Tre poesie in anteprima da “Una casa transitoria” di Freda Laughton, appena uscito per Arcipelago Itaca, traduzione di Viviana Fiorentino, note introduttive di Renata Morresi e Lucy Collins, postfazione di Emma Penney.
IN UNA BELLEZZA TRANSITORIA
Materno il guscio
culla l’uccello embrione,
una casa transitoria,
progettata per una sicurezza breve,
di intenzionale fragilità,
una bellezza costruita per essere spezzata.
Come poi il guscio potrebbe
supplicare immortalità
se solo la sua immolazione
evoca gli uccelli?
E persino la bellezza alata
a sua volta è effimera,
cancellata da un’inesorabile
perpetua genesi.
Ma a breve il guscio materno
di nuovo alloggerà l’uccello
in una bellezza transitoria
costruita per essere infranta.
TUTTO CIO’ CHE HA RESO QUESTO IO
Solo per un poco permettimi questo, –
lasciami appoggiare alla mia vita ancora,
fermare questo mio mondo dal ruotare,
riflettere gli umori e le transizioni di tutti
i miei anni fino a ora, nello specchio lungo
del mio pensare oscuro.
Tutto quello che ho conosciuto di luoghi, persone, cose,
fa parte di questo corpo lungo, sé assottigliato,
del mio tempo dipanato.
Passati, vivono ancora in me, cellula della mia cellula,
miele, l’esperienza di ogni giorno ha fatto un alveare e rimane custodita
in una cera pregna.
Prima che il resto si svolga, – se ne avremo ancora, –
lasciami assaggiare, – assaporare cosa è fiele,
cosa è, lasciami accumulare dolcezza:
Altrimenti, sia il rocchetto svolto, che nessuna lunghezza
rimanga per l’àncora mentre mi sporgo a guardare
tutto ciò che ha reso questo io.
LA STORIA DELLO SCHELETRO
A nove anni iniziò il terribile regno
dello scheletro, nuovo appena scoperto;
in fosforescenza sulla tenda della notte affiora,
dissolto dall’acqua luminosa dell’aurora.
Lungo gli stretti corridoi del sogno ho corso
riluttante alla ricerca di questo uomo del post morte.
Sorse da ogni antica tomba di campagna
sotto la cedevole tranquillità dei fili d’erba e della gramigna.
Bussò al muro della chiesa.
Chiamano i morti nelle loro tombe rinchiusi.
Anche accompagnata dalla madre, la mia paura
sentì l’osso sfaldarsi ancora e ancora.
Giocò a scacchi sulle tombe cittadine
dopo la festa con i suoi fronzoli dorati. Le percussioni funerarie
Padre e Madre mai mi sentirono
battere con i piedi lungo la strada.
Museo, libro e cinema
un dito magro puntato al suo covo
dietro la facciata rossa e dorata,
quest’opera d’ossa, una palizzata
il cuore palpitante, sognante, abita,
la gabbia ghignante delle costole.
Con le lezioni di anatomia
l’orrore dell’infanzia scivolò via,
e si rifugiò il cuore nel divertimento
di un ballo con lo scheletro,
potrebbe essere caricatura delle costole e chiudere
un uccellino in gabbia.
Sorse poi l’amore per me, ma cavalcando una tomba sempre,
come se questo emblema la vita dovesse avere.
Da tomba a tomba la mia vita quindi descrisse
un lungo arco d’amore, eppure vissi
vicino allo scheletro armadio,
e con devozione lo curai con
la sofferenza, seguendo
il richiamo della gentilezza magnetica della sepoltura.
La sepoltura ricevuta. E ora com’è strano avere,
un tempo bambina stregata, questo scrigno, una tomba
tra i tuoi mobili ordinari.
Eppure sai, il tuo amore non è lì
ma in te stessa, come ogni osso,
anche, di quello scheletro armadio.
Sai la vita è in equilibrio sul telaio
della morte, in un tetragramma girevole
di luce e tenebra, l’occulto e lo svelato,
irradia dal cuore incastonato nell’osso funereo.
Così al tavolo circolare della vita lo Scheletro e io
ora condividiamo lo spasimo e la festività.