Proseguiamo la serie dei nostri omaggi a Patrizia Cavalli (1947-2022) con un commento di Giulia Martini a “Pigre divinità e pigra sorte”, raccolta uscita nel 2006.
Pigre divinità e pigra sorte [1] sembra presentarsi, sotto molteplici aspetti, come il perno attorno a cui ruota l’intera produzione poetica di Patrizia Cavalli. Sa prima stagione d’esordio (Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1976; Il cielo, 1981) si sostiene interamente su testi brevi, spesso dalla misura epigrammatica, i due libri che precedono la pubblicazione del 2006 accolgono due componimenti dal respiro più ampio: il poemetto «A tutti quegli amici e conoscenti» in L’io singolare proprio mio (1992) e Queste belle giornate in Sempre aperto teatro (1999). Ora, Pigre divinità e pigra sorte testimonierebbe un principio di rovesciamento formale nella misura in cui, delle otto sezioni di cui si compone, due vengono riservate ai poemetti Aria pubblica e La Guardiana: «A fare la differenza è adesso la presenza di ampie campiture strofiche che dispiegano nel tempo e nello spazio ciò che altrove è scattante e concentrato»[2]. La tendenza inaugurata qui si normalizza nella raccolta successiva, Datura (2013), dove le composizioni ampie e distese non costituiscono più sezioni isolate ma il sistema centrale attorno a cui orbitano le poesie brevi, come precisa anche la quarta di copertina. In altre parole, la tensione narrativa comincia a reclamare un suo proprio spazio, ma non tale da istituirsi ancora come principio ordinatore degli altri testi.
Oltre a essere «un’ampia, articolata summa»[3] dei temi e dei motivi precedenti, Pigre divinità e pigra sorte registra, parallelamente alla nuova spinta narrativa, una propensione ad «apr[ire] sempre di più e sempre più intrepidamente il proprio ventaglio tematico»[4], in particolare nei testi che rendono conto di quella ‘immediatezza ragionativa’ tale per cui l’indagine razionale viene condotta senza nessuno sforzo apparente e il pathos filosofico disciolto nell’immediatezza sensibile, in direzione di quello che potrebbe definirsi ‘cantabile logico-argomentativo’; come scrive Ambra Zorat, «la raggiunta complessità strutturale permette alla poetessa di cimentarsi in una nuova vena filosofica ragionante»[5]. La «tragicomicodiagnosi»[6] di sé, gli influssi metereologici e i disturbi meteoropatici, le ipotesi legate agli amori felici e agli oggetti giusti (cioè comodi), l’autoinvestitura e la percezione del gesto poetico come mestiere («Che forse non è questo il mio mestiere?»[7]) sono solo alcuni dei motivi ritornanti dell’opera; dall’amore alla morte, dalla religione del corpo a quella dello spirito, dalla credenza al raziocinio, dallo spazio comune della civitas a quello privato a cui si deve fare la guardia.
Questa ricchezza tematica è tenuta insieme da una grande unità di fondo, quella mariniana meraviglia insita nello sguardo del poeta: «È la stessa esperienza intermittente e lieta del linguaggio poetico che possiamo ritrovare tanto nei versi sul “buttare la pasta” che nella più seria riflessione sulla malattia e la morte. La ragione di questa unità è data dallo stupore che è all’origine di tutti i diversi registri della poesia di Patrizia Cavalli, che sia lo stupore per il proprio corpo o quello circa il destino delle città»[8]. Del resto, che il sentimento dello stupore sia il primo motore di questi testi è dimostrato anche una marcata ricorrenza lessicale; qualche esempio: «umano stupore»[9], «fermo pensiero / stupefatto inerme»[10], «non umiliati / ma certo stupefatti»[11], «Così ferma stupefatta la giornata»[12], «dall’aria troppo dolce e / stupefatta»[13], «Ma almeno per un po’ ti stupirai?»[14], «Non è stupefacente che una sera»[15], «bocca socchiusa non per lo stupore»[16]. Attributo umano, del pensiero, dell’aria, della giornata, della bocca, del tu e persino del gesto poetico: «Io scrivo perché mi stupisco, posso stupirmi di tutto, non ci sono gerarchie nel mio stupore»[17].
Uno stupore declinato anche come sconcerto e sbigottimento per la grande «avventura nel mondo»[18], come emerge bene dal collaudo sociale rappresentato in un incipit della seconda raccolta, Il cielo: «E chi potrà più dire / che non ho coraggio, che non vado / fra gli altri e che non mi appassiono? / Ho fatto una fila di quasi / mezz’ora oggi alla posta»[19]. In Pigre divinità e pigra sorte, questo «spaesamento domestico»[20] viene direttamente ricondotto a un’originaria cacciata edenica: in molti testi, infatti, il soggetto lirico cavalliano partecipa di un sentimento di sradicamento rispetto a una dimora originale da cui sarebbe stato, letteralmente, «mandato via», come recita un testo della prima sezione intitolato appunto L’Eden: «Mi hanno mandato via? / E io me lo rifaccio. / E visto che ci sono lo miglioro»[21]. In ultima analisi, il personaggio che dice «io» si dimostrerebbe tutt’altro che pigro, come lo sono invece le «divinità» e la «sorte» a cui si appella nella lirica eponima del libro:
Pigre divinità e pigra sorte
cosa non faccio per incoraggiarvi,
quante occasioni con fatica vi offro
solo perché possiate rivelarvi!
