“Ridatemi la mia infanzia,/quella repubblica di passeri garrulli,/le smisurate selve di ortiche/e il pianto notturno del timido allocco/… //Adesso, oramai, saprei sicuramente/come essere bambino, saprei/come guardare gli alberi coperti di brina,/come vivere immobilmente”. Ecco uno dei passi delle dieci poesie di Adam Zagajewski, poeta Polacco nato a Leopoli nel 1945, più volte candidato al premio nobel per la letteratura, pubblicate in volumetto nel 2017 dall’editore Raffaelli dal titolo Il “fuoco eracliteo” nel giardino d’inverno per la cura di Alberto Fraccacreta e traduzione di Marco Bruno corredato tra l’altro di cinque rilevanti contributi critici all’autore.
Adam Zagajewski sappiamo quanto conti per lei nei suoi libri la memoria individuale dentro quella più ampia di una comunità ma la poesia oggi, nei magnifici tempi della progressione tecnologica, è capace ancora di ricercare il luogo della memoria o anch’essa è troppo distratta?
Non tutto è cambiato. La tecnologia, certamente, è cambiata molto ma noi siamo sempre gli stessi, dormiamo e abbiamo dei sogni, amiamo e a volte qualcuno ci ama. Lentamente camminiamo per i musei, guardiamo i dipinti realizzati cinquecento anni fa e vi troviamo dei volti che ci ricordano i nostri cari e amici. Non credo che la tecnologia abbia mai ucciso la vita interiore. Gli introversi si difenderanno, si difendono da molto tempo…
Il grande novecento polacco con i suoi alti rappresentanti, quali Miłosz, Herbert, Szymborska, ha scosso per forza e visione tutta l’Europa. La poesia contemporanea si è posata prevalentemente in Polonia, perchè?
Non conosco una risposta risolutiva a questa domanda, così è successo… La Polonia è un paese strano – si trova sul fianco orientale dell’Occidente, tuttavia si considera parte dell’Occidente, ma sconta alcuni complessi, d’altra parte ha una grande cultura russa, grande, ma sospesa nell’aria, non avendo contatti con la realtà politica, con il despotismo. Forse la perifericità ha anche alcuni vantaggi – in questo caso (forse) ha permesso che il modernismo, già leggermente formalizzato, della poesia dell’Europa occidentale si saturasse di emozione, ma in modo tale da non perdere la tensione intellettuale. Forse.
Nella sua poesia Autoritratto uscita nel libro Dalla vita degli oggetti (Adelphi, 2012) a cura di Krystyna Jaworska, dice: “Talvolta mi parlano i quadri dei musei/ e allora l’ironia svanisce all’improvviso…”. L’opera d’arte può essere costruita anche con l’ironia?
Non sono un così radicale oppositore dell’ironia – o dello humor, che è un’altra cosa. Mi piacciono le poesie di Cummings, leggo attentamente Larkin, penso che nelle mie poesie si trovi molta ironia e un po’ di humor. Ma penso che la base di tutto debba essere comunque la serietà – un atteggiamento critico verso il mondo. Né più, né meno.
Sempre nel medesimo libro, nella poesia, Addio ad Herbert, dice: “Mi piaceva immaginarti vagabondo/tra le vette della poesia,…/Ma ti ho sempre trovato negli alloggi angusti/di quei grigi moloch detti metropoli//…”. Le giro la domanda-interrogazione di Hölderlin: “perché i poeti in tempo di miseria?”.
Questa è una domanda molto importante. Hölderlin vi rispose con la sua eccezionale poesia – non smise infatti di scrivere poesie, e se lo fece più tardi, fu quando la malattia lo costrinse a quell’abbandono. Finchè si ha qualcosa da dire, si deve scrivere, si deve sostenere la vita spirituale. I poeti non dovrebbero capitolare – e comunque non spetta a loro stabilire l’ulteriore destino dei frutti del loro lavoro.
Dietro la sua scrittura sembra che parlino tante voci: Herbert, Miłosz, Tadeusz Rozewicz; potremmo utilizzare, per definire tutto questo, la parola latina traditio? o anche quella tedesca überlieferung?
Questo termine è per me importante, sì. Sento le voci di questi poeti che già se ne sono andati e di sicuro non del tutto consciamente conservo qualcosa di queste voci nei miei versi. Sono i miei maestri. Ma sono probabilmente uno degli ultimi poeti in Polonia a trattare così seriamente tali maestri: c’è stata una sorta di ribellione, i poeti di una generazione più giovane di me si sono ribellati contro la loro tradizione, hanno accusato questi maestri di retorica, magniloquenza, moralismo e altri peccati mortali.
