Apriamo la serie di testimonianze per Biancamaria Frabotta (1946-2022) con un ricordo di Carmelo Princiotta.
In una vecchia agenda telefonica di Amelia Rosselli c’è scritto: Biancamaria Frabotta, poeta,
femminista, docente universitaria, critica militante. “Mi piace”, disse. “Mi piace anche l’ordine”.
Ognuno l’ha conosciuta in un ordine diverso. Come la femminista belligerante e bellissima
degli anni Settanta: Biancamaria Frabotta ha fatto per le donne forse più di quanto le donne
abbiano fatto per lei fino a ieri. «La vedi? Là, dall’altro marciapiede. / È sola, in piedi, e parla
con l’alfabeto muto.». Questo le bastava per sapere che doveva darle voce. Aveva già
pubblicato la tesi su “Carlo Cattaneo” (1971), che le aveva permesso di coniugare la passione
civile con l’amore per i libri. E di non uscire più dall’Università. Si mise al servizio del
movimento, raccogliendo documenti di donne (1973 e 1976) che spesso si firmavano solo per
nome, come quella di cui racconta in “Quartetto per masse e voce sola” (2009), il suo memoir
così fuori dai generi.
Leggeva poesia, prima ancora di scriverla, a patto che non le si chiudesse addosso «come una
tenaglia». Ma poi non trovava nelle antologie le autrici che amava. Che fare? Alle idee
seguivano i fatti. E fu “Donne in poesia” (1976). Un’antologia. Dove, va ricordato, non incluse sé
stessa. In quante e quali altre antologie trovavi Amelia Rosselli a quel tempo? Quando vai per
biblioteche o cortei, o scendi nella metro con gli stivaletti nuovi, una poesia è sempre bene
averla in tasca. Era l’età del disagio. E lei lo cantava, testimoniandolo: chi non conosce il
disagio di leggere in autobus poi si accontenta dell’abbrutimento. Nella sua plaquette
d’esordio si volle “Affeminata” (1976). Fuori dal femminile convenzionalmente inteso. Era sui
generis anche nel genere. «È vero. Non come te poeta io sono / io sono poetessa e intera non
appartengo a nessuno». Non temeva i suffissi, sapeva rivoltarli. Temeva chi ti mette a tacere,
chi ti chiude in un tronco morto. Fosse l’avanguardia o la tradizione, un matrimonio o una
rappresaglia. Sognava di rinascere fra dissonanze che pure sprigionassero una segreta
armonia. Una delle sue controfigure è stata «minerva armata a difesa di una vocazione», la
statua che si erge alla Sapienza. Qualcuno non le perdonava il corpo, qualcuno la testa,
qualcuno l’impegno, qualcuno la poesia. Credeva che la cultura potesse e possa rimettere al
mondo. Questo fu “Il rumore bianco” (1982), la sua seconda nascita.
Nel 1982 incontrò Giorgio Caproni, poeta a quel tempo senza monografie. Ne seppe carpire i
grovigli più inquietanti e le prodigiose pedalate. Lui le scrisse, per dedica: «A Biancamaria, alla
sua poesia». L’aveva riconosciuta: perché un vero poeta sa come riconoscere un poeta. Anno
dopo anno Biancamaria Frabotta ha fatto conoscere ai suoi allievi alcuni fra i più grandi poeti
del Novecento. E li ha fatti laureare sui viventi, quando la cosa destava, se non sgomento,
perplessità. Amare non basta, bisogna farlo con applicazione: questo è lo studio. Non
avvicinava la poesia ai giovani, banalizzandola, ma avvicinava i giovani alla poesia, istruendoli.
È così che ha insegnato a insegnare. Per molti la poesia contemporanea è passata attraverso la
sua voce. Non ha mai parlato ai suoi corsi della propria poesia. I suoi allievi l’hanno scoperta
da soli, leggendone i libri in segreto e pedinandola nelle letture in città. Lei, intanto, se ne
andava nelle periferie del pianeta. Ne venne fuori “La viandanza” (1995), che alcuni
considerano il suo capolavoro. La Terra, la storia e la letteratura percepiti e attraversati come
altrettanti ecosistemi in crisi: «Camminiamo riparando le perdite». La grande conquista di
quel libro è la poesia madre. Un poeta non genera l’opera, ma ne è generato. “Terra contigua”
(1999) fu un modo di estrarre dal nero la luce, di esorcizzare la malinconia, anche culturale,
con cui il secolo terminale affliggeva i superstiti.
“La pianta del pane” (2003) stupì per le stanze dell’amore coniugale. Si congedava dal
Novecento e dall’elegia, ma con quale straziato allegretto per i non nati, quelli che lei chiamò i
bambini d’inverno, e con quale adagio solenne per le catastrofi della storia. “Da mani mortali”
(2012) forse è il libro che più aveva caro. Uscì in un momento in cui si sentiva abbandonata da
tutti. E, diciamolo pure, da tutte: «le donne a tratti tornavano mute», scriverà poi. Intanto si
confrontava con “Vita activa” di Hannah Arendt. E ripensava lo stare al mondo a partire da temi
come il lavoro, l’opera e l’azione. Perché Biancamaria Frabotta poteva anche starsene a Cupi
nel suo campo, a coltivare piante e a scrivere poesie con le stesse forbici usate in giardino.
Intanto ripensava la condizione umana. I suoi libri si misurano con questioni capitali, calate
però nell’esperienza di un io. Quel libro mancò anche un premio prestigioso. La cosa le
spiacque. Le spiacque perché non era stato capito. “Era il mio libro, capisci? Come farò a
scriverne un altro?” Invece lo scrisse e raccolse in “Tutte le poesie: La materia prima” (2018). Un
libro che rompe, in versi, il tabù della vecchiaia femminile: «Qual è la grazia della vecchiezza /
ditemi, quale la sua allegrezza?». Quel libro si interroga sul fondamento stesso dell’esistenza.
Che cosa resta di un poeta dopo che muore? Più che la perdita del corpo, l’affliggeva la perdita
della voce, quella voce che nessuno di noi potrà mai dimenticare. Biancamaria Frabotta era
un’appassionata materialista. Ma era anche poeta. Sapeva che bisogna bruciare il corpo,
perché chi abbiamo davanti diventi presenza segreta dentro di noi. Una delle sue penultime
controfigure è Eco. Diceva che la voce che abita l’opera di un poeta non corrisponde agli
estremi anagrafici di chi la scrive, o al suo organo fonatorio. Sopravvive alla perdita del corpo.
Chi muore non si spegne, si trasforma. Un poeta si accende nelle proprie poesie ogni volta che
qualcuno le legge. Chi muore non scompare, è presente in modo diverso. Non è più dov’era,
ma «ovunque noi siamo», come c’è scritto nel suo prossimo libro, “Nessuno veda nessuno”. Chi
muore non ci lascia, non va via, non ci abbandona. Rimane nell’opera. Biancamaria Frabotta
ha dato la vita per la poesia. E la poesia la ricambierà. Non la terrà in vita. Le darà nuova vita,
rimettendola al mondo ogni volta che la leggeremo.
Dopo, un poeta
sa che non essere
non avrebbe potuto
ma anche, giorno
dopo giorno, uscire
dalla fila, questo sì
sarebbe stato possibile
perché un poeta sa
che l’opera finisce
dall’inizio, convive
nel caso e non
per un caso rivive
come insieme vissero
ma come morirono
perché un poeta sa
quando risuona la sua ora.
(da “Da mani mortali”)
Immagine: Ritratto di Dino Ignani.