In anteprima dal nuovo libro di poesia di Carlo Carabba, “La prima parte”, in uscita per Marsilio, pubblichiamo quattro testi.
QUI E MAI ALTROVE
Se l’energia è prodotta dal quadrato
del corso della luce e della massa,
se si diffonde su una curvatura
perfetta ed infinita
dal centro alle sfere più estreme
di un universo chiuso e limitato,
io resto testa all’aria
tra i moti corruttori
del mondo sublunare.
Il cielo su di me è parete
un vetro, una finestra.
Lo sfondo di un dipinto
profondo a nord lontano
e a sud disteso e largo.
Posso partire e non allontanarmi,
conosco solo il qui e non il là
e ogni distanza coperta vuol dire
nuove distanze da coprire.
E sono sempre dove
sono e mai altrove,
e porto ogni mio bene
e porto ogni mio male.
CIELO AUSTRALE
È il dieci agosto e i corpi sono stelle
scendono per il corso
tra le luci dei bar dei ristoranti
per turisti. Disteso
aspetterei il passaggio
delle Nereidi invece
cammino lentamente arrivo in piazza.
Di quanti incontro
immagino le storie – e sbaglio sempre.
Degli uomini degli astri
so ogni cosa, leggi dei moti
assi di inclinazione
le fasi della vita
e di dissoluzione. Non conosco
più di quanto rivelano
la materia e i principi
di un universo ardente sempre opaco.
Se mi spingessi oltre
sarebbe lo stupore
della vedetta sola e silenziosa
la prima notte australe.
L’ECLISSI
C’era l’eclissi. Ma
il cielo di città era senza stelle,
e come sempre troppo
luminoso. Verso le due, due e dieci,
la luna e il sole avrebbero dovuto
ritrovarsi in asse, l’uno
di fronte all’altra. Alla finestra
gruppi di persone, oppure ai balconi
sopra la tangenziale.
“Dov’era la luna?” che il cielo
chiudevano i tetti in cemento
e tutti tendevano avanti
la testa e il collo, per vederla meglio.
E anch’io. L’ho vista farsi rossa.
Ho abbassato gli occhi. Un lampione. Solo,
padrone della scena
pareva lui la luna
in una notte buia. Illuminava
le geometri essenziali
delle periferie, e mi chiedeva,
muto, che c’entrava la luna,
l’eclissi e il moto dei pianeti,
con tutti quei palazzi e quelle strade.
DISCENDENZA
Quel che rimane della vita sono
i fatti, eventi registrati
se importanti.
Quel che non resta sono i sensi
esterni e interni
nascosti dai sepolcri e dall’oblio
di quanti non conosco,
perché lontani morti o nascituri.
E anche dei miei cari non immagino
l’infanzia quando non l’ho conosciuta,
non penserà a mio nonno mio nipote,
se mai ne avrò, che io
non ho pensato al nonno di mio nonno.
Se vivo è per amori
dimenticati e amplessi ripetuti –
risplendettero davvero bianchi i soli
sopra i miei cari estinti.
Da un letto di ospedale
mia nonna ha chiamato sua madre
nel sonno e mia ha svegliato.
(Le sono andato accanto
non ce l’ho fatta a dirle
“Va tutto bene, nonna, guarirai”.)
Di me resterà traccia
a lungo nei registri
delle burocrazie statali,
lascerò un segno quasi eterno
nel ciclo del carbonio. Ma quanto avrò provato
andrà perduto quando
non ci saranno quelli
che su di me hanno pianto – e io su loro.
Succederà lo stesso
ai frutti smemorati del mio seme
e ai loro frutti e ancora
la notte il buio e il freddo
e il sole
di giorno ancora il sole.
Un giorno sarò morto e intanto vivo.
Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980. Ha pubblicato le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod, 2008 – Premio Mondello per l'Opera Prima), Canti dell'abbandono (Mondadori 2011 – Premio Carducci e Premio Palmi) e il memoir Come un giovane uomo (Marsilio 2018 – selezionato al Premio Strega). Lavora nell'editoria.