Quando un filosofo legge un poeta. Su Levinas interprete di Celan [1] è un saggio di Francesco Deotto che fa parte di un lavoro di ricerca inedito. Lo pubblichiamo di seguito.
1. L’opera di Celan si è costantemente sviluppata in stretto dialogo con la tradizione filosofica. L’ha recentemente confermato anche la pubblicazione dell’imponente catalogo della sua biblioteca filosofica dal quale si evince che è sempre stato un lettore estremamente curioso e attento di testi filosofici. Simmetricamente, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, la sua opera ha sempre più catturato l’attenzione di svariati filosofi, che gli hanno dedicato una mole di libri e saggi paragonabile solamente a quella precedentemente riservata a Hölderlin, Rilke e Mallarmé.
In questo quadro, è a partire dalla lettura proposta da Levinas che vorremo cercare di riflettere sulla possibilità d’interpretare da un punto di vista filosofico l’opera di Celan, e più in generale sul rapporto tra poesia e filosofia. Per farlo, prima di analizzare la prospettiva del filosofo, conviene però considerare anche un volume che offre uno sguardo molto severo sull’insieme dei testi filosofici dedicati a Celan: Pourquoi ce poète ? Le Celan des philosophes (2016) di Denis Thouard.
Per Thouard la maggior parte dei testi filosofici scritti su Celan va criticata da diversi punti di vista. Spesso, a suo dire, si ha l’impressione che i filosofi si interessino a Celan solo per dimostrare il proprio virtuosismo, come se il confronto con la sua poesia apparentemente oscura corrispondesse a “un esercizio di bravura con cui i discorsi teorici hanno cercato di provare la loro validità”. Soprattutto, Thouard denuncia come i filosofi, spesso influenzati dal pensiero heideggeriano, tendano ad “attribuire virtù misteriose al linguaggio della poesia” senza essere realmente interessati ai testi poetici, ma solo a un’idea astratta di poesia. I filosofi si limiterebbero perlopiù a “adornarsi con le piume della poesia”, citando unicamente alcuni versi (“sempre gli stessi”) e pretendendo spiegare la sua poetica rifacendosi quasi solamente al Meridiano.
2. Venendo a Levinas, è l’autore di un unico saggio su Celan: «Dall’essere all’altro», un articolo incluso in Nomi propri (1976) ma apparso inizialmente nel 1972 in un numero speciale de La Revue de Belles-Lettres. È un testo che Thouard menziona solo di sfuggita, ma che ha almeno una caratteristica che può giustificare la sua diffidenza nei confronti dei filosofi. Levinas parla infatti di Celan senza analizzare nessuna delle sue poesie e citando unicamente (in esergo) tre versi che poi non vengono mai commentati nel saggio.
Inoltre, nel 1979, in una lettera pubblicata dalla rivista Terriers, Levinas ha lui stesso ammesso d’avere una conoscenza parziale dell’opera di Celan, rifiutando la richiesta di scrivere un nuovo articolo per un numero che avrebbe incluso una traduzione di «Todtnauberg», il poema scritto da Celan in seguito al suo incontro con Heidegger. Levinas rifiuta questa proposta osservando in primo luogo di dubitare che gli “appartenga di celebrare l’incontro tra Celan e Heidegger”. Più precisamente, egli non nega l’interesse del loro incontro, dando anche prova d’aver riflettuto in profondità su di esso. Levinas, in effetti, avanza anche un’ipotesi precisa su uno specifico passaggio di «Fadensonnen»: “es sind noch Lieder zu singen jenseits / der Menschen”. Pur riconoscendo che non è possibile ignorare “il possibile significato heideggeriano” di questo passo, suggerisce di leggerlo alla luce d’un verso tratto da «Grosse, glühende Wölbung»: “Die Welt ist fort ich muss dich tragen”. Tuttavia, appena suggerita quest’ipotesi, precisa che, pur essendo certo della sua validità, non è sicuro d’essere “in grado di provarla”. Sempre nella lettera a Terriers, esprime poi la propria prudenza anche affermando di conoscere “dell’opera di Celan solo Strette [un’antologia francese] e tre o quattro testi, ottimamente tradotti e interpretati da John Jackson, durante una conferenza da lui tenuta su Celan nel 1976 a Parigi al Convegno degli intellettuali ebrei di lingua francese”.
Malgrado queste precisazioni, l’interpretazione proposta da Levinas nel 1972 non può però essere ridotta a un testo di circostanza o a una semplice forma d’appropriazione filosofica. Per almeno due ordini di ragioni, legate sia al fatto che la lettura di Celan lo ha profondamente segnato che alla specificità del contesto in cui ha scritto il proprio saggio.
3. A proposito del primo aspetto, va preliminarmente ricordato che Levinas ha raramente dedicato dei testi a delle opere letterarie, e che quando lo ha fatto ha ripetutamente espresso una forte diffidenza rispetto alla scrittura letteraria. È il caso di «La realtà e la sua ombra», un saggio del 1948 dove associa la poesia a una forma d’irresponsabilità e d’egoismo, arrivando anche a rimproverarle d’essere troppo tollerante con la magia.
