Sette poesie in anteprima da “Testimoni” di Emanuele Franceschetti, uscito con prefazione di Massimo Gezzi nella collana ‘licenze poetiche’ di Aragno e vincitore del Premio Subiaco Città del Libro.
(INTROITUS)
La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo si riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.
*
Partire da un’immagine.
Sapere che nulla capovolgerebbe il nastro, che domani
altri occupanti abuseranno dei dormiveglia,
delle meditazioni dentro i treni.
L’immagine resiste.
L’illusione di ricostruire un corpo,
mantenere l’ordine degli oggetti,
la memoria di una telefonata.
Un nucleo a malapena si conserva:
un codice di segni universali, una radice.
Puoi accorgerti del mondo.
*
Brera, Pinacoteca, Sala trentatré,
una tela tra le altre, due righe nel memorandum:
Nel millecinquecentonovantasette
ventitré missionari furono crocifissi a Nagasaki.
Sono esistiti, hanno occupato un corpo:
ora non hanno nome, stanno immobili
nel fitto didascalico dei segni.
Come sant’Orsola, poco oltre,
sant’Orsola bianca di morte
che fissa la sua trafittura,
la tiene negli occhi.
Se guardi tutto questo
non cerchi l’eleganza del dettato,
non conosci la pace della forma.
Sai solo la tua assenza.
*
I martiri di Otranto schiantati dai bastioni
oppure questa pace di ossa che calcificano,
la vita tra l’origine e la soglia.
La terra rossa che resiste alla minaccia del diluvio.
Uno tra gli infiniti testimoni
ristabilisce un ordine
di silenzio e memoria.
Tutto è al suo posto, tutto si contiene.
*
(NEI TESTIMONI)
I
Gdeezir con gli occhi chiusi indica il cielo
e dice piano Shëndet, dice grazie
nella sua lingua antica. Poi torna nella luce,
risucchia il brodoscuro che lo nutre
e aspetta, come me, che faccia notte.
Gdeezir mi guarda e ripete ventisette, ventisette,
e sono gli anni in cui è sfuggito al mostro,
gli anni di grande guerra,
e vorrei dirgli insegnami a resistere
V
Loredana dice che ho gli occhi di San Giovanni, co’ dentro quarcosa tipo de luce. Le chiedo che occhi avesse il martire di Patmos, perché altrimenti mentirebbe in buona fede, come chi crede senza aver toccato. Come i santi che stanno nella grazia delle urne, nella pace stellare dei deserti. Loredana ha un marito innamorato e un figlio che non esiste, ma non ricorda che l’unica pace è questa mistura a rilascio graduale. Mostri che per un’ora s’addormentano.
*
Ama la tua inquietudine, che è forza germinale
insiste con voce ferma di terra,
non maledire la sete che ti abita.
Eppure questa guerra. Quest’urto,
questa prossimità con gli elementi.
Resistere per non dimenticare
il senso primitivo di casa, i corpi innamorati,
tutto il dolore che non sai trascrivere.
Oppure il pensiero che tutto sia sottrazione
e attesa. La storia che ti guarda, ti sommerge.