“Corpo striato” è il primo libro di Riccardo Frolloni, uscito nella collana “Poetica” a cura di Gabriel Del Sarto e Niccolò Scaffai, per Industria & Letteratura Edizioni. Potete leggere di seguito quattro poesie.
“sogni V”
Un giorno ti porterò quassù dove si vede
un panorama bellissimo, le vallate tra i monti
ci affacceremo all’alba con la quasi luce
sarà come vedere un film lentissimo e farà freddo,
è qua che voglio essere seppellito,
ricordo da piccolo
una quercia carbonizzata da un fulmine, rimase lì per anni
e ancora nell’ambra della memoria,
sarà così questa morte, mi prenderà alle spalle
sarà una morte normale,
questa mattina
non deve mai iniziare, parlami di te un po’
la volpe s’è appena addormentata, la notte è stata lunga
il cimitero non ha spazi, puoi leggere tutti i nomi
torniamo a dormire che è ancora presto
torniamo a letto.
*
“sogni VI”
La montagna era sempre stata presente
di una presenza che agisce per sottrazione,
sono le sette di sera e come oscura il cielo stranisce l’erba,
siamo scesi e l’aria era quella, ancora un po’ di ghiaccio sui campi,
la notte non si capisce da dove viene, lei lontana vuole stare da sola,
la seguo, penso a quanto possa pesare una montagna, a quante cose
non si vedono eppure esistono, gli impianti fermi, la capannina,
in alto su tutto il ripetitore come una ragnatela
ma la notte non si capisce, accade e subito
si alza un vento che impazzisce, comincia a nevicare
nevica forte a vento, lei si volta, ha un cappuccio calcato sul viso
e i capelli volano, i suoi capelli rame si appiccicano alla faccia tra i denti
dice
nevica
è rimasta così a lungo, in poco tempo nuova neve era sulla vecchia
e i nostri passi lasciavano impronte, siamo tornati indietro
cominciai a sognare spesso il suo sguardo bianco,
incontravo mio padre da qualche parte in città, mi regalava dei soldi e io li perdevo.
*
“movimenti X”
La famiglia di mia madre porta un lampo bianco nel discorso della storia,
gli occhi
gli occhi sono più tristi e poi
scoppi di rabbia, isterica, quasi
tenera –
me ne accorsi un giorno mentre ero in terrazza e pensavo
la differenza che li percorreva e qualcosa in comune pure ci doveva essere –
tante di quelle cose infine le ho
rimosse e riscoperte dai racconti,
come letteratura,
mia madre al tempo aveva occhi fantasma,
un’ombra leggera che proprio non si vede
perché vivendo c’è sempre vento.
*
“memoria 0”
Ovunque una luce troppo rossa di tramonto. Venivano coi furgoni aperti dalle travi, ricordo
la resina si appiccicava alle dita una volta e per sempre e io correvo coi sandali, coi piedi grigi
della strada davanti casa vecchia: costruivano il portico, avrò avuto 2 o 3 anni e questo
è il punto più remoto, più vicino al sogno, così quelli dei ladri, dei labirinti, degli alieni.
Unico invece come una mano bianca il terremoto del ‘97 e mia madre che mi trascina
per le scale e la crepa sul muro, di fuori gli alberi soffiano un vento invisibile e i coppi
volano via come i pensieri, tutti svuotati di paura. Dell’assenza di mio padre mi accorgo
venticinque anni dopo quando lei mi chiede, se non di questo, di cosa scrivo, non so, non ricordo,
mi sforzo di comporre una narrazione lineare ma la linea è spezzata, diventa un delta di possibilità,
pure il limite col sogno è incerto e tutto il male si magnifica e si scarta, allora ogni parola o gesto
significa più nel non detto, nella logica della sottrazione e del signatura rerum. Per cui una falcata
aerea tra ciò che vedo e ciò che sento, dove sentire è lettera muta e resta come un soffio
costante tra gli stipiti di casa, quasi una casa senza porte e un’unica grande finestra dalla luce
grigia, senza cielo, senza ostacolo, la mia infanzia disabitata, nessuno, non ricordo un gesto
un colore, un vestito, affiorano i capelli neri di mia madre incrostati di sangue quando per il panico
sviene e si spacca in due, ricordo la costante chiazza bianca esatta al centro della testa
di mio padre e già mi sfugge la sua voce, ecco l’amnesia, questo mulinello continuo che inghiotte
le paure, le debolezze e col tempo rimane solo il bello, la storia comune, di piccole cose
lampi, e così mi penso un bambino triste con un’infanzia felice, ovvero, l’inizio della corsa,
ma quando la corsa si arresta non capisci, non ricordi più cosa c’era di triste, se le montagne o le strade
buie di notte, perché i ladri entravano in casa, come un corridoio diviene un labirinto, le ombre col fiuto del sogno
si arrampicano sugli alberi per entrare dalla finestra, porte scassate con ogni specie di spuntone, oppure
