Cinque testi da “Nuovo inizio” di Gianluca D’Andrea, da poco uscito per L’arcolaio.
L’energia quotidiana richiesta al mondo per produrre tutti i movimenti che occorrono per le esigenze dell’uomo, ecc. Questo era un modo di vivere basilare stando ai miei ricordi. Un’esperienza ordinaria racchiusa in poche parole: “borghese”, “bigotti”, “Freud”, “Nietzsche”, “Kafka” e il sospetto che un comunismo d’accatto ricevesse i suoi concetti come un’eco, in basso, nel margine, in provincia dove arrivavano frammenti residuali di Sessantotto. Pasolini era “buono” se ti sentivi carino e volevi fare i film, ecc. In quella provincia italica che aspirava a riscattarsi con sogni dozzinali, quindici minuti di celebrità, ecc., mentre l’ossessione energetica montava in sordina, in una dimensione lontana, attutita, impercettibile. Molte menti, riunite a far girare l’economia dei paesi industrializzati e terziarizzati, sostenevano l’opera che produce opera, riciclavano vari cicli di energia fino a trovarsi bloccate nell’intoppo di una produzione infinita che avrebbe richiesto un’infinità di risorse. La paura di disastri ambientali non avrebbe fermato il ciclo del consumo. La prospettiva intima del consumo è consumo assoluto, l’attrito che sfuma fino alla perdita di aderenza, fino alla fine.
L’occidente ha scritto nel suo nome il tramonto, l’esubero trascendente, la scomparsa. È crisi un altro nome dell’assoluto, la tendenza a lasciare la soglia verso un distanziamento che rifondi
la trama alla fine, nel sempre ultimo oriente della fine di ogni inizio.
*
Mi sveglio sempre nell’immagine
una volta celebre di Vertigo, immerso
nella luce verde e nel riflesso
alienante, spiazzato dall’ombra
prima del contatto, nel desiderio
del feticcio destinato a dissolversi.
La finzione che amoreggia col reale è l’eccedenza,
la avvertivo e dovevo smorzarne la potenza,
contenerla nello spazio minimo
della mia solitudine. Sullo schermo
appaiono oggi, ogni mattino
nell’alba verde, serie tv con famiglie sorridenti
in un quotidiano semiserio.
Affogato dalla luce verde vado
in cerca di altre immagini,
fiuto famiglie esplose in aeroporti,
corpi scarnificati a un soffio
dalla disintegrazione. La mia capsula
non torna indietro, per questo
coordino dalla console il peggio
dell’uomo del benessere, i suoi scarti,
i consensi superficiali, i corpi noiosi della gloria,
gli scheletri e i ventri estroflessi.
La riproduzione spettrale della materia
ripresa ed esposta è il compenso
che riproduce l’ozio e gli incubi
dell’essere di pienezza estinto.
*
La fine e poi com’è giusto un mondo caduto
un mondo caduto dov’è giusta la fine
che corre come un’elica all’intero
e s’appiccica per rivelare il senso
il senso che fugge e fugge…
La fine che è giunta ha raggiunto la fine
la fine di sé che tocca la vita
la vita che tocca perché è il sentire
il sentire che sente la sua assenza, ecc.
Eppure, occorre considerare la trasmissione, la tradizione, i numeri che si ripetono, la violenza che si ripete, ecc.
Eppure, è di controllo che si sente il bisogno, di un controllo che argina la pena e la paura e diventa trasmissibile attraverso il nostro apparato di schermi.
Non occorrerebbe dirlo ma la spirale dei giorni è una cordata di caselle sostituibili indirizzata al controllo – ma a ben vedere fu la sussistenza a condurci ai vicoli ciechi e alle scappatoie, ai muri e ai cunicoli, agli orizzonti e alle tane.
I geni, le stelle, i raid, le terre e le menti e gli schermi e i corpi, ecc.
Amo gli angoli remoti della trasformazione, ne osservo i particolari con distacco, perché sono un organo interno al sistema, ecc.
Eppure, ho un dubbio. Come se il vero distacco fosse perseguire il distacco, guardare con occhi arresi altri occhi arresi e riconoscersi da distanze siderali.
*
Verso sera, al tramonto, mentre
la luce aranciata si mescolava
allo strato fuligginoso dell’atmosfera
e ombre giallastre s’imponevano
nello spazio come aureole di luce
lunare, alla console suonava
un video anni Ottanta di Fiordaliso.
La nota accattivante del paesaggio
risiede nel contrasto tra l’assenza
e il desiderio: tu non ci sei
anche se sei presente
e io ti urlo contro, anche in absentia,
che desidero fare l’amore con te.
Prendermi il tempo per creare nell’ozio
il tempo della relazione che si annulla.
Poi, la vita ricominciava a battere
l’altro desiderio, l’allontanamento
definitivo da te. Ora, sono fuori,
nel panorama, nel riflesso dimensionale
di un vetro, appoggiato a una balaustra
a guardare la luna, la sua faccia di rena
sbiancata, il pallore della tua distanza
attendendo la prossima tempesta,
canticchiando di quel che non voglio,
osservandolo.
*
Disgregazione. Cielo. Silenzio e un’atmosfera ondeggiante dalle cui curve sembrava sgorgare una rugiada esiziale, un baluginare costante che sfiorava ogni superficie. Restavo incollato per ore allo schermo cercando di ricostruire i ricordi, intercettare scene, compiere indagini per prepararmi all’incontro tra passato presente e futuro, ecc. Come collima il mio essere qui con gli eventi del prima? Restavo sveglio, continuavo a calcolare il mio tempo nella sensazione sorgiva di una totalità che andava frantumandosi risucchiata in un’enorme spirale, dimensione speculare che avrebbe potuto aprire un mondo nuovo. Procedevo sulla curva che vira al non-senso, alla scomparsa della coscienza per esubero di coscienza, al collasso del sentire nella
totalizzazione dei frammenti. Mi lasciai scivolare sul letto e fui colpito da una sfera di luce giallina, mancavano pochi minuti al tramonto.