Cinque poesie in anteprima da “Ciberneti” di Francesco Terzago, raccolta appena uscita nella collana ‘Gialla’ di Samuele editore-pordenonelegge.
UN GETTO D’ACQUA AD ALTA PRESSIONE
La linea automatica produce trecento piani cucina
al giorno, ogni giorno, senza sosta. Ventiquattro ore
su ventiquattro. trecentosessantacinque giorni
all’anno (o trecentosessantasei, se necessario) – le lastre
di pietra da tre-quattrocento chilogrammi sono mosse
dai bracci meccanici con la stessa semplicità
con la quale io posso sollevare un giornale
o una corteccia di betulla e usarla come
un ventaglio; il foro dove sarà ospitato il lavello
è ricavato con un getto largo come uno spillo,
un getto d’acqua ad alta pressione
e graniglia: sabbia né troppo sottile, né troppo spessa,
quella che ho davanti a me è rossa
come un tramonto sulle Azzorre. La provenienza
è incerta: l’universo – almeno quello, il letto
di un fiume immobile. La sabbia si origina per la frizione
tra ghiaccio e pietra e onde, e rocce su rocce,
le mani di qualche divinità senza nome che si sfregano
a vicenda; catene montuose, lineamenti del tutto scomparsi
i cui brandelli ricuciti senza ordine danno
qualche remoto fondovalle alpino invaso dal caprifoglio,
dai laterizi e da quei turisti che amano camminare
per tutto il giorno e intravedere il balzo delle trote,
la stasi dei tritoni, infine le libellule molto aggressive.
NELLO SCHELETRO LA GHISA RAFFREDDA
Quando abbiamo finito stringe
a sé le lenzuola, il cuscino dell’albergo
che si accartoccia come
carta alluminio. Si mette a giocare con gli spiriti,
li chiama a sé con un linguaggio muto:
muove a mezz’aria la mano come
se stesse accarezzando una sfera
d’aria. Lucidatura di una sfera o del cosmo.
di un bisello: robot antropomorfo, lavorazione
di marmo e cemento, forse di una pietra
sintetica. Quando lo avrà visto: nel video
del collaudo; sono i robot ad averla vista –.
i robot non guardano. dice che le dovrò
regalare due seni più grandi, indeteriorabili,
simmetrici. Scansionare il suo corpo con un laser
a tempo di volo, archiviare la forma nella nuvola
dei punti. dice che è contenta, delle sopracciglia,
delle gambe, delle scapole. Il matrimonio
di plastica può durare per sempre se entra
nella carne, se sovverte la natura perché
fa combaciare l’individuo con il desiderio,
quello che ha di sé. dice che vuole farmi vedere
due capezzoli dritti come antenne, [l’erba bionda
ha sostituito gli alberi attorno alle antenne,
dovevano essere più resilienti]. Arriva luce
dal metallo fuso: autotreni. Le si colora il volto.
È solo un momento. Ci stavamo spaventando.
Nello scheletro la ghisa raffredda.
LE MORE SONO LAMPADINE BRUCIATE
Le spine escono dalle maglie della recinzione. I fiori
stanno dall’altra parte e indicano, nell’insegna di foglie,
non il giardino ma la casa, una bifamiliare squadrata
come una radiolina. Le more sono lampadine bruciate.
Così, in ognuna di loro, sono conservate
decine di migliaia di informazioni; la registrazione
dei mesi che sono appena trascorsi e, guardando bene,
il riflesso di alcuni istanti futuri [la materia del passato
costituisce il futuro o lo sta colonizzando?].
Una pellicola di ghiaccio evita la corrosione
delle more. Sulla loro superficie cade l’albore delle elettricità
discontinue, tanto fanno le immagini di fuochi
freddi, di ricordi, e di storie che restano senza parole.
BIOSFERE
Quando non riesci a prendere sonno
guardi dei video sulle biosfere dove
ecologhi dilettanti assemblano
contenitori ermetici grandi quanto
una zucca. dentro vi sigillano
alcuni litri d’acqua e piante e animali
grossi come granelli di sabbia presi
da un fiume, da una pozzanghera,
dal mare che, da quel momento,
proseguono la loro esistenza ignari
di ciò che gli è accaduto. Le forme
di vita più complesse si estinguono
mentre altre prosperano nel riuso,
farebbero lo stesso degli automi
opportunamente programmati.
La visione di quegli involucri e poi
della luce stellare che li alimenta,
rallenta il ritmo cardiaco e non è più
necessario massaggiarsi tempie e polsi.
Un odore di liquirizia bruciata
sale dal computer che ci dà le immagini
di questi dardi che attraversano il tempo.
MINERALI FERROSI
Centinaia di migliaia di robot sono prodotti
ogni anno. Ulteriori centinaia di migliaia ricevono
una rigenerazione. Cioè una seconda,
terza o quarta vita. Cancellata la loro memoria
sono assegnati a nuovi scopi, cioè venduti
– di seconda, terza o quarta mano – nei
paesi africani o del vicino oriente. ogni robot
per uso industriale pesa dalle decine
di chilogrammi in su; e può superare la tonnellata.
Centinaia di migliaia ogni anno. Centinaia,
forse migliaia di tonnellate al giorno; cioè
che escono dalle matrici della fusione
metallica: polsi, bracci e flange venuti
dal crogiolo universale; e poi le ruote dentate,
i pignoni, prodotte da macchine automatiche.
Senza considerare: guarnizioni e cavi segnale,
e lubrificanti e vernici resistenti a ogni atmosfera
ostile. Ma limitandoci ai minerali ferrosi.
Se quelli necessari alla moltitudine meccatronica
fossero stati sempre estratti nello stesso luogo,
quel luogo avrebbe perso le sue sembianze
così
la memoria di sé [non si tratterebbe di un altro
luogo ma di una mancanza di luogo. Certo,
è possibile colmare la mancanza con una notte.
o acqua che bolle nera come minestra,
o persino pensare al luogo trasportato, così
a frammenti di luogo disseminati, mobili].
*
La bussola indica il nord. Non può
più conoscere offuscamento, il luogo
ferromagnetico è stato dissolto dalle escavatrici.
L’ago dondola nel catino senza incertezze,
cresce la regolarità mentre cresce la popolazione
dei robot tra creste e valli di durame.
Li attorniano quei glifi di cemento che danno
le casseforme di abete; e compare poi
il muschio, sottile, che si dissimula
quando il sole è diretto.
Immagine: Foto di Francesco Terzago.