“Dimmi un verso anima mia” è il titolo dell’antologia che Nicola Crocetti ha curato insieme a Davide Brullo e che nel sottotitolo viene presentata come antologia della poesia universale. Il volume, vasto florilegio di scritture, tradizioni e lingue, esce domani per Crocetti editore. In anteprima pubblichiamo alcuni paragrafi della prefazione di Davide Brullo.
Questo libro va letto come si sfoglia una carta del cielo: gli atlanti celesti del tedesco Johann Bayer, per dire, dove belve stellari si inseguono lungo gli emisferi, e il cosmo, infine, non è che cristallizzata lotta, concatenazione di colpe, crogiolo d’amore. Studiare le stelle per divinare un destino, per distillare un mito. Ecco.
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Vive all’ombra di Orfeo, questo libro. Canto che addolcisce le fiere, inibisce gli inferi, scava nel dolore una liana. Secondo il mito, Orfeo perde Euridice, prossima a risorgere, nell’attimo in cui si volta a guardarla: sguardo che slega. In quell’istante, Orfeo lo sciamano diventa poeta; il canto che supera i regni, che, permette l’accesso ai morti, diventa poema e peana, teurgia che si volta in malinconia. “Se i Mani sapessero perdonare”, scrive Virgilio: la poesia nasce perché gli dèi non perdonano, ti pedinano fino all’estrema pena. Nasce, poesia, per dire l’imperdonabile. “Tendi al mutamento”, “Sii prima di ogni addio, come fosse già dietro / di te, come l’inverno, che già ora fiorisce”: mutare l’addio in ardore, forse è questo che insegnano “I sonetti a Orfeo” di Rainer Maria Rilke. Che le Baccanti, “durante i sacri riti divini e le notturne orge di Bacco”, facciano a pezzi Orfeo è liturgia esatta: il poeta va spezzato, la poesia, perché esista, va spartita, come un’ostia. Il punto esatto che distingue seminagione e silenzio.
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Vive all’ombra di Mowgli, questo libro, creatura silvestre ideata da Rudyard Kipling tra le giungle di un’India immaginaria. L’orfico Mowgli è per lo più un Pan: stralunato incrocio tra il folletto e uno dei tanti feral children – bambini selvaggi – che costellavano i boschi europei il Sette e Ottocento: lanterne su un mondo perduto, paurosamente edenico, scaglie di incarnate divinità nell’epoca scientista, serra di Darwin, della lotta di classe, dell’inconscio, in cui Iddio non ha più quartiere, neppure un trogolo dove poggiare il capo. “È un dio della foresta!” urla Messua, “la donna che era stata buona con lui,” al cospetto di Mowgli, nell’ultimo, malinconico racconto della sua folgorante epopea, “La corsa di primavera”. “Egli poteva veramente sembrare una divinità selvaggia di una leggenda della Giungla,” chiosa il narratore. Cresciuto nella foresta, Mowgli non appartiene al mondo delle belve, non si apparenta agli uomini. Il suo genio è il linguaggio: conosce il gergo di ogni animale, eccelle – lui, il minimo, l’inerte, di tutti il più debole – nell’arte retorica. Per questo Kaa, il pitone pluricentenario, il saggio della foresta, sceglie di aiutarlo benché disprezzi il popolo dei lupi di cui Mowgli si dice fratello. Il “Cucciolo d’Uomo” diventa il padrone della giungla grazie all’estro poetico – cioè, alla capacità di incantare e di uccidere –, il “Ranocchio” diventa re per lignaggio linguistico. “Cucciolo d’Uomo, diffida della Razza Umana! / … Resta in silenzio”, canta la pantera Bagheera, che del bimbo si è fatta garante: la poesia – parola che agisce – è appropriata alla giungla, nel villaggio degli uomini si storpia in norma, furberia furibonda, frainteso. D’altronde, gli antichi padri del deserto insegnano che il modo adatto per onorare Dio è voltare le spalle al mondo, inseguire le bestie, vagare a quattro zampe, preghiera quadrupede.
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In un libro di fantomatica bellezza, “La Dea Bianca”, Robert Graves riconosce che la poesia moderna ha perso il contatto con il mondo, non possiede i codici per riconoscere i connotati di Dio, è vacua giaculatoria, non più liturgia. Così, meravigliosamente, Robert Graves sintetizza il suo dire: “Un tempo la poesia serviva per ricordare all’uomo che doveva mantenersi in armonia con la famiglia delle creature viventi tra le quali era nato; oggi ci ricorda che l’uomo ha ignorato l’avvertimento e ha messo sottosopra la casa con i suoi capricciosi esperimenti filosofici, scientifici e industriali, attirando la rovina su sé stesso e sulla sua famiglia. L’‘oggi’ è una civiltà in cui gli emblemi primi della poesia sono disonorati; in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone del circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria dei cibi in scatola; il cavallo da corsa e il levriero al botteghino delle scommesse; e il bosco sacro alla segheria. Una civiltà in cui la Luna è disprezzata come un satellite senza vita e la donna è ‘personale statale ausiliario’. In cui il denaro può comprare ogni cosa eccetto la verità e chiunque, eccetto il poeta posseduto dalla verità”.
Robert Graves aveva combattuto durante la Prima guerra, aveva scritto un’avventurosa biografia di “Lawrence d’Arabia”, suo antico compagno di studi: conservava l’animo invitto dell’ispirato. Aveva otto figli e un’estrosa ammiratrice: Ava Gardner. Alla morte del poeta, la Gardner decise di rompere il leggendario isolamento: si precipitò a Londra, pioveva, qualcuno le si avvicinò con un ombrello.
Jorge Luis Borges, in uno dei suoi libri estremi, “Atlas”, racconta gli ultimi anni di Robert Graves. “La moglie gli dava da mangiare col cucchiaino e tutti erano assai tristi e in attesa della fine.” È un testo breve e toccante.
Per qualche genio dell’analogia, Borges avvicina “Robert Graves, ormai fuori dal tempo” alla figura di Alessandro Magno, l’ultratemporale re: un Alessandro Magno disertore di sé, dimentico di ciò che è, che “non muore in Babilonia all’età di trentadue anni” ma “dopo una battaglia, si perde e vaga in una foresta”. Il poeta che implode, il re smarrito. Pare un contrappasso, il contrassegno.
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Tuttavia, il poeta continua a fantasticare, a credere – per frantumi, magari – nel potere celeste della poesia. Aleksandr Dobroljubov, stella del simbolismo russo, si ritira, nel pieno crepitio di una crisi, in un monastero, in Carelia; cupa gli pare la vita dei monaci: propende per il vagabondaggio, l’aspra, astrale via degli “stolti in Cristo”. Si forgia un salterio privato che l’amico Valerij Brjusov, poeta di fama, sommo traduttore di Goethe e di Virgilio, pubblicò come “Dal libro invisibile”.
Un cammeo di Angelo Maria Ripellino conchiude lo spirito di questo poeta impenitente, precipitato nella gora di Dio: “Indossata la ruvida sermjága (gabbano di panno rozzo) dei contadini, si ritirò dapprima nell’estremo Nord a cacciare orsi e a raccogliere canti del popolo, fece il novizio in un monastero, percorse la Russia dalle tundre del Mar Bianco alle steppe meridionali, e infine fondò una sua setta, che perseguiva l’inerzia e il nichilismo mistico”. Lo credettero morto nel ’18, “durante la guerra civile”; sappiamo che Dobroljubov continuò a vagare e a mendicare tra la Siberia e il Caucaso fino agli anni Quaranta – forse morì nel 1945, forse, semplicemente, ascese.
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