Quattro poesie da “Sonetti americani per il mio assassinio del passato e del futuro” di Terrance Hayes, pubblicato da Tlon, con prefazione e traduzione di Mario Capello. Di seguito anche la prefazione del traduttore.
QUESTA RACCOLTA È PIENA DI FANTASMI
Byung-chul Han dice, delle cose virtuali, degli oggetti che popolano la nostra vita digitale – le immagini, i like, gli nft, i bitcoin, i post – che sono lisce, prive di asperità, prodotte per la massima soddisfazione del cliente, perfette, prive di attrito. Per questo, ci scivolano addosso, senza lasciarci nulla. Se è così, se le non-cose sono lisce, allora le poesie di Terrance Hayes sono irte, aspre, tutte punte e spuntoni, e rotture, e angoli e spigoli e ganci. Sono cose vere che si conficcano e si radicano come certi semi che si attaccano sui vestiti e sui velli degli animali e da lì partono per un viaggio che porta alla germinazione, a una nascita. Lo sono perché sono sporche. No, ho sbagliato. Lo sono perché sono complesse, stratificate. Formalmente perfette, sono il deposito di esperienze, storie, riflessioni. Sono lo strumento di raccolta sofisticatissimo in cui si deposita la sporcizia di una vita – che poi è quella che la rende davvero viva, una vita. La sporcizia (dirt, in inglese), il terriccio, l’humus. Sono poesie politiche, quelle di “Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro”. Ma non perché Hayes voglia fare politica o, peggio, fare il politico. È palese che non ama la retorica. Sono politiche perché il soggetto a cui danno voce è intriso di politica. Ne è attraversato e condizionato. Perché ci sono persone che non hanno il lusso di potersela lasciare alle spalle, la politica, perché la politica incide sulle loro vite, sui loro corpi. Quelli che infestano queste poesie sono i fantasmi dei morti ammazzati, del passato, sono gli spettri degli assassini, di una Storia inquieta, di Emmett Till, di George Floyd. Ma ci sono anche padri, madri e amanti. Un padre splendido, che dona (o passa o trasmette) a chi dice “Io” in “Sonetti americani”, il senso del tempo. Una madre che ama. E amanti amate e cercate e desiderate, richieste attraverso annunci che sono capolavori di desiderio e, dunque, di comicità (il desiderio è sempre comico). Quando ho cominciato a tradurle, la prima sensazione è stata quella di dover andare di corsa, di correre, non prendere fiato, buttarmi. Perché ogni singola poesia aveva un’energia che sembrava trasmettersi a me che leggevo, farmi girare la testa tanto era tesa. I padri – come tutti i legami – sono nodi, hanno una superficie impenetrabile.
[…] Io resto un mistero per mio padre.
Mio padre resta un mistero per me.
Il cristianesimo è una religione sorta attorno a un padre
Che non salva suo figlio. […]
E questa confessione di impotenza è il sentimento profondo di una raccolta che, al di sotto di una apparentemente illimitata fiducia in mezzi stilistici e intellettuali fuori dal comune, è un’ammissione di sconfitta. Hayes ha scritto questi sonetti americani perché non riesce a capire: suo padre, il suo assassino, se stesso, l’America. Ma ci prova, oh, se ci prova. Ci prova come se da questo tentativo dipendesse la sua vita (e forse è così, e lo è per tutti). Si interroga, scava, pone domande (è piena di domande, questa raccolta). A cui non dà risposte.Ci sono dentro – puoi sentirci dentro – Kendrick Lamar e James Baldwin, Derek Walcott e Gill Scott-Heron. Ho scritto che ci sono tante domande. Ma ci sono anche tante invettive. Che poi è la forma espressiva del giusto a cui è stato fatto un torto. Non della vittima (non mi sembra assuma mai questa postura, Hayes), del giusto, è diverso. Dopo aver smesso di correre, rifiatando, ho cominciato a vedere le sfumature, le allusioni, gli echi, i rimandi. E a dirmi: ma quanto è bravo. E: ma chi me l’ha fatto fare. Magari proietto. Ma Hayes (che non conosco di persona) mi sembra simile alle sue poesie. Per dire, a giudicare dalle foto posso affermare questo: non ha un viso, ha una faccia. Non è facile tradurre l’ironia, questo, quantomeno, l’ho capito. Per la cronaca, Hayes è nato nel ’71 in North Carolina. Insegna alla New York University. È divorziato. Ha ricevuto un “Genius Grant” della MacArthur – quindi sì, è ufficialmente un genio. La sua raccolta del 2010, “Lighthead”, ha vinto il National Book Award. È un poeta, un insegnante, un padre. Ed è difficile tradurre la giocosità di “Sonetti americani”. Giocosità, sì, perché questo autore così serio, che affronta temi così seri, non si prende mai troppo sul serio. E così gioca. E rendere la felicità linguistica e sensoriale della parola liberata dal peso del senso è pressoché impossibile (per me, quantomeno). Così in quei casi, non ho tra-dotto, ho tra-dito. Una nota personale. Io, di Hayes, non sono un appassionato, non sono un fan, non sono un cultore. Sono un devoto, un adepto. Quando ne ho parlato la prima volta a Matteo Trevisani, a una cena dopo la presentazione del suo libro, l’ho fatto con la foga del vero credente. Il che, ovviamente, ha comportato un approccio molto cauto a questo lavoro. Non credo nell’esistenza di testi intraducibili, ma sono sicuro che alcuni perdano qualcosa. E che tutti guadagnino qualcosa, dalla traduzione, anche se magari alla fine l’equazione non è perfettamente bilanciata. Mi sono chiesto cosa potesse portare l’italiano a una raccolta, a una serie di singole poesie così radicate, o situate, come si dice adesso, così intrise di America e storia che, per citare DeLillo, «speak[s] in your voice, American», che sono insomma la voce di un Paese e, ancor di più, sono la voce di una parte per troppo tempo ammutolita, di quel Paese. Difficile dirlo. L’italiano ha altri echi, altri rimandi, un’altra tradizione alle spalle. Insomma, non so se ho saputo aggiungere qualcosa a questa collezione di assassini e assassinati, di figli e padri, di rabbia e di risate. So per certo però che ho avuto il privilegio di poterla leggere da vicino, con la vicinanza che dà solo la traduzione. Ecco la risposta: la parte in italiano del libro che state per leggere ha, in più, a compensare in parte tutto quel che può aver perduto nella muta, la gioia e la sorpresa continua del lettore attento.
