Poesie d’amore e d’altri mari

da | Mag 10, 2023

Da poca uscita, a cura di Luca Campana, con note al testo di Andrea Bajani e Enrico Terrinoni, la raccolta di poesie che Carlo Michelstaedter scrisse negli ultimi mesi di vita, per Interno poesia. Nel pubblichiamo un estratto insieme alla nota di Enrico Terrinoni.

 

Amico – mi circonda il vasto mare
con mille luci – io guardo all’orizzonte
dove il cielo ed il mare
lor vita fondon infinitamente. –
Ma altrove la natura aneddotizza
la terra spiega le sue lunghe dita
ed il sole racconta a forti tratti
le coste cui il mare rode ai piedi
ed i verdi vigneti su coronano.
E giù: alle coste in seno accende il sole
bianchi paesi intorno ai campanili
e giù nel mare bianche vele erranti
alla ventura. –

A me d’accanto, sullo stesso scoglio
sta la fanciulla e vibra come un’alga,
siccome un’alga all’onda varia e infida
φιλοβαθεία. –
S’avviva al sole il bronzo dei capelli
ed i suoi occhi di colomba tremuli
guardano il mare e guardano la costa
illuminata. –
Ma sotto il velo dell’aria serena
sente il mistero eterno d’ogni cosa
costretta a divenire senza posa
nell’infinito.
Sente nel sol la voce dolorosa
dell’universo, – e l’abisso l’attira
l’agita con un brivido d’orrore
siccome l’onda suol l’alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell’abisso e ride al sole. –

Amico io guardo ancora all’orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l’ombra e le luci –
la vita che mia dia pace sicura
nella pienezza dell’essere.

E gli occhi tremuli della colomba
vedranno nella gioia e nella pace
l’abisso della mia forza selvaggia –
e le onde varie della mia esistenza
l’agiteranno or lievi or tempestose
come l’onda del mar l’alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell’abisso e ride al sole. –

(Pirano, agosto 1908)

 

