“Dopo l’Apocalisse” è un capitolo, dedicato alla raccolta “Conglomerati” di Andrea Zanzotto, dal libro “Il gioco infinito della poesia. Saggi sui contemporanei da Ungaretti a De Angelis” di Luigi Tassoni, uscito nella collana “SagUni Riflessi” di Perrone Editore. Ne proponiamo un estratto.
“La climax di Conglomerati”
Conglomerati è libro di attraversamenti e di ritorni su luoghi e temi cari all’intera esperienza poetica di Andrea Zanzotto (nota 1), e il titolo manifesta la visione di un mondo che si fa, si disfa e si conforma, come il paesaggio che, conglomerandosi, si rivela materia promiscua, aggregata, sovrapposta, elemento su elemento, segmento su segmento, sasso su sasso. Prima di addentrarmi nella lettura dei testi, com’è mia intenzione anche in questo capitolo, mi pare ancora necessario aggiungere alcuni cenni sugli elementi nodali che nel libro stesso producono una fitta rete di relazioni, connessioni, ripetizioni, e che, se non chiariti nella contestualizzazione generale, renderebbero senz’altro meno agevole, se non addirittura impossibile, l’approccio del lettore all’interpretazione di ogni singolo frammento considerato isolatamente. Più nel dettaglio, Conglomerati rinvia costantemente a una serie di spazi rivisitati e riattraversati da nuovi fantasmi così come da figure familiari e testimoni cari da sempre al discorso di Zanzotto. Ad esempio, in Il cortile di Farrò e la paleocanonica, che ne è la terza sezione, si ripercorrono ambienti legati alle origini dell’immaginario zanzottiano (per questo titolo nel testo specifico si parla di «fantasma presente», TP, p. 1022), che ogni lettore non faticherà a far risalire ai tempi dei primi libri, ennesima riprova di intertestualità adattata alle mutazioni. Fra parentesi, teniamo conto che il riferimento al «feudo sbarrato» (TP, p. 1017) origina la complessa riflessione, una sorta di confessione metapoetica, sul luogo inaccessibile entro il quale l’io è imprigionato, o si è imprigionato con le sue stesse mani («da dietro la grata, dalla mia passione generata», TP, p. 1019), restando in attesa spasmodica del nutrimento, catturato nel circolo vizioso, e ora tossico, da Carità romana, tema ripreso da Sovrimpressioni (2001), che mette a nudo la continuità perversa del nutrimento offerto ai padri dai figli che a loro volta lo ereditano nuovamente come veleno. Il feudo idealmente incorruttibile e irraggiungibile, anche come spazio di riferimento, che dà senso, è barrato dalla grata come il discorso che con difficoltà il poeta riesce a liberare, aggirando l’interdizione, o forzandola, con le mani-manes che potrebbero rimuovere la grata e parallelamente catturare qualcosa con una rete, la rete del linguaggio. Ebbene, in questa terza parte del libro un nucleo di sette poesie è raggruppato sotto l’etichetta di Lacustri (TP, pp. 1031-1042), con riferimento ai laghi, ai laghetti, e soprattutto al piccolo lago di Revìne che supponiamo sia lo scenario dell’avventura coraggiosa e sfortunata di un personaggio insolito nell’opera di Zanzotto. È la Silvia di Gentile e forte creatura della Vallata, la stessa di cui si parla, anzi a cui si parla nella poesia successiva, Silvia, Silvia là sul confine, ultima del gruppo, quella Silvia animata dalla passione e dal fuoco, che contribuiscono ad aggirare i «saggi diktat di famiglia». Ecco ancora un’interdizione, o una variante del macrosema ridistribuito nel libro, questa volta affrontata dalla ragazza con un attraversamento del lago e dei suoi silenzi, nuotando come una sirena fra gli dèi, nel primo testo, e nell’altro entrando nei misteri della difficile lingua ungherese, particolare da cui scatta un frammento di memoria, che orienta il discorso sul saluto, sull’allontanamento e sull’addio, come avviene all’inizio del libro. Silvia è una di quelle figure portatrici, nell’immaginario lacustre, di una memoria che sorge dal futuro, per ripetere quasi alla lettera espressioni che si intrecciano nella scrittura zanzottiana alla sua esperienza di partecipe lettore di Hölderlin, figure insomma che trasgrediscono un limite, sfidano il futuro e contemporaneamente portano in se stesse una porzione di passato come memoria. Scrive il poeta proprio a proposito di Hölderlin:
Vi è la necessità di un costante «attraversamento-ricupero» pacato eppure febbrile, da intendersi come nel «gioco di parole» heideggeriano tra Andenken e denken an, nell’accezione di
una memoria che sorge dal futuro di questa sfida (nota 2).
[…]
“Parola, silenzio”
Un altro testo di Conglomerati concorda con gli effetti messi in azione nel libro […]. Si tratta di Parola, silenzio (TP, p. 1119), collocata in coda alla sesta sezione del libro, quella dei Versi casalinghi, precedente l’appendice delle due Disperse, poesia che completa il nostro discorso sulla resistenza della parola, malgrado il disfacimento dell’essere, parola che si nutre di silenzi e veleni, e così profila un insospettabile destino di sopravvivenza. Ecco i versi:
Siccome un bel tacer non fu mai scritto
un bello scritto non fu mai tacere.