Contrariamente a questo e ad altri esempi, quando parla di Celan Levinas manifesta solo la più grande ammirazione. Si può osservarlo anche in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), il libro in cui ha esposto nella forma più articolata il proprio sistema filosofico, e nel quale un verso di Celan è posto in esergo del capitolo («La Sostituzione») che costituisce il cuore concettuale del libro. Levinas utilizza qui lo stesso verso (“Ich bin du, wenn ich ich bin”) che cita anche in un altro testo dello stesso periodo, il corso Dio e l’onto-teo-logia del 1975-76. Come è stato sottolineato da J.-F. Courtine, la scelta di questo verso non ha “nulla d’ornamentale”, poiché Levinas ritrova nell’opera di Celan diversi aspetti centrali della propria prospettiva filosofica: in particolare l’idea che il rapporto con gli altri sia essenziale, o meglio “pre-originale”, e la convinzione che questo rapporto, prima di avere anche una dimensione ontologica e cognitiva, abbia una natura etica, inseparabile da una radicale chiamata alla responsabilità. In «Dall’essere all’altro» questa prospettiva emerge soprattutto nella prima parte del saggio, dove Levinas attribuisce un’importanza decisiva ad un passo del Meridiano che afferma che il poema va verso l’altro:
“Il fatto è allora per Celan che il poema si situa proprio a questo livello pre-sintattico e pre-logico (come è certo di rigore al giorno oggi!), ma anche pre-disvelante: nel momento del puro toccare, del puro contatto, dell’atto di afferrare, dell’atto di stringere, che è, forse, un modo di donare persino la mano che dona. Linguaggio della prossimità per la prossimità, più antico di quello della verità dell’essere – che esso probabilmente reca con sé e sorregge – linguaggio primo fra tutti, risposta che precede la domanda, responsabilità per il prossimo, che rende possibile, grazie al suo per l’altro, tutta la meraviglia di donare.
Il poema si dirige con decisione incontro a questo altro che esso suppone in grado di essere raggiunto, svincolato – liberato – vacante, forse… Intorno a questa proposta di Der Meridian si costruisce un testo in cui Celan svela ciò che è riuscito a cogliere della sua prassi poetica.”
Sottolineiamo però che l’interpretazione di Levinas non si basa esclusivamente sul Meridiano, ma mobilita anche diversi brani tratti sia dalla lettera a Hans Bender che dalla «Conversazione nella montagna», che come tutte le altre citazioni di Celan presenti in «Dall’essere all’altro» vengono citati in corsivo senza virgolette, così da apparire anche graficamente come perfettamente incorporati nel saggio.
Per Levinas le poesie di Celan sono irriducibili a una lingua che, secondo una prospettiva ispirata a Heidegger, sarebbe capace di “istaurare il mondo nell’essere”. Per lui i poemi di Celan sono invece caratterizzati da un movimento verso l’altro: un movimento che costituisce il tema su cui più insiste, associandolo anche a diverse altre questioni che meriterebbero delle lunghe analisi, quali la proposta di riferirsi a Buber e ai suoi studi sui pronomi personali, una forte insistenza sull’importanza dell’ebraismo, e la centralità delle nozioni di “prossimità” e “incontro”.
4. Tanto una semplice analisi interna di «Dall’essere all’altro», che un suo confronto con l’opera complessiva di Levinas, non sono tuttavia sufficienti per cogliere tutta l’originalità della sua interpretazione di Celan. Per comprenderla è indispensabile considerare anche la storia della ricezione francese di Celan, che tra il 1960 e il 1970 è caratterizzata, come Dirk Weissmann l’ha ben mostrato (cf. Poésie, Judaïsme, Philosophie. Une histoire de la réception de Paul Celan en France, des débuts jusqu’à 1991), per il fatto d’inscrivere la sua opera “in un paradigma poetico francese segnato da due lasciti, quello di Mallarmé e quello di Hölderlin, di un Hölderlin ‘francesizzato'”.
Un primo esempio è la recensione di Sprachgitter redatta per Critique dal poeta e critico René Ferriot nel 1960. Ferriot, interessato a sottolineare l’influenza di Heidegger su Celan, fa rifemento solo a due altri poeti tedeschi (Hölderlin e Trakl, tra i più amati da Heidegger), lasciando sullo sfondo il contesto storico specifico dell’opera di Celan. Egli anticipa così una tendenza che è stata confermata anche da Jaccottet, in un articolo del 1964 per la Gazette de Lausanne, e dal filosofo Yvon Belaval, in un testo del 1966 per la Nouvelle Revue Française. Jaccottet infatti inscrive Celan nella tradizione romantica della ballata e del Lied, mentre Belaval sottolinea le qualità intrinseche del suo linguaggio poetico, elogiando in particolare i silenzi prodotti dal gioco dei prefissi tