Ripubblichiamo questo Diario scritto da Carlo Carabba (e pubblicato nel numero 1 della nuova edizione di «Nuovi Argomenti», nel 2019) perché oggi suona tristemente profetico. Ma anche capace di aprire alla speranza.
«Anche di Roma nessuno pensasse che poteva cadere. Era gente che aveva servizi postali in grado di coprire 250 chilometri in un giorno, avevano servizi idraulici dentro le case, le donne erano libere, avevano l’arte, la scienza e un sistema di comunicazione che raggiungeva tutto il mondo civilizzato. In cento anni erano rimasti solo pidocchi e rovine. A volte devi prenderti cura di quel che hai.»
Con queste parole Wolverine entra in scena in Here comes tomorrow (in italiano Spettri dal futuro), la saga – ambientata in una distopia alla fine del XXI secolo – che chiude il lungo ciclo dello scozzese Grant Morrison come sceneggiatore dei fumetti degli X-Men.
Morrison era stato chiamato in un momento in cui, per risollevarsi da una terribile crisi commerciale, la Marvel cercò i migliori talenti del fumetto indipendente, affidando loro la guida dei personaggi più celebri e iconici della casa editrice, con risultati straordinari. A Hollywood fecero qualcosa di analogo quando molte majors decisero di utilizzare, per la regia dei loro blockbuster, dei registi che si erano segnalati per qualche cosiddetto film di culto (per restare nell’ambito dei supereroi la trilogia di Batman di Christopher Nolan). O, recentemente, le grandi case discografiche italiane sembrano aver trovato nuova vita dopo un periodo estremamente problematico, legato al cambio di supporto per l’ascolto, rivolgendosi a gruppi e cantautori provenienti dal mondo indie (se non lo avessi utilizzato due righe sopra avrei ripetuto l’aggettivo cosiddetto) o dalla musica trap, che dominano le classifiche di vendita, le quali oramai si misurano su Youtube e Spotify.
Questa di rivolgersi ad artisti provenienti da un mondo vagamente anarchico e antagonista per provare a risollevarsi da una situazione commercialmente stagnante (se non drammatica) è una soluzione che spesso funziona ma che viene adottata solo quando il quadro si è fatto disperato. L’industria culturale, generalmente, sembra preferire l’opera rassicurante, che riprende con minime variazioni quanto ha avuto successo fino a quel momento, aggrappandosi a dogmi sciocchi e inefficaci che possono solo condurre alla rovina (i libri sulla camorra non vendono, i supereroi al cinema non funzionano, cose così). Eppure è proprio nei momenti di crisi che sarebbe necessario abbandonare le scelte conservative. Ma, ovviamente, è proprio nei momenti di crisi che è più difficile trovare il coraggio necessario per farlo.
[…] Nel mio libro di storia delle scuole medie (edizione Garzanti, veramente un ottimo libro di testo, per quel che mi ricordo), si raccontavano gli antefatti della Prima Guerra Mondiale. Crisi in Marocco, crisi nei Balcani, politica di potenza tedesca, schricchiolii dell’impero asburgico, tensioni coloniali. Era evidente, secondo il libro, scritto settant’anni più tardi, che stava per succedere qualcosa di terribile. E si ironizzava contro gli ultimi gaudenti, ignari e qualunquisti, della fine della Belle Époque.
In altre parole, il manuale pareva ritenere che fosse impossibile che, date le condizioni dell’Europa nel 1913, non scoppiasse una guerra generale, ma riconosceva al tempo stesso che, per un individuo medio dell’Europa di quegli anni, era altrettanto impossibile prevedere il conflitto che sarebbe seguito.
Allo stesso modo, da poco qualcuno, e pur frugando nella mia memoria non riesco a ricordarmi chi sia stato, mi ha parlato di un fotografo serbo che gli (o le) aveva raccontato che alla vigilia della guerra jugoslava era in campagna a fotografare paesaggi, e che, per quanto le tensioni politiche fossero già bene evidenti, non avrebbe mai immaginato che solo il giorno successivo sarebbe iniziata la guerra.
Circa due anni fa mi venne una di quelle idee estemporanee e inconcludenti che affastellano le giornate degli esseri umani e si ritiene che, nei casi più fortunati, possano portare alla creazione di Facebook o del cubo di Rubik, ma generalmente restano perdute in uno stadio embrionale, e diventano un retropensiero che ogni tanto torna alla coscienza con la vergogna sia della propria inconcludenza che, spesso, della qualità mediocre e sciocca dell’idea, e la cui mancata realizzazione non raggiunge quasi mai lo stadio del vero rimpianto. Secondo questa mia idea estemporanea e presto abbandonata, mi sarei dedicato alla stesura di un libro di aforismi. Non ne ho escogitati che due, il secondo dei quali affermava che, contrariamente alla credenza diffusa, la natura umana si rivela non nelle difficoltà ma nella piena fortuna. L’altro, il primo che avevo composto, recitava
«Nella vita nulla ha un perché, tutto una spiegazione».
Ricordo che ne ero stato scioccamente fiero, perché mi sembrava fossi riuscito a esprimere il sentimento secondo cui gli eventi umani non seguono un ordine teleologico e preordinato, ma che al tempo stesso non sono nemmeno illogici, le loro cause sono sempre ricostruibili attraverso interpretazioni. Solo che ogni interpretazione è per sua natura post hoc e anche la conseguenza che ci pare oggi più inevitabile (e forse lo era) non lo poteva essere dalla prospettiva di chi stava per compiere l’evento che l’avrebbe prodotta.
Proprio come avviene in una striscia di Calvin & Hobbes, in cui, nella prima vignetta, Calvin allegro e sorridente lancia in aria un palloncino pieno d’acqua per provare ad afferrarlo al volo prima che tocchi terra e, nella vignetta successiva, fradicio e ombroso, commenta: “È incredibile quanto un’idea così stupida mi apparisse un secondo fa tanto plausibile”.
[…] Forse la coscienza della crisi è particolarmente acuta in chi appartiene alla generazione di cui faccio parte.
Essendo nato nel novembre del 1980, sono stato adolescente negli anni 90. Come è noto lo storico Francis Fukuyama aveva dato alle stampe nel 1992 un saggio intitolato La fine della storia in cui, per sommi capi, si sostiene che in seguito alla caduta del muro di Berlino, alla disgregazione dell’U.R.S.S., le magnifiche sorti e progressive avevano finalmente trionfato e il genere umano (almeno nei territori in cui questa fase era già conclamata e palese) aveva raggiunto, per usare l’espressione kantiana, la pace perpetua e la perfezione politica. Gli anni 90 parvero confermare questa previsione. Il benessere economico cresceva ed era supportato da forme sempre più avanzate di tecnologia, l’Europa avanzava compatta verso l’unità di cui la moneta comune sarebbe stata espressione tanto simbolica quanto pratica, molti stati mediorientali si aprivano a riforme e persino uno degli snodi geopolitici più sofferti e sofferenti del pianeta, Israele, sembrava avviato a un processo di pace, forse non lineare ma assolutamente raggiungibile. È questo l’umore globale con cui le persone nate nei miei anni hanno attraversato l’adolescenza. Certo, lo scenario sereno e rasserenante (per quanto guerre vicine come quelle nei Balcani o barbarie come la condizione delle donne in Afghanistan turbassero i nostri cuori e infiammassero le nostre assemblee studentesche) non bastava a spegnere l’irrequietezza tipica dell’adolescenza. Ma guardavamo al futuro come a un’epoca carica di promesse, come era stato per i nostri genitori, nati sul finire o al termine della guerra, che avevano potuto beneficiare del grande progresso che aveva accompagnato la loro vita.
Purtroppo Fukuyama si sbagliava e la storia ha ripreso a scorrere con violenza nell’estate del 2001, prima con la ferita non sanabile del G8 di Genova, poi con l’undici settembre. O forse, forzando la sua tesi e mutando in negativo il segno lieto delle sue parole, Fukuyama aveva ragione e con la fine degli anni 80 la società occidentale ha raggiunto il suo apice, in seguito al quale è iniziata un’epoca di decadenza e l’insorgenza di nuove civiltà. Quello che è certo è che la mia generazione, tra guerre infinite e globali, lavoro precario e crisi economica permanente, sente che non sono state mantenute le promesse che credeva di avere udito e che forse si rimprovera di essersi immaginata.
Ma, mancando una deflagrazione conclamata e non capendo esattamente quale strada di protesta seguire (visto che giustamente la maggioranza di noi apparentemente comprende tanto l’inutilità delle allegre e gioiose manifestazioni di piazza quanto l’orrore della violenza – o forse come dicono i detrattori dei giovani di oggi, incuranti di aver lasciato loro un mondo non proprio nella migliore delle condizioni, perché, a differenza loro che sfilavano nei cortei e facevano la rivoluzione culturale, siamo anestetizzati dal computer e dalle app) sembriamo continuare a dedicarci ai piaceri futili della vita, simili agli stolti bon vivants della Belle Époque, a Calvin che lancia il palloncino in aria. Forse, parafrasando Pascal, percependo la crisi e avvertendo l’imminenza di una catastrofe, cerchiamo di essere felici non pensandoci.
Ad ogni modo Fukuyama, l’ho già scritto, evidentemente si sbagliava, e lui e il suo saggio sono diventati l’emblema della scarsa lungimiranza – su internet ho trovato questo pensiero su di lui, e non è isolato “How a man who says something so stupid can maintain dignity and a career as a public intellectual is beyond my understanding, but he did”. Ma per quanto marchiano l’errore possa essere stato, il commentatore è severo. Fukuyama non ha fatto altro che compiere lo sbaglio più comune e banale di chi azzarda una previsione, supporre che le condizioni presenti determinino linee di sviluppo conformi con quanto ipotizzabile al momento dell’osservazione e quindi che il futuro sia accessibile attraverso una sorta di “espansione” o “proiezione” del presente. Questo varrà quasi di certo per un lasso di tempo breve, ma la complessità delle variabili coinvolte fa sì che sia impossibile che valga per un tempo lungo o addirittura medio (è il motivo per cui le previsioni del tempo sono abbastanza affidabili per l’indomani, pochissimo per la settimana successiva), perché tale modo di prevedere non tiene conto dell’irruzione dell’imprevisto, dell’imprevedibile, dell’eccessivo numero di fattori determinanti che andrebbero considerati, della non linearità dei processi, delle fratture, delle crisi (non si prevedono i crolli di Torri Gemelle o Lehman Brothers).
Con una coincidenza non particolarmente vistosa, ma che io ho comunque trovato significativa, mentre scrivevo questo diario mi è capitato di visitare, al Palazzo Fortuny di Venezia, una bella mostra sulla “rovina”. Una volta qualche anno fa parlai di città artificiali con il poeta Antonio Riccardi, che all’epoca era anche il mio capo e ne era fortemente affascinato. Mi spiegò che le città artificiali (tra cui Venezia ovviamente brilla di luce splendente e cupa, sospesa tra la magnificenza e l’abisso in cui pare destinata sprofondare) celebrano la potenza del popolo che le costruisce e al tempo stesso sembrano alludere alla sua prossima rovina (che non può che succedere all’apogeo), quasi fossero fatte per gli archeologi del futuro – ed io mi chiedevo se Las Vegas, se i monumenti ricostruiti in plastica, se Disneyland e gli altri grandi parchi di divertimento saranno, qualora l’uomo sopravviva, studiati e ammirati come meraviglie di un mondo perduto, se saranno la Pompei di un futuro remoto.
Comunque, passeggiando per le sale e i corridoi di Palazzo Fortuny, che mantiene le promesse di bellezza e decadenza che il suo nome evoca, sono rimasto molto colpito da un dipinto del 1794 che raffigurava un monumento alla Ragione da edificare sulle rovine della Bastiglia. Dalla prospettiva della Parigi del 1794 il trionfo perenne della rivoluzione e dei suoi valori pareva essere il futuro più plausibile. Allo stesso modo nel 1940, come nella bella canzone di Francesco De Gregori, era molto difficile prevedere quello che sarebbe stato, fortunatamente, l’esito della guerra. E proprio a Venezia, poche settimane prima, durante l’annuale incontro organizzato dalla Scuola Librai Umberto ed Elisabetta Mauri, avevo sentito Lucrezia Reichlin esprimere un pensiero sconvolgente nella sua semplice e spietata intelligenza: commentando con qualche perplessità dei grafici ottimistici sul futuro dei libri dopo anni di blanda e significativa recessione, Reichlin aveva scosso la testa scettica dicendo che la sua professione di economista le aveva insegnato a non credere mai a proiezioni numeriche e predizioni puntuali che oltrepassassero i tre mesi.
Così noi siamo abituati a pensare alla carta politica del mondo come a qualcosa di sostanzialmente immutabile – nonostante che nell’arco della nostra vita abbiamo fatto esperienza contraria e che questa nostra istintiva convinzione diventi assurda se si pensa a tale mappa solo centocinque anni fa, alla vigilia della guerra – e che una guerra atomica sia altamente improbabile, anche se dal punto di vista logico il fatto che una bomba atomica non sia esplosa fino a ora non significa che non potrà mai esplodere, anzi, statisticamente è più probabile che, in un tempo tendente all’indefinito, uno dei numerosi capi di stato che si troveranno nella possibilità di decidere se ordinare un attacco atomico prima o poi ceda alla tentazione, comportandosi come quei personaggi che nei film obbediscono all’imperativo narrativo che prescrive che se compare in scena una pistola prima o poi è necessario che spari.
È difficile per me scrollarmi di dosso la sensazione che la storia del progresso occidentale che è avvenuta in modo grossomodo lineare dall’anno mille a pochi anni fa, si sia irrimediabilmente spezzata (ed è altrettanto difficile per me impedirmi di pensare – pur se è un pensiero che resta a un livello non pienamente verbalizzato, di cui ignoro i nessi causali e che non saprei dimostrare con un ragionamento ben formulato – che la diffusione massificata di internet abbia a che fare con tale crisi irreversibile altrettanto o più delle tensioni geopolitiche). Ma so anche che ogni millenarismo è fascinoso, carico di rischi e fallibile quanto le riflessioni più ottimiste.
In Che cosa è successo all’uomo del domani, una bellissima storia di Alan Moore (il creatore di Watchmen, uno dei più grandi fumettisti di ogni tempo), Mongul – un supercriminale alieno – riesce a imprigionare Superman in uno stato catatonico grazie a un fiore extraterrestre che, attaccandosi al suo petto, gli permette di vivere nella fantasia il suo sogno più grande. E Superman, nato Kal-El su Krypton, può vedere quello che sarebbe successo se il suo pianeta natale non fosse mai esploso, può godere della sua vita finalmente normale (e non del simulacro di normalità che Clark Kent prova a concedersi), moglie, figli, lavoro. Solo una voce è stonata, quella di Jor-El, suo padre, lo scienziato che aveva previsto inascoltato la prossima distruzione di Krypton, e ora che ha avuto torto è stato bandito dalla comunità scientifica ufficiale e che, accecato dal risentimento per la mancata catastrofe (che pure lo avrebbe ucciso, assieme ai suoi cari e a tutti gli altri abitanti del suo pianeta) è diventato uno dei leader di un culto religioso reazionario e violento, ammirato dagli scontenti ed emarginati, disprezzato dalla società civile, additato come il pazzo che aveva predetto un disastro che non si è verificato, come gli americani che negli anni 50 e 60 erano andati a vivere in un bunker in grado di far fronte allo scoppio di una guerra atomica, come derisa ed emarginata sarebbe stata Cassandra se nel cavallo di legno non ci fossero stati gli Achei.
Mi chiedo se io scrivendo questi pensieri, come Jor-El nel mondo in cui Krypton non è esploso o Cassandra in quello in cui Troia ha prosperato serena, non ceda alla tentazione escatologica, mostrando di provare un sinistro desiderio forse ispirato dal fascino sublime dell’apocalisse e dal fatto che non ho figli del cui futuro dovermi egoisticamente preoccupare, una sorta di nostalgia della catastrofe in qualche modo inscritta nel mio patrimonio genetico che mi porta a reiterare in forma negativa l’errore di Fukuyama, espandendo la cupezza del presente (l’estrema destra in Brasile, l’insorgere del razzismo in Italia in una forma senza precedenti e verso cui sembra esistere un’indulgenza istituzionale, il muro trumpiano, la Siria abbandonata alla guerra e oramai da quasi un anno ignorata dagli stessi media che per mesi le avevano dedicato le prime pagine, così come era avvenuto a Iraq e Afghanistan, il ritiro americano dagli accordi sul nucleare e via dicendo) verso il futuro, ipostatizzando quella che invece è, per quanto ombrosa, una semplice fase e congiuntura storica.
O forse il mio pessimismo è legato al fatto che il mio mestiere, che fortunatamente mi piace al punto da viverlo come una vocazione e un privilegio, attraversa una fase depressiva piuttosto brutale e non è chiaro, o almeno non lo è a me, che forma potrà avere tra una decina d’anni – e non perché sia depressa la letteratura, vengono scritte tante opere bellissime, ma perché il consumo dei libri (così come di altri oggetti dell’intrattenimento culturale) pare minacciato da forme estremamente invasive di occupazione del tempo e sembra ci sia la tendenza a smettere di leggere non appena finita l’età scolare fino al raggiungimento dell’eventuale pensione. Contrariamente ai luoghi comuni, infatti, non sono i ragazzi a non leggere (il mercato under 18 è l’unico in espansione più o meno costante) ma il problema sono gli adulti in età lavorativa.