In ogni caso si forma un conflitto
al quale non si può soprassedere.
Dell’ossimoro fatta la frittata
‒ tale fu la richiesta truffaldina ‒
si diè inizio a una torbida abbuffata
del pro e del contro in allegra manfrina.
Sì parola, sì silenzio: infine assenzio.
Il tono giocoso degli endecasillabi delle due strofe principali, risolto con l’anomalia del verso di chiusura, ruota intorno al motivo del «conflitto» tra il tacere e il parlare della scrittura, fatto risalire per tradizione all’ossimoro del dolce assenzio, quello della lingua per estensione nutrimento e avvelenamento allo stesso tempo, che è uno dei motivi portanti del percorso di Conglomerati. Con facile memoria, persino scolastica, possiamo riandare a «lo dolce assenzo d’i martiri» di Dante (Purg. XXIII, 86), nel famoso incontro con Forese Donati; o al motivo del «cibo assentio et tòsco» (R.V.F., CCXXVI, 6) di Petrarca, come anche all’inversione come mutazione piena, di «e ‘l mèl amaro, et addolcir l’assentio» (R.V.F, CCXV, 14), che nello stesso sonetto deriva da e rima con «et un atto che parla con silentio» (ivi, 11). Come a dire che Zanzotto conclude il gioco seriamente, rammentando al lettore, appunto nel verso finale, la complementarietà coincidente fra parola e silenzio, intrecciati e compresenti nel discorso fino a diventare traccia amara e tossica, vitale e mortale a un tempo, poesia che costruisce e decostruisce, fa ricordare e stravolge fino a trasformare la memoria stessa, poesia che è parola, che è silenzio, che è anche assenzio come amara illuminazione sui veleni e sul disfacimento in atto. D’altra parte la medesima traccia ha lontane origini in Zanzotto, a partire da quei versi solo apparentemente innocui e testimoniali di Dietro il paesaggio, appartenenti alla poesia Assenzio: «Verso i monti delle alpi/ torna azzurro ed assenzio/ di venti, torna ai campi/ la sagra del silenzio» (TP, p. 35), là dove pericolosamente assenzio rima con silenzio, perché il pericolo sta nell’ascolto del silenzio che toccherà alla parola e al discorso metabolizzare, senza opposizioni. E inoltre pensiamo alla sesta delle esemplari IX Ecloghe che ci porta davanti a un «mare di scorie nascite delizie» (TP, p. 207), dove siamo un passo davvero avanti: «Credi. Come io contro tutti/ i silenzi crederò:/ solo, tu mai non credere/ ad alcun mio silenzio/ ad alcuna mia assenza ad alcuno/ mio non-poema» (TP, p. 208); qui dove il silenzio fa parte del gioco del discorso, del gioco della poesia nella quale l’io esiste, mentre la presenza come l’assenza non potrebbero essere credute né comprese se la parola tacesse. Con la prospettiva di un tale contesto, teniamo conto che nella figura di Silvia, per i testi in precedenza analizzati, coesistono silenzio e parola, mutismo e lingua, memoria e futuro, strettamente connessi e relazionati. La quasi conclusione scherzosa di Conglomerati, «Sì parola, sì silenzio: infine assenzio», è affermazione della parola equivalente al silenzio, compresenti e inscindibili in ogni caso, connessi in questo tracciato alla riappropriazione del valore del linguaggio nella sua totalità motivante: così come la parola dolce della poesia è anche assenzio, il silenzio è parola, e l’assenzio della parola e del silenzio diventa infine estrema cura, nutrimento, sapore del discorso che non si sottrae al suo amaro compito di affermazione del presente, comunque esso sia. Parola, silenzio e assenzio sono gli ingredienti irrinunciabili della poesia, e non solo della poesia di Conglomerati, sfida provocatoria all’eternità e affermazione di eternità. Zanzotto, poeta inesauribile e sorprendente, che fa riflettere il linguaggio non solo sopra il linguaggio, che fa riflettere la poesia e non solo sopra la poesia, assegnandole uno spazio del tutto nuovo e fuori confine, rientra anche per questo nello sceltissimo gruppo di coloro per cui si potrebbe dire, come scrisse nel 1929 Samuel Beckett per Joyce: «His writing is not about something; it is that something itself» (nota 3).
NOTE:
1. A. Zanzotto, Conglomerati, Milano, Mondadori, 2009; poi in ID., Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano, Mondadori, 2011, pp. 949-1126. Cito sempre da quest’ultima edizione con la sigla TP seguita dall’indicazione della pagina.
2. A. Zanzotto, Con Hölderlin, una leggenda, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Milano, Mondadori, 2001, p. XVIII.
3. S. Beckett, Dante… Bruno. Vico. . Joyce (1929), in ID., Disjecta. Miscellaneous Writings and a Dramatic Fragment, edited by R. Cohn, New York, Grove Press, 1984, p. 27.
NB: Non è stato possibile, per un inconveniente tecnico di cui ci scusiamo, riprodurre con fedeltà tutti i caratteri dell’originale: si rinvia all’edizione cartacea.