1. Il primo verso
Il primo verso lo sussurra Dio,
giunge dall’alto come una cometa,
ne osservo il corso quale anacoreta
ansioso di seguirne il luccichio.
Mi sveglia presto col suo mormorio,
una carezza languida e segreta
che mi riscuote come un’aria lieta,
appena un po’ più forte d’un fruscio.
Poi gli altri versi seguono sicuri,
si compongono come un universo
docili nello schema delle rime.
Mi sembra un’abitudine sublime
guardare innanzitutto al cielo terso
per iniziare a scriver versi puri.
2. Per esercizio e disciplina
Dicono che Pier Paolo Pasolini
quando era a Casarsa, di ritorno,
solesse scrivere un sonetto al giorno,
così, per esercizio e disciplina.
Poteva anche sbagliare qualche rima,
ma era importante non saltare un giorno,
per dare senso ad ogni suo ritorno
e perché nulla fosse come prima.
Anch’io frequenterò la stessa scuola:
voglio sperimentare la misura
impietosa dei versi e delle ore.
Mi sottopongo a questa norma dura
per rasentare il bordo del dolore,
e bere il farmaco della parola.
3. Nelle rime dei miei sonetti indie
Voglio scriver sonetti indipendenti
usando le parole quotidiane,
con rime dozzinali e grossolane,
non particolarmente appariscenti.
Io voglio raccontar gli avvenimenti
di tutti i giorni, o quello che rimane,
le mie vicissitudini un po’ strane,
e le tribolazioni più indecenti.
Vi narrerò di mali e medicine,
di notti insonni, affanni e mal di testa.
Saranno versi splendidi, orsù, quindi
attenti alle quartine e alle terzine!
Sarà una baraonda! Ma che festa,
nelle rime dei miei sonetti indie!
23. Ode all’ibuprofene
A volte – capita – non dormo bene,
m’alzo con un feroce mal di testa,
come se avessi dentro una tempesta,
e allora prendo un po’ di ibuprofene.
Dopo mezz’ora – non so come avviene –
il male passa e la stanchezza resta,
e il languore che ho in me sembra una festa
che sul bordo dei sensi mi trattiene.
Sono le mie illuminazioni folli,
in cui costeggio il ciglio della vita
per vivere quei viaggi psichedelici.
Sono vaneggiamenti aristotelici,
una felicità dolce e sbiadita
portata dalle mie capsule molli.
29. Fino a quando felice la poesia
Fino a quando felice la poesia
mi sgorgherà copiosa dalle dita
continuerò a comporne per la vita
come un’ininterrotta emorragia.
Prima che questo afflato vada via
– e prima di arrivar presso l’uscita –
attingere vorrei con la matita
alle sorgenti della fantasia.
Io voglio scrivere un sonetto al giorno,
sarà la mia preziosa medicina,
come il caffè che prendo la mattina.
Sarà il mio litio, la mia olanzapina,
l’ibuprofene, la melatonina,
sarà la buonanotte ed il buongiorno.
33. L’ultimo verso
A volte inizio a scriver dalla fine,
parto dal fondo e vado su a ritroso,
l’ultimo verso è tutto, è il più gustoso,
dà il sapore ad entrambe le terzine.
Risalgo piano fino alle quartine,
sono il palco robusto e vigoroso
sul quale cresce, forte ed armonioso,
il solido castello delle rime.
Nel sonetto c’è tutto un universo
che si dispiega agile e regale
misurato dal ritmo e dal rigore.
Ma non è nulla senza lo spessore
– inamovibile, fondamentale –
che solo gli può dar l’ultimo verso.
36. Tenere insieme i pezzi della storia
Dormire poco, giusto il necessario,
soltanto tre o quattr’ore: fluttuare.
Di notte, avere tempo per pensare;
girare in cerchio, come in un acquario.
Inseguire un pensiero frammentario.
Avere sempre sonno, galleggiare
sopra il torpore come dentro al mare;
essere pigro ed abitudinario.
Non anelare più a nessuna gloria;
vivere lentamente, alla giornata.
Star sempre con la testa nel pallone
e con l’intelligenza un po’ appannata.
Avere ormai una sola aspirazione:
tenere insieme i pezzi della storia.
(da Luca Alvino, Cento sonetti indie, Interno Poesia, 2021)
Luca Alvino è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter (Castelvecchi, 2018) e Il poema della leggerezza. Gnoseologia della metamorfosi nell’Alcyone di Gabriele d'Annunzio (Bulzoni, 1998). Si interessa di letteratura contemporanea e di poesia. Collabora con il blog minima&moralia.