Ad ogni modo, per indole e lavoro, controllo costantemente le classifiche di vendita e noto, come molti altri che lavorano nell’editoria, che di recente i saggi sulla storia del mondo e del genere umano, stanno riscuotendo un successo commerciale abbastanza inatteso, a partire dal celebrato Sapiens di Yuval Noah Harari.
Spesso cercare le cause di un successo è un esercizio divertente ma vano, che si espone al ridicolo dell’esibizione del senno di poi. Ma mi domando se sia possibile che questo interesse sia ora particolarmente forte perché molti, come si dice facciano gli uomini alla vigilia del loro ingresso in una nuova fase della vita, tentano un bilancio del percorso del genere umano, avvertendo la precarietà dell’attuale situazione sociale e politica. Del resto è sconcertante l’esiguità del periodo storicizzato (che possiamo datare al più al 5.000 avanti Cristo per una durata complessiva di settemila anni – anche se l’età propriamente storicizzata è molto più breve, non arriva a quattromila anni) a fronte della data stimata di apparizione dell’Homo Sapiens Sapiens su questa Terra (tra 300.000 e 200.000 anni fa). Come è possibile che per un tempo così lungo i progressi siano stati, quantomeno dalla nostra prospettiva, tanto limitati, l’espansione demografica così esigua, e, da un certo momento in poi la crescita abbia seguito ritmi forsennati, al punto da condurre l’uomo a mutare radicalmente l’habitat terreste, di parlare di sovrappopolamento del globo, colonizzazione dello spazio, mutamento climatico (per cause antropiche), estinzione? E se la storia di questa progressione sembra seguire un andamento potenziale, come possiamo pensare di essere non dico all’inizio, ma anche a metà, dell’avventura del genere umano sul pianeta? Nessuno può riuscire a pensare cosa potrà essere l’umanità tra duecentomila o trecentomila anni (tanto che ci sembrano due lunghezze equivalenti, nonostante siano separate da centomila anni, vale a dire quindici volte il tempo che ci separa dagli egizi), peraltro un tempo molto breve rispetto al tempo indefinito, se non infinito, cui va incontro l’universo. Quandanche fosse lontanissima nel tempo, l’estinzione è l’unico esito possibile per l’umanità?
E prima dell’estinzione della specie, vi sarà quella delle singole società.
Una strana costante della storia umana vuole che in qualche modo l’evoluzione sociale porti a un ingentilimento dei costumi che rende i popoli possibili vittime di forze storiche giovani più brutali o selvagge (i barbari). Ricordo che rimasi molto impressionato, in occasione di una vacanza a Marrakech, quando, sulla parte dedicata dalla Lonely Planet alla storia del paese, lessi che questa dinamica si era ripetuta tre o quattro volte nell’arco di pochi secoli e aveva determinato il succedersi delle dinastie che, nella prima metà del secondo millennio, avevano governato il Marocco, con la progressiva irruzione di tribù provenienti dal deserto che avevano scalzato i regnanti non appena questi si erano raddolciti, o, come già voleva Catone il Censore dei suoi compatrioti che iniziavano alle lusinghe e suggestioni della cultura greca, rammolliti. E mi chiedo, ancora una volta, se la società occidentale stia per crollare sotto i colpi di civiltà barbare e purtroppo per questo più vitali.
Ma la storia, me ne rendo conto, non è poi lineare e non posseggo tutte le variabili su cui impostare il calcolo del futuro.
