Da “La materia dei giorni” di Marco Corsi, da poco uscito per Manni, pubblichiamo il poemetto QUETZALCOATL
il nastro si riavvolge lentamente
fra le spire del magnetofono
davanti allo schermo si levano
boschi di verde, uccelli e altre bestie
randagie che migrano di notte in notte
col clangore del metallo.
sarà per la tua astuzia di colomba
oppure per l’inerzia ignominiosa del silenzio,
ma stanotte fischia nell’orecchio
la leggenda dell’esserci nel tempo
e mentre intorno granisce l’amaranto,
fiorisce l’ibisco, mentre crescono nel buio
le orchidee che generano frutto,
si ravvivano nel sonno argani e cavi
per dare voce al paradiso.
è tormentato il ricordo, e a volte audace
la consolazione del rimorso:
llevo el Sur, ancora un passo,
como un destino del corazon
e siamo tutti insieme
in cerchio sull’abisso.
sul nuovo corso degli eventi,
si affaccia l’ombra imponente
di un fiore capovolto:
agli antipodi il tempo
mostra fiero le sue radici
di tuberi e serpenti.
ecco che quasi piumata
la musica delle sfere celesti
avvolge fra le sue spire
il docile pianeta azzurro
e sento muoversi nel ventre
un caldo d’umido e trementina
che dà colore alle vegetazioni.
il caldo qui non è naturale,
non esiste più la tensione
inflitta agli uccelli di passo:
il nastro si è interrotto,
ancora per poco abitiamo
una scaglia luminosa d’infinito.
ricordo che quando insieme con molti altri
eravamo bambini nel medesimo stagno
si vedeva talvolta dischiudersi nel vento
l’opera ineffabile di un verso: un filo nero
nel moto meccanico del mondo.
la vita, mi ripeto, ha il peso specifico
dell’aria, i segni della terra e del fuoco,
l’abbondanza dell’acqua,
venature finissime di sangue e corallo.
quasi fosse un frutto incessante del buio
giunge puntuale a compimento
l’architettura perfetta del carbonio
che ci unisce e ci separa
in epoche diverse:
nei momenti di più fausto bollore
siamo terre emerse
pullulanti di vermi,
carne, oceani, schiere di fossili
perfetti che brillano
nell’animo nostro iridescente.
potevi immaginare una separazione
più grande? un uomo e una donna
oppure due simili nella stessa specie
piantano decisi nella terra scura
una lunga fila di respiri
offrono al pianto protezione
dall’istinto dei rapaci
perché becco non separi
ciò che volontà ha creato
senza caso né consolazione.
credevi che ancora a lungo
sarebbe rimasto diviso il bene
dal male, la stellata perfetta
dall’arido nulla?
nell’eterno ritorno dell’oggi
ci muoviamo come corpuscoli
in cerca di materia originale.
torniamo dunque alla casa grande
tra i palchi e i rami della famiglia
dove i gesti ricalcano le mani
e le parole crescono di bocca
in bocca. vedi, c’è ancora l’aia
l’odore di tino e spremitura
la stanza in cui mani sconce
salavano parti di maiale,
la scala dove stava appesa la bestia
per lo scolo del sangue e prima ancora
l’eco dello sparo nei giorni
della festa, quel pianto di bambino,
una breve fuga nel bosco
e il chiodo puntato nella testa.
nella stagione calda con teli di plastica
si costruivano scivoli sull’erba
e piccole piscine contornate di sassi
per il battesimo e per la morte
del giovanile entusiasmo.
senti ancora, odi le voci del giorno
in cui ti allontanasti in bicicletta
provocando molto dolore
che adesso non parla più
a nessuno, o il calcio al pallone
che colpì in pieno petto
l’amore fanciullo di un fratello.
ma cos’è questo se non l’omissis,
l’assalto di ciò che non è detto?
ti chiedi spesso cosa del racconto
finirà per attestarti in quanto vita,
e non è ancora finita
l’indubbia trenodia dei lutti.
c’era anche un prete, lo so,
poi scomparve, di lui conservo
alcuni libri per sempre.