vortici di scale, in salita o in discesa, strade drittissime ad infinitum, occhi di animali abbagliati nella notte,
urla che rimbombano dai pertugi, il cuore all’impazzata a picco giù nel gorgo degli scalini. Una volta
d’inverno attraversando il fiume gelato scorsi in lontananza una lunga fila perpendicolare di sagome
nere, le grossa corna di venti yak selvatici rimasti imprigionati dal ghiaccio formato all’improvviso
mentre guadavano il fiume, dallo spesso cristallo trasparivano immobilizzati nella posa del nuoto,
le teste rimaste al di sopra della lastra, sarebbero sembrate vive se gli uccelli
non ne avessero già beccato gli occhi, ora nebbia, bugia, come una schiuma si espande e riempie
ogni angolo della storia, oggi la chiamo fiction e la domino, me la dico, mi sottraggo per dire ancora
qualcosa di sensato, per gli altri più che per me, cercando rispecchiamento, io negli altri, quel due
che ho mancato troppo presto, quando a casa le stanze erano piene d’odio, iniziai a immaginare
il mio funerale. Scendevo imbrattato di neve dalla montagna e sarei voluto sparire, ma come ogni autolesionista
era più il desiderio di sfoggiare e vedere, la tecnica del mimetismo, non spiegabile soltanto con la lotta
per la sopravvivenza, troppo raffinata per limitarsi ad ingannare predatori casuali, piumati, squamati,
la quarta parete. Mancato il primo si precludono gli altri infiniti riflessi o conferme e tutto si trasforma in rabbia
e repressione, ce l’avevo con la chiesa, con i parenti, lo stato, la società dell’apparenza, non mi piacevo, divenne
onnipresente la bruttezza, la pelle, mi coprivo la faccia, mi dicevo pochi come me, dovevano scoprirmi,
loro, le donne, sapevo scrivere la poesia, nelle parole gigantesco si nascondeva il conflitto, parole come:
oblio, torrenziale, abbraccio, o qualcosa di più esatto come Anita e dunque identità e proiezione
della lotta, e più che della lotta, della sua mancanza umiliante: quanto ho corso su di loro, per loro
a dimenticarmi, non sapevo, non ricordavo, in casa poi si son fermati tutti gli orologi. La costruzione dell’identità
e l’uscita dalla nebbia, proprio quando diventano dominabili i ricordi sbiadiscono
come lenzuola stese al sole ad asciugare. Protetti dall’oblio invece conservano la loro forza, sono in pericolo
come ogni altra cosa vivente. Quando si arresta la corsa ci si accorge che il mulinello vortica ancora ma
con spirali più larghe, tanto che il moto perpetuo era stasi e il lago troppo grande per non sembrare mare,
i satelliti tutti intenti a girare su se stessi e mai attenti alla grande forza centrale, al fuoco. E così si possono
dividere in due categorie: duro e dolce. Il noce, il faggio, le foglie larghe, mentre l’altro più facile da accendere
ma si consuma in fretta, di solito conifere o sempreverdi come larice e pino. L’importante è che la legna
sia ben stagionata e asciutta o a forza di diavolina e giornali riempi la casa di fumo. Quello della mia infanzia
era noce, legno pregiato, quando brucia emana un profumo intenso adatto per cuocere pane e dolci, ma per un lampo
un albero è senza storia, è solo attraversamento, per un uomo invece è una mano nera, aperta, carbonizzata
nell’ambra della memoria. Nella dimenticanza ho trovato la forza. Nella confusione delle direzioni o nel magma,
nello scioglimento dei soggetti, dimentico e perciò narro, costruisco, mi metto <controvento, con gli occhi
rossi per gli schiaffi, continuo. Ma quando la corsa si arresta non capisci, non ricordi più di che cosa correvi.
Provi di nuovo ad ingannarti, ma stavolta la tecnica si svela, si vedono le impalcature e la naturalezza
non ha più lo stesso aspetto, anche nel giardino vedi sofferenza, le fibre sono strappate, sfinite, soffoca un fiore
per fare spazio a un altro fiore e questo viene battuto, schiacciato da un piede e nessun grido.
C’è la foto di Graziano a fianco quella di Mirko, il compagno di Lena, ha le braccia spalancate e due o tre
pappagalli sopra, ride diritto, Mirko invece guarda altrove, il taglio è laterale, dall’alto, e solo due lune di pupille.
A questo altare si è aggiunta la foto di mio padre, come se il tempo possa essere congiunto arbitrariamente
e quei giovani possano ora bisbigliare la notte alle orecchie sopravvissute di chi gli sta davanti, e tu
li sai lì insieme, possono dirti tutto, ormai senza misteri.
NB: Per problemi tecnici non è stato possibile riportare alcune spaziature e alcuni caratteri del testo originale. Ci scusiamo per l’inconveniente.