***

GORIZIA, TRIESTE E IL NON FINIRE

di Enrico Terrinoni

Alla notizia della morte del triestino Ettore Schmitz (Italo Svevo), il suo amico irlandese James Joyce reagì in modo strano. Pensò al suicidio. A Parigi non aveva ancora ricevuto i particolari del decesso ed era quindi in attesa di inviare una missiva alla vedova. “In qualche modo” scrisse, “quando si tratta di ebrei sospetto sempre un suicidio, benché non ve ne fosse ragione nel suo caso, soprattutto da quando è divenuto noto, a meno che la sua salute non fosse molto peggiorata”. La notizia lo addolorò alquanto, e ebbe modo di consolarsi, disse, solo pensando che “i suoi ultimi cinque o sei anni siano stati felici”. Una reazione strana davvero, se pensiamo che Svevo non parla mai, nelle lettere, di possibili tendenze suicide. Eppure, il suo primo romanzo, Una vita, si chiude con una morte per suicidio, quella del protagonista Alfonso Nitti.
Non sappiamo se Joyce, che nel 1910 viveva a Trieste, possa aver letto della fine tragica di Carlo Michelstaedter; e così per Svevo. Era appena partito per Murano e non risulta dalle lettere alcun accenno al suicidio del goriziano. Le loro famiglie erano però in contatto, se è vero che nel 1899, Schmitz scrisse alla moglie Livia: “Dimmi se desideri che invii a Michelstädter una copia di Senilità. Ne ho tante”. Con tutta probabilità, non stiamo parlando di Carlo, che nel maggio del 1899 non aveva ancora dodici anni, e gli studiosi non hanno identificato quale membro della famiglia potesse essere il possibile destinatario della copia. Ma al di là delle contingenze, quando si parla di letterati, le connessioni vanno anche oltre la freddezza calda del mero dato. Di certo, i parallelismi tra Svevo e Michelstaedter sono legittimi, non soltanto per motivi legati all’ebraismo, ma per tanti altri temi che li accomunano; e a ragione sono stati sondati. Quelli con Joyce lo sono stati un po’ meno, ma vale la pena di citarne alcuni. A partire dalla “rettorica”. Joyce utilizza questo stesso termine, con la doppia “t”, nello schema redatto in italiano del 1920 che invia a Carlo Linati affinché i primi critici potessero avere qualche appiglio per la lettura del suo Ulisse. “Rettorica” è la “scienza” o “significato” dell’episodio settimo del libro, quello dedicato al dio Eolo. È il capitolo del giornalismo, della retorica altisonante e falsa, degli esempi di grandezza che non rispondono alla ricerca del bene nell’identità col sé, ma che hanno a che fare con un’idea puramente utilitaristica e quasi mercantilistica di persuasione. I giornalisti sono definiti “tromboni” e il loro essere “bandieruole” è descritto con un’espressione meravigliosamente complessa: “hot and cold in the same breath”, ossia “caldo e freddo nello stesso respiro”. Letteralmente sembrerebbe parlarci di una semplice “ipocrisia”, come di chi dice una cosa e ne pensa un’altra; ma a un livello più profondo abbiamo l’atto stesso del respirare, composto di due metà, di cui una calda (espirazione) e l’altra fredda (ispirazione). Come a dire, è il vivere stesso, è il nostro soffio vitale a soffrire di questa dicotomia che esclude manicheismi. Una cosa è sempre nell’altra, nel suo contrario, e il tutto è una unione di opposti. A partire dal linguaggio, che poi è lo strumento del giornalismo, come anche della poesia. Le parole rispondono a logiche arbitrarie, e non stupisce che, come il Michelstaedter delle Appendici critiche, Joyce nella sua opera dichiari guerra alla parola con la parola. Come sopra, non possiamo sapere se il legame tra i due, in termini di questo approccio comune, sia diretto (lo indicherebbe lo spelling “antico o raro”, secondo la Treccani, del termine “rettorica”); ignoriamo se Joyce, assiduo lettore di giornali locali ed egli stesso autore per Il piccolo di Trieste, potesse esser stato colpito dalla notizia della morte del goriziano, suo quasi coetaneo (Joyce nacque nel 1882). Chissà se tra loro non esista soltanto un’affinità, una coincidenza di intenti, un respirare la stessa aria? Certo, nell’Ulisse è più che presente il tema del suicidio come pure l’ossessione per la figura materna. Tra le sue ombre compaiono Socrate, Aristotele, Platone, Cristo, Buddha. Tutti personaggi cari alle argomentazioni del goriziano. Joyce aveva inoltre contezza di Schopenhauer, adorava Ibsen, e aveva un interesse profondo sia per l’ebraismo che per la lingua e la cultura greca. Siamo con tutta evidenza nel campo di saperi condivisi e approfonditi da entrambi. Più di ogni cosa però, c’è una questione in particolare, evidente nelle poesie di questo volume, che sembra avvicinarli non poco. Potremmo riassumerla con la dicotomia “Morte-in-vita / vita-in-morte”. Sono concetti campali per il Michelstaedter di queste liriche composte negli ultimi due anni della sua giovane esistenza: concetti direttamente legati da un lato alla sua opera maggiore e dall’altro anche alla fine della sua vita. Lo sono altresì per Joyce. Sull’onda di un altro filosofo che probabilmente Michelstaedter avrebbe annoverato tra i “persuasi”, Giordano Bruno, l’irlandese intende queste polarità nella loro coesistenza. La coincidentia oppositorum del Nolano, e prima di lui del Cusano, è per Joyce l’impalcatura della rivelazione. Tutte le sue opere sono improntate all’incarnazione, in una stessa natura, di questo presunto parallelismo. Troviamo qualcosa di assai simile anche in Michelstaedter. Nella poesia Il canto delle crisalidi la compenetrazione tra i poli contrari ed estremi della morte e della vita è evidente attraverso un sistema rimico ripetitivo assai perturbante: “Vita morte, / la vita nella morte, /morte vita, / la morte nella vita”. Eppure, il goriziano sembra quasi voler resistere alla forza di questa contrapposizione: “E più forte / è il sogno della vita, / se la morte / a vivere ci aita”. Nella penultima strofa, pare però riassumersi il senso di una conciliazione: “Ma se vita / sarà la nostra morte, / nella vita / viviam solo la morte”. Il tema è tra i più cari alla letteratura, non solo sepolcrale. Joyce lo deriva principalmente dal mito classico e dal suo principale punto di riferimento nell’ambito della letteratura inglese, Shakespeare. Le elucubrazioni di Amleto, ad esempio, sulle somiglianze tra la morte e il sonno non sono che una variante sul tema. Tema che poi, prima di passare per il Leopardi tanto caro a Michelstaedter, attraversa in maniera potente il Coleridge della Ballata del vecchio marinaio, in cui “life-in-death” è persino uno dei personaggi, mentre il protagonista vive una vita eterna che è in definitiva una morte perenne. Un’altra importante connessione in termini di temi e sensibilità tra queste poesie e quel grande poema eroicomico in prosa che è l’Ulisse, è rappresentato dal senso profondo dell’acqua, presente in forma di goccia, pozza, pioggia, nebbia, e mare (una parola che compare 57 volte nelle liriche). Il mare è situato idealmente oltre il suo opposto, il