come venire a patti, ora,
con certe illusioni? un falchetto
si aggira da giorni davanti alle finestra
fra le immagini che spande implacabile
la luce del televisore. a quel rapace
io vorrei dire un poco di artigliarsi
sopra la fibra tenera del cuore,
68di non fare più rime, di non cercare
altrove che qui il senso delle cose
da cavare, giorno dopo giorno,
per finalmente splendere
ripulito fino all’osso
nella più breve trasparenza.
tu ed io, in fondo, siamo
la stessa cosa, e questione
d’oggi è circoscrivere
ciò che invece ha da essere
immesso in un progetto
più grande. caelum,
non animum mutant
qui trans mare currunt,
orazio, epistole, libro primo.
fra i turisti, ricordi?, correva
la voce del morbo di Montezuma
e anche per noi pellegrini della vita
c’era un programma da rispettare.
Correva l’anno 1519 quando Hernán Cortés
salpò da Cuba armato di uomini e cavalli
per spostare a occidente il sole dell’impero.
Con luce accecante sbarcò in Veracruz
e qui videro in lui barbuto il dio Quetzalcoatl
finalmente giunto tra i suoi come spada
nelle tenebre. Ma diverso fu il battesimo
delle anime primitive, altro l’avvento
che piombò sulle vite già incandescenti
in focolai sparsi: peste, vaiolo, escherichia
coli, salmonella shigella giardia lamblia
roravirus calicivirus enterovirus.
Nulla poté alcuna virtù moderna
contro la sete divina di sangue,
costretto l’antico con l’inganno
a bere nudo in ginocchio
oro colato e fuoco e fiamme.
i turisti si rinfrescano con ventagli
di carta, bevono bottiglie ghiacciate
d’acqua potabile, i più impavidi
sperimentano estratti di frutta
dissetanti, e tutto l’orrore intorno
soffocato con estrema indifferenza
dal viola maestoso della jacaranda.
impavidi a sera spegnemmo la luce
e come abili trappisti imparammo
a tagliare quel seno malato di terra
che ci abitava da sempre
per fabbricare morte e comete.
quando la mano sfiora il campo magnetico
del mondo, un fiotto di note più acute
fuoriesce dalla rete infestante che trattiene
questi esercizi elementari di vita e di morte
e di morte con la vita. come un ragno
che ritesse di corpo e di miele
lo strappo infelice del niente
non pensi adesso né al bene
né all’inevitabile gioia
di un male certo, non all’osso
né alla colpa di sfarsi
o di restare in equilibrio
sopra l’acciottolato smosso
senza cedere al presente.
la natura, mi ripeti, è un oggetto
consumato su cui crescono
cattedrali d’infezione e coralli
e allungato guardi con orrore
il gonfiarsi d’acqua dei corpi
mai ricondotti a riva
da una provvida catena di mani.
è dunque dentro, è fuori di noi
quell’andirivieni perenne
dei giorni, serpeggia come una febbre
poi all’improvviso si fa seme,
esplode in germoglio, in albero,
e di volto in volto, borghese o silvestre,
è tetto, è antenna, è satellite,
è guidatore di stelle interspaziale
lanciato in orbita con bianca navicella
per cercare una voce aliena.
è crescere con calore costante
il pallido bambino interiore
afflitto dal grande incantesimo
della mondovisione, è la morale
consolazione dell’indiscreto,
il necessario mandato di essere viventi.
ora la struttura di cemento è sangue e vene,
questo grande corpo che ti dorme accanto
diventa un ponte tremolante sull’eterno
e tu lo penetri come una consolazione
da parte a parte, inevitabile e presente.
della primavera trascorsa insieme, dell’estate
appassita appena in tempo, del freddo
per sempre invisibile agli occhi
mi restano piccole canzoni provenzali
che vorrei felicemente disperdere
ripetendo parole di tungsteno:
Mostrami il mondo, mostrami la gente,
come una lampadina da cinquemila watt…
si torna sempre, infatti, al punto di partenza
con l’alba misericordiosa, traslocando
nel ritmo incessante delle cellule
una parte oscura di bellezza.
finché stretto fra le mani potrà resistere
l’affanno di cercare un senso
per tutto ciò che esiste e che ci preme:
un pezzetto d’ambra
che porti dentro il ricordo
degli antenati e dei popoli futuri.
il poema è potenzialmente infinito.