In anteprima da “Banchetto nel deserto” di Alexia Mitchell, la poetessa enigmatica amata da Cristina Campo, tradotto da Cesarina e Riccardo Gualino e pubblicato con introduzione di Beatrice Masi per le edizioni La noce d’oro, presentiamo cinque poesie.
FORTEZZA
Costruii per me stesso un castello
un castello di carte;
mi rifugiai dietro
un alto paravento, custodito
da immagini e carta;
mi sentii più sicuro
dietro quella fragilità
che protetto
da mattoni ed acciai.
LA PORTA DEL LABIRINTO
Mentre aspettiamo che passi la vecchia ambulanza
lupi e leoni ancora rodono
i nostri crani e i nostri cuori.
Sull’erba
la primavera raccoglie fiori selvatici
e presso il mormorante ruscello
il fiume comincia a lavare
le sudicie sponde.
Non c’è più sangue né lagrime
e un fanciullo suona il flauto
a colombe e agnelli estaticamente muti.
Riposiamo accanto alla frescura
dell’antica severa facciata di marmo
che, come in sogno, riflette cose lontane.
Perché attendiamo ancora
che passi la vecchia ambulanza?
Vediamo archi cielo e giovinetti
ridere e camminare leggeri
sui marmi segnati dal tempo.
Quando tentiamo di far cenni e chiedere perché
essi sono già andati via
e noi sorridiamo.
Tutto si dissolve sempre in nulla,
tutto fuorché il nostro desiderio
di bussare alla porta,
alla porta del Labirinto.
PASSAGGIO TERRENIO
Vago da una stanza all’altra
ma non riesco a trovarti.
Nel giardino gli alberi
sono sovraccarichi
e le api affaccendate.
È notte; la luna
trascina come al solito
la sua argentea veste
buttata con negligenza
sul mare.
Tutto è così antico e fragile,
così inesistente.
Ciò che ho perduto
l’han perduto tutti
dal principio dei tempi.
Eppure è la prima volta per me,
per questo non ti posso ritrovare.
Soltanto l’impronta del tuo piede
sugli scogli
ed il tuo riso fra i cespugli
mi danno la certezza
del tuo passaggio terreno.
QUANDO LE PAROLE SARANNO MORTE
Ogni cosa deve perire.
Ogni cosa deve essere
svestita e denudata,
bandita la tenerezza
e la pietà di noi stessi.
Allora, sotto le nude costole,
udremo il cuore battere
e scuotere la gabbia.
Allora, forse, nel vuoto
dove saranno morte le parole
e le nostre lievi speranze,
dove ruggirà soltanto il leone
e mugghieranno le acque,
allora le tenere foglie
dei nostri sogni ancora rivestiranno
la nostra anima, e saremo pronti.
NUMERI
Sopra la porta scorgemmo il falco e la volpe
eppure chi avrebbe pensato
che mi sarei seduta, sola,
sotto il palco dal numero ventisei?
Lucidi stucchi, lattee pareti,
rossi velluti, cortine, ornamenti
e tutte le riunite frivolità
del vecchio cordiale teatro.
Perché son io seduta sotto questo palco
dal numero ventiquattro?
Il mare s’è ormai da tempo ritirato
non c’è più eccitamento né spuma;
mi sento scoperta e nuda
sulla lunga spiaggia, sola.
Ventiquattro, venticinque, ventisei
chi vorrà mai spiegarmi perché
il fato sempre sopraggiunge a mescolare
le sue carte con la mia vita?
A quante cose dobbiamo pensare!
Che fatica tentar di ricordare
di ricordare tutto ciò che balena
negli oscuri campi della memoria!
Quelle due enormi lampade gialle disturbano i miei occhi
fissando sul pianista una febbrile attenzione
e le rotte onde dell’armonia.
Follia di numeri, vostri e miei,
numeri con un divino compimento
di nascite e morti, di cadute e successi,
numeri ancora e sempre da incontrare,
da accettare e respingere.
Le belve nella giungla minacciano battaglie e si nascondono.
Perché debbo io essere ancora qui
nella ingannevole sorpresa della moltitudine
a lasciar che la memoria trafigga il mio cuore?
Ventiquattro, venticinque, ventisei
una crocefissione di disperazioni e felicità
eppure noi dobbiamo ancora essere insieme, mio diletto,
o mi nasconderò per morire entro questo palco,
entro questo vuoto palco dove per un attimo
vidi due occhi pieni di lagrime
due occhi a mandorla in un arguto viso bianco.
La volpe, forse, venuta a piangere
la morte del falco.
Posso io asciugare i miei occhi con un fazzoletto di pizzo?
Posso io alzarmi e lasciare questa movente
burlesca tragedia di simboli dove la musica
s’appiccica alla mia anima
e fa rivivere il misterioso fascino dei nostri giorni?
Andiamo via di soppiatto, mio diletto,
immergendoci nella spumeggiante onda
degli applausi ora che nessuno
potrà supporre che noi per sempre e per sempre
insieme alla volpe ed al falco vivremo felici
nel palco vuoto dal numero venticinque.
Nel 1953 Alexia Mitchell, pseudonimo di Luisina Fatichi – moglie di Piero Milani, zia di Don Lorenzo Milani – pubblicava la raccolta di poesie "Banchetto nel deserto". L’unica a parlarne fu Cristina Campo in un breve quanto denso articolo sul “Corriere dell'Adda”, dopo il quale il nome della Mitchell sembrò tornare nel segreto da cui era venuto. Esili le notizie sul suo conto: fu attiva nel salotto culturale dei Milani, scrisse racconti, poesie e rappresentazioni per il teatro privato di Castiglioncello. Banchetto nel deserto, scritto dopo la perdita del figlio Roberto, porta i segni del lutto nella sensazione di onnipresenza della morte e di insostenibilità della memoria. Ma, come suggerisce l’antonimia del titolo, questa poesia eccede la dimensione funebre dell’elegia. L’evidenza della morte innesca per cortocircuito la vita nella sua essenza: la chitarra che suona nel deserto, il castello sulle cui mura si può correre senza fine, il sentiero delle formiche, il sonno di un gatto eterno, il bosco dove porre le domande estreme, lo sguardo dei santi scolpiti nel marmo. Piccoli miracoli di presenza operati, come nota Campo, da uno sforzo di “coraggioso distacco”. L’opera, scritta in inglese dall’autrice, fu tradotta con la sua collaborazione dall'amica pittrice Cesarina Gualino.