Dal suo saggio uscito nel 2012 per l’editore Casagrande dal titolo L’ordinario ed il sublime, cito un passo: “sono come il passeggero di un piccolo sottomarino che non ha un solo periscopio, ma quattro. Uno mi mostra la mia tradizione famigliare, il secondo è puntato sulla letteratura tedesca…, il terzo sul panorama della cultura francese…il quarto è rivolto verso Shakespeare, Keats, Robert Lowell…”; non ha un piccolo binocolo in tasca anche per l’Italia?
Si, ce l’ho, ma non volevo menzionarlo perchè comunque non leggo in italiano, o solo in minima parte. Ho conosciuto meglio queste tre aree linguisitche – e quando ad esempio leggo traduzioni di mie poesie in queste tre lingue posso essere io stesso lettore. Forse ciò vale meno per il francese, i francesi sono tali perfezionisti della propria lingua che malvolentieri lasciano il microfono agli stranieri. Ma quando leggo in inglese o in tedesco, mi sembra per un momento che io sia un poeta di quella nazionalità. Solo per un momento. E ciò mi da un senso di una certa familiarità – probabilmente illusoria – in comunione con la letteratura di questi paesi.
Nella poesia, La musica ascoltata con te, sempre pubblicata per Adelphi nel 2012, i suoi versi dicono: “La musica ascoltata con te/resterà sempre con noi//. Il grave Brahms e l’elegiaco Schubert,/alcuni canti, la terza sonata di Chopin,/…”. Quanto ha contato il suo orecchio, educato all’ascolto, nella attività di composizione poetica?
Contemporaneamente educato e ineducato. La mia storia d’amore con la musica è molto speciale, è una passione non corrisposta, poichè tutti i dettagli tecnici superano le mie conoscenze. Sono un po’ un barbaro totalmente affascinato dalla musica – ma sicuramente al di fuori della cerchia dei professionisti che possono fischiettare le melodie di Mozart o di Brahms. Ma davvero – senza musica non ci sarebbe per me poesia, sono sorelle che si amano molto. Siccome esistono anche sorelle che non si sopportano… La poesia parla un po’ troppo, la musica troppo poco, si completano a vicenda.
Nella Polonia, che nel secolo scorso ha combattuto contro ogni tipo di fascismo e totalitarismo per riavere la libertà di espressione, tornano movimenti xenofobi. La poesia come strumento educativo nelle scuole non è bastato?
La poesia come pedagogia non è mai abbastanza. Analogamente Pessoa non ha fermato Salazar in Portogallo e Rilke Hitler. Sono due mondi diversi. Purtroppo l’amore per la violenza torna in varie forme e in diversi paesi. Nel mio paese succede in modo molto evidente, con il permesso e con l’istigazione del governo, purtroppo. Allo stesso tempo questo sgradevole governo vuole commemorare la poesia di Zbigniew Herbert, poeta della contemplazione, della riflessione – provando a imporre una lettura nazionalista alla sua poetica. Ovvero, paradossalmente, la poesia è importante, ma deve essere fraintesa per giocare un ruolo sociale.
Nel ringraziarla e salutarla ricordo un suo passo dal libro in prosa Tradimento (Adelphi, 2007) che dice: “…la poesia si addice agli emigranti, a quegli sventurati sull’orlo di un precipizio, sospesi con il loro misero fagotto tra le generazioni, tra i continenti…” vero ma sento vibrare nella sua opera non solo la parola di esule ma anche quella di patria, la patria mai perduta dell’infanzia, sbaglio?
Si, lei ha ragione. In più ho due patrie – o anche “piccole patrie” – due infanzie. Una reale, della memoria, ricordando l’odore di erbacce e foglie di pioppo, il parco e la piazza. E la seconda, che non è esistita, a Leopoli, quella città, che è diventata per me interamente mitica, imperscrutabile, misteriosa, meravigliosa.
(Questa intervista è apparsa su “il manifesto” del 21 giugno 2018)
Guido Monti (San Benedetto del Tronto, 1971) vive a Reggio Emilia. Si è laureato all’Università degli studi di Bologna. Poeta e recensore culturale per diverse testate tra le quali “il Manifesto”, il settimanale svizzero “Azione” e la rivista culturale in rete “doppiozero”. Ha pubblicato i libri: Millenario inverno (Book 2007), Accademico di nessuna accademia, conversazioni con Gianni Scalia (Marietti 2010), Fa freddo nella storia (Stampa 2014), finalista con quest’ultimo al premio Pascoli. Suoi versi sono presenti anche in “Almanacco dello specchio”, “Paragone”, “Nuovi Argomenti”. Ha curato per l’editore Demetra collana passepartout (Giunti 2020) la prefazione alla nuova edizione de Il rosso e il nero di Stendhal. È ideatore e curatore dal 2014 di Vola alta parola, rassegna nazionale ed internazionale di poesia a Reggio Emilia.