A voi mi espongo e faccio vuoto il campo
e non per me, non è nel mio interesse,
solo per farvi esistere mi rendo
facile visibile bersaglio. Vi do
anche un vantaggio, a voi l’ultima mossa,
io non rispondo, a voi quell’imprevisto
ultimo tocco, rivelazione
di potenza e grazia: ci fosse un merito
sarebbe solo vostro. Perché io non voglio
essere fabbrica della fortuna
mia, vile virtù operaia che
mi annoia. Avevo altre ambizioni, sognavo
altre giustizie, altre armonie: ripulse
superiori, predilezioni oscure,
d’immeritati amori regalíe.
Il valore programmatico di questo testo è connesso all’abbandono, da parte del soggetto lirico, di quell’«atteggiamento cautelativo»[22] che l’aveva precedentemente caratterizzato. Questo temerario esporsi, per quanto possa sembrare spia di una certa misura di sfrontataggine e tracotanza, risulta motivato da una disperata urgenza di entrare in contatto con le entità divine e le forze ultraterrene: che si manifestino, anche «pigre», anche forma di «sventure». Ma chi parla si espone a colpi che non arrivano, nella misura in cui queste entità e forze sono indolenti al punto da mancare il bersaglio più evidente: «solo per farvi esistere mi rendo / facile visibile bersaglio». La rivisitazione in chiave dismessa dei topoi della tradizione letteraria (tra cui, appunto, quello dell’eroe disposto a sacrificarsi pur di entrare in contatto con la divinità) rientra a pieno titolo nella poetica di Patrizia Cavalli, dove anche solo «il semplice invito a cena di una “voce / che chiede dove andrò a mangiare” si configur[a] nella forma terrificante di una cacciata biblica»[23].
Nei versi finali (vv. 13-19), il discorso cade sulle aspirazioni del soggetto, di cui si mettono in rapporto i desideri presenti («non voglio») e le aspettative passate («sognavo»), rimaste insoddisfatte (altro motivo tipicamente cavalliano, basti pensare al distico «Alle buone maniere. È una locanda. / Chiese una stanza, e si trovò un mestiere»[24]). Tali desideri riguardano il prodotto dell’attività della sorte, sempre auspicato come un dono necessariamente fortuito e indebito: chi parla disdegna qualunque ottenimento o risultato abbia avuto esito da un’attività lavorativa e industriosa, da un guadagno personale («io non voglio / essere fabbrica della fortuna / mia»), rovesciando la celebre locuzione di Appio Claudio Cieco homo faber fortunae suae. Anche nel poemetto La Guardiana, non a caso, la felicità della «grazia» (che, come in questo testo, è la grazia animale), scompare quando chi dice «io» diventa un’«ostinata artefice di deluse chiavi». Se dunque l’operosità è una «vile virtù operaia che / mi annoia», la pigrizia è necessariamente collegata al desiderio e all’ebbrezza, come recita un epigramma di Sandro Penna: «Paresse, paresse / encore mieux que l’ivresse / je t’amerai sans cesse. / Car mon nom est par… esse»[25].
[1] Patrizia Cavalli, Pigre divinità e pigra sorte, Torino, Einaudi, 2006 (d’ora in poi PDPS nelle note). Questo intervento è tratto dalla mia tesi di laurea magistrale, che propone un commento dell’intera opera.
[2] Gianluigi Simonetti, Nuovi modi per andare a capo. Su alcune raccolte recenti di poesia italiana, in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», XXXVII / 1, gennaio-aprile 2008, pp. 145-156, cit. pp. 147-148.
[3] Matteo Marchesini, Una pigrizia astuta, in Id., Poesia senza gergo. Sugli scrittori in versi del Duemila, Roma, Gaffi, 2012, pp. 81-85, cit. p. 81.
[4] Alberto Asor Rosa, Il ritmo di Patrizia Cavalli, in «La Repubblica», 22 luglio 2006, <il ritmo di patrizia cavalli – la Repubblica.it>. Ultimo accesso: 28 giugno 2022.
[5] Ambra Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni Settanta a oggi. Percorsi di analisi testuale, tesi dottorale, Université Paris IV Sorbonne – Università degli Studi di Trieste, a.a. 2007/2008, relatori François Livi e Cristina Benussi, cit. p. 274.
[6] È la Cavalli stessa a suggerire questa definizione per la propria poetica: «se proprio ci tengono tanto alle definizioni, suggerisco di chiamarla poesia tragicomicodiagnostica» (Camilla Valletti, Il tempo della valigia. Intervista a Patrizia Cavalli, in «L’indice dei libri del mese», 11, novembre 2006, cit. p. 16).
[7] PDPS, 36.
[8] Emanuele Dattilo, Sulla poesia di Patrizia Cavalli, in «Lo straniero», 17 novembre 2015.
[9] PDPS, 8.
[10] PDPS, 34.
[11] PDPS, 49.
[12] PDPS, 58.
[13] PDPS, 95.
[14] PDPS, 128.
[15] PDPS, 138.
[16] PDPS, 144.
[17] C. Valletti, Il tempo della valigia, op. cit., p. 16.
[18] Maddalena Bergamin, Il soggetto contemporaneo nella poesia di Anedda, Cavalli, Gualtieri. Appunti per un rinnovamento dello sguardo critico, in «Ticontre», VIII, 2017, pp. 107-120, cit. p. 119.
[19] Patrizia Cavalli, Il cielo, Torino, Einaudi, 1981, cit. p. 30.
[20] M. Marchesini, Una pigrizia astuta, op. cit., p. 83.
[21] PDPS, 15.
[22] Francesco Vasarri, Dall’ape alla zanzara. L’entomologia nella poesia italiana contemporanea, tesi dottorale, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2017/2018, relatrice Anna Dolfi, cit., p. 99.
[23] Ibidem.
[24] PDPS, 19.
[25] Sandro Penna, Poesie, prose e diari, a cura di Roberto Deidier, Milano, Mondadori, 2017, cit. p. 184.
Immagine: Foto di Dino Ignani.