deserto (tema biblico per eccellenza), e corrisponde a tante cose, tra cui un anelito di libertà. Ma la libertà è anche, in Michelstaedter, una libertà dalle costrizioni della vita. Di qui il mare che si configura come “un deserto senza vita” in Onda per onda batte sullo scoglio, o il mare “senza confini, / senza sponde affaticate”, un “perfido mare” in cui si perdono, in tutti i sensi, i suoi figli. In Joyce il mare è vita e morte al contempo. È una madre, grigia e greca (“Thalatta! Thalatta!” si legge nel primo episodio dell’Ulisse); e sappiamo che “mare grega” in triestino significa prostituta. È, il mare, luogo di amore e di morte. Un tema caro ai modernisti, e che ritroviamo in maniera imperiosa nella Waste Land di Eliot. In Joyce colora i primissimi episodi, soprattutto quello dell’eterno mutare, “Proteo”, il terzo; e torna poi, connesso alla questione del suicidio, allorché l’ebreo-non-ebreo Bloom subirà l’ennesima beffa solo apparentemente involontaria: alcuni conoscenti disquisiranno in sua presenza, e in maniera becera, delle ragioni che portano a togliersi la vita, tutto questo ignorando che suo padre è morto ingurgitando una fiala
di veleno. La morte in mare è detta, nell’Ulisse, “la più dolce di tutte le morti”, uno svanire, uno spegnersi nell’annegamento, che è un altro modo di sparire per sovrabbondanza. Poi, è sempre nel mare che il fiume-donna del Finnegans Wake (Anna Livia, chiamata così in onore della moglie di Svevo) va a finire per non finire mai. Muore per rinascere nelle braccia del padre mare, dell’Oceano, che la accoglie e la inghiotte. Una morte-in-vita per scomparsa; ma ancora, per mancanza o per eccesso di speranza? Il poeta e cantautore Claudio Lolli, in una magnifica ballata scrisse: “rispetto sempre chi un giorno ne ha abbastanza, / e si rifiuta di vivere di speranza”. Chissà se queste parole possono attagliarsi anche ai tanti echi di morte-in-vita che affiorano in queste poesie: “Ed ancor io così perennemente / e vivo e mi trasmuto e mi dissolvo, / e mentre assisto al mio dissolvimento, / ad ogni istante soffro la mia morte” (da Aprile). In questi versi, credo, è distillato il senso ultimo della vita-in-opera e dell’opera-in-vita di Michelstaedter, uno degli autori che sarebbe più difficile interpretare se non avessimo contezza della sua biografia. Vita e opere sono talvolta tenute a debita distanza, nell’analisi critica; ma mi sento di dire che lo si può fare soltanto quando non si è di fronte alla grande poesia, alla grande letteratura. Gli scrittori davvero grandi tramutano la vita in inchiostro, scrivono di sé, inesorabilmente di sé; e lo fanno dissimulando, poiché, come spiega il supremo poeta portoghese Fernando Pessoa: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”. È questa forse la motivazione dello scrivere poesia? Altrimenti, perché scriverne? È una domanda, questa, a cui è difficile dare risposte non scontate. Forse può aiutarci un suo correlato, ovvero: a che serve la poesia? Negli anni del fascismo, Joyce venne spesso derubricato a “poeta”, quasi a volerlo relegare a una sfera di inutilità. Ma Joyce poeta lo fu sempre e nella maniera più nobile, dalle prime poesie pubblicate sino al caleidoscopico Finnegans Wake che incorpora poeticamente più di ottanta lingue. Anche Michelstaedter è ricordato dal grande pubblico per lo più in virtù della Persuasione. Nelle poesie, però, ritroviamo non soltanto i temi, ma anche lo spirito del magnum opus, quel soffio vitale di cui parlavo in precedenza. Queste poesie pre-mortem che la stragrande maggioranza dei lettori hanno fruito soltanto post-mortem (parola che in inglese significa anche autopsia), sono l’autopsia di un sentire incanalato nell’opera maggiore, con la stessa identica tensione, con la medesima visione. Non apocalittica, né intimistica, ma persuasa, consapevole, cosciente. Scrivere, per quel che riguarda i grandi, non significa volersi far leggere, ma volersi leggere, sapendo che leggere può voler dire anche smarrirsi, perdersi in altri mari. E allora, Michelstaedter, e Joyce, e Svevo ci insegnano persino a leggere per non capirci, per non comprenderci, per non ergere comprensori attorno a noi e alle nostre ombre, ai nostri futuri, distanziati dal resto del mondo da presunte mura solide e invalicabili. Ma leggere, come vivere, è sempre abitare oltre quelle mura; e così, vuol dire andare oltre le parole, oltre le cose, oltre i passati. Leggere significa entrare nell’ombra che siamo, proiezione al futuro della luce che ci segue, e che è il passato. Michelstaedter, come tutti i grandi filosofi e come tutti i grandi poeti, ci insegna il dubbio, il non dover comprendere tutto a tutti i costi, se comprendere può voler dire racchiudere. Ci insegna a lasciarci andare perché gli altri ci lascino andare: una forma di distacco dalla materialità per Raggiungere una fusione più alta, più vera, che non finirà: “Lasciami andare, Paula, nella notte, / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andare oltre il deserto, al mare, / perch’io ti porti il dono luminoso / … molto più che non credi mi sei cara”.

 

NB: Non è stato sempre possibile rispettare la grafica corretta dell’originale. Ci scusiamo per l’inconveniente.