che proietta, nel disciogliersi, in questo nostro crepuscolo, le sue formule meglio consacrate dal tempo e più riluttanti a corrompersi nell’ora della disgregazione» (Umberto Saba, 1926).

[13] Negli Strumenti umani «il polimetro si rivela per quel che è: uno strumento che riesce a felpare e interiorizzare al massimo il suono senza peraltro portare al decorso totalmente orizzontale della prosa»; e inoltre «a volte un semplice Mah! ha valore di clausola musicale: è suono ed è insieme una somma di significati» (Strumenti umani, 1965).

[14] E già nel 1935, recensendo De Baudelaire au Surreéalysme di Marcel Raymond, scriveva: «Cacciata dalla porta è rientrata dalla finestra la prosa, dalle Illuminations all’Anabase di Saint-John Perse: ma limitatamente alle opere che hanno un alto potenziale di linguaggio; alle opere, insomma, che cantano prima di discorrere».

[15] «SALE SODA SAPONE (quando potrò rivederli?), bosco dei noccioli, clover on the river side, Cervia trees, the girl in white and black, frightened like a pupil, the tandem promenade – what a dream, what a strange beginning of our life!» (lettera del 12 ottobre 1949: cfr. Grignani 1998b, p. 134); sul nesso tra prosa e poesia cfr. Campeggiani 2022, p. 47.

[16] Concetto già parzialmente fissato trent’anni prima: «Ha ragione Gide quando dice che senza incantesimo potrebbero esistere dei versi, non della poesia; la quale, al contrario, può esistere talvolta nella semplice prosa» (Variazioni, 1945). Anche se si guarda ai saggi “sulla prosa”, ci si accorge – con Fenoglio 2019, p. 263 e Morbiato 2022, p. 15 – che talvolta Montale non esita ad additare la poesia dentro racconti o romanzi: ad esempio, sui Dubliners, complice la poetica dell’epifania, «L’audacia di certi “spacchi” e di taluni scorci […] ripete i suoi motivi da una visione più profonda e che noi, ammaestrati dai libri susseguenti, non possiamo considerare altrimenti che come lirica e sostanziale» («Dubliners» di James Joyce, SM1, pp. 143-150: 148). Per inciso, in queste pagine del 1926 si trova un’«esistenza strangolata» accostabile al «vita strozzata» della coeva Arsenio.

[17] Altre occorrenze in Natale 2022, p. 77; rilevante anche la disamina metrica in Shakespeare, con le critiche ad alcune scelte del traduttore dei Sonetti («Di solito il verso lungo del Rossi non ha cesura sensibile e ciò porta a una battuta di metronomo sempre diversa che non ha riscontro nella regolarità del testo») e l’auspicio di poter avere prima o poi una versione «francamente prosastica».

[18] Cfr. Pound 1954, p. 3.