La stessa società occidentale rivela di possedere nuove dimostrazioni di vitalità, che valgono per me come fonti di conforto di fronte ai miei pensieri più cupi. Ad esempio guardo con grande interesse, quasi fossero inattese vie di salvezza, a nuove forme espressive sorgive, quali la rinascita della poesia a larga diffusione e la musica trap. Se solo quattro anni fa un lavoratore dell’editoria avesse previsto che sarebbe arrivata presto una nuova generazione di poeti in grado di raggiungere con i loro versi i primi posti delle classifiche di vendita, sarebbe stato licenziato e preso per sciocco, se non per matto. E invece ora la poesia, che pareva, rastremata e consunta, sul punto di spegnersi, ha ritrovato un imprevedibile slancio commerciale, con libri che sono in cima alle bestseller list di tutto il mondo (su tutti Milk and Honey di Rupi Kaur, giovane autrice nata in India e cresciuta in Canada). Negli ultimi mesi mi sono appassionato alla musica trap italiana, accorgendomi che ragazze e ragazzi che, per loro ammissione, provengono da studi irregolari, posseggono, accanto a una potente energia creativa in grado di commuovere e divertire, una straordinaria padronanza metrico-linguistica, come la ventenne Chadia Rodriguez, che scrive dei testi stupefacenti per forza icastica ed efficacia prosodica, o il trentenne Rancore (d’altra parte non ha senso entusiasmarsi quando si legge nei libri di testo che la poesia in volgare nasce nell’osteria, nell’invettiva e nel lirismo erotico e rifiutare una forma che, in modo apparentemente inconsapevole e casuale, riproduce questa origine spontanea – e la spontaneità e l’inconsapevolezza mi sembrano grandi punti di forza di queste nuove forme artistiche che paiono ignorare, disinteressandosene e di conseguenza disinnescandolo, il peso della tradizione letteraria occidentale). Rancore peraltro ha partecipato all’edizione che si è appena conclusa del festival di Sanremo e ha visto la vittoria di Soldi del trapper Mahmood, a cui ha fatto seguito una settimana di curiose polemiche sul golpe della giuria radical chic che avrebbe sovvertito il volere popolare, sfavorendo le altre due canzoni finaliste, Il ballo delle incertezze di Ultimo e Musica che resta del Volo, che avevano preso molte più preferenze nella votazione telematica finale. Al di là dell’assurdità delle polemiche in sé (ad ogni modo se esiste un regolamento che prevede che una giuria abbia facoltà di influire sul verdetto finale è ovvio che ciò poi possa accadere e contestarlo a posteriori è bislacco) e dall’orrore dell’abuso del termine radical chic in chiave dispregiativa (una demonizzazione assai meno innocua di quello che può sembrare a prima vista) mi chiedo come si possa far apparire per afferente a una nicchia intellettuale e staccata dal mondo, quello che ora è il genere commercialmente più solido ed in espansione in Italia, la musica trap. Esiste sempre un’ulteriorità del paese reale? Esiste un paese “più reale” del precedente “paese reale” rispetto a cui il grado che viene prima è sofisticato e gauche caviar, in una scala che, per restare nell’ambito musicale (che vale qui da esempio paradigmatico di un fenomeno che potrebbe estendersi a tutti i campi della vita dell’Italia), parte dalle Luci della Centrale Elettrica, e non finisce con il Volo, perché il grado successivo sussiste sempre?
Quanto è pericolosa l’idea che i molti, specie se parlano come mangiano, abbiano sempre ragione e cosa può portare nel futuro immediato?
E per quanto a volte lo sguardo possa essere annebbiato dall’oscurità del tempo presente, che scolora gli oggetti della vita e sembra rendere lecita la disperazione, è la stessa incertezza sul futuro a fornire una via d’uscita dal pessimismo, la consapevolezza che ogni previsione è fallace per definizione e che il pessimismo se spinto all’eccesso non ha senso, perché per quanto il genere umano possa un giorno estinguersi e il sole smettere di riscaldare, la positività della vita, dell’esistenza, non può venir meno e non può essere messa in discussione.
Provo una certa ritrosia nei confronti delle biografie cinematografiche e televisive, che oggi sono per lo più chiamate biopic, ho l’impressione sconfortante, prima di vederle, di conoscerne già il contenuto, ma poi quando le guardo il più delle volte suscitano in me esaltazione e commozione. Ed è quello che mi è successo, pochi mesi fa, trovando per caso in televisione un film che avevo evitato quando era uscito al cinema: L’ora più buia, dedicato a Winston Churchill nella seconda guerra mondiale. A epigrafe del film è posto un suo aforisma che mi pare possa andare bene anche per questo diario, parole che nella loro apparente icastica chiarezza, hanno un valore equivoco e doppio, confortando nel dolore e ammonendo nella buona sorte:
Success is not final, failure is not fatal: it is the courage to continue that counts.*
*Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale; è il coraggio di continuare che conta.
Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980. Ha pubblicato le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod, 2008 – Premio Mondello per l'Opera Prima), Canti dell'abbandono (Mondadori 2011 – Premio Carducci e Premio Palmi) e il memoir Come un giovane uomo (Marsilio 2018 – selezionato al Premio Strega). Lavora nell'editoria.