Mario Capello
***
Dentro di me c’è un animale dagli occhi neri
Fremente in un piccolo stallo. Come se un uccello
Potesse crescere senza rompere il guscio.
Come se il chiasso di migliaia di uccelli neri
che sferzano l’aria in una tempesta potesse essere contenuto
In un guscio. Dentro di me c’è un grosso e nero
Toro raggomitolato a sufficienza da stare nella
Pallina di un anello da capezzolo. Intendo lasciare
Una testimonianza delle mie estasi. Sono stato cresciuto
Da un uomo fantastico. Amavo il suo senso del tempo.
Mia madre ha plasmato la mia idea dello spazio.
Preferiresti passare il resto dell’eternità
Con le ali che scombussolano una gabbia o
con quattro solide zampe conficcate in una zolla di terra?
*
Probabilmente il tramonto fa della nerità una pericolosa
Oscurità. Probabilmente tutti i miei incontri
Sono un pasticcio esistenziale. Il che significa,
Un nigga(1) può sopravvivere. Qualcosa è successo
A Sanford, qualcosa è successo a Ferguson
E Brooklyn & Charleston, qualcosa è successo
A Chicago & Cleveland & Baltimore & succede
Quasi ovunque in questo paese ogni giorno.
Probabilmente a qualcuno tocca essere preda in tutti i nostri incontri.
Non lo ammetti. I nomi vivi sono come i nomi
Nelle tombe. Probabilmente il tramonto fa della nerità
Oscurità. E un portale. Probabilmente la pelle blu scuro
Di un uomo nero ricalca la pelle blu scuro
Di suo figlio come un tramonto ne ricalca un altro.
*
Ti chiudo in un sonetto americano che è parte prigione,
Parte stanza antipanico, una stanzetta in una casa in fiamme.
Ti chiudo in una forma che è parte carillon parte trita
Carne per staccare dall’osso la canzone dell’uccello.
Chiudo il tuo personaggio in una presa stordente capace di donare sogni
Mentre i tuoi Io migliori guardano dalle gradinate.
Adesso faccio di te palestra & corvo a un tempo. Come corvo
Subisci una fantastica catarsi intrappolato per una notte
Tra le ombre della palestra. Come palestra, la sensazione della merda di
Corvo che sgocciola sul tuo pavimento non è tanto diversa dalle stelle
Che cadono dai manifesti dei comizi appesi alle tue pareti.
Faccio di te una scatola di oscurità con un uccello nel cuore.
Volta di acustica, istinto & metafora. Non è abbastanza
Amarti. Non è abbastanza volerti distrutto.
*
La terra dei miei occhi da nigga viene assassinata.
Il pozzo profondo della mia gola da nigga viene assassinato.
Le tenere campane dei miei testicoli da nigga sono andate, perdute.
Tu assassini il suono delle nostre stronzate & della nostra beatitudine.
Le ossa che si occupano delle faccende del corpo sono rivestite
Fino a quando tu non assassini la mia carne da nigga. La pelle viene rimpiazzata
Da un involucro di fuoco. Certe volte sono un fiume o la pioggia
A rivestire le ossa. Certe volte noi giacciamo lungo il ciglio della strada
In cespugli di radici contorte, fiori & spine fino a quando il nostro corpo
Non viene ritrovato. Tu assassini l’odore del mio fiato, che è simile a
Fumo, latte, il crepuscolo stesso. Tu assassini la mia lingua
Simile alla testa di una tartaruga che indossa il mio cranio come guscio.
Assassini le mie belle gambe & l’aggancio muscolare del mio uccello.
Eppure, parlo per conto dei morti. Tu non assassinerai mai i miei fantasmi.
NOTE:
(1) Nigga è, di fatto, intraducibile. È parola di un gergo, un idioletto, che potrebbe essere resasolo ricorrendo a un idioletto parallelo, usato da un gruppo perseguitato. Ma qual è l’equivalente italiano del nero americano? Nessuno. Forse (ma questa è pura speculazione) i rom e i sinti. L’idea, per quanto affascinante, è impraticabile. Da qui, la scelta di lasciare la parola così, nella sua integrità. Va da sé che in questa scelta conta anche la sua trasparenza per il lettore italiano. [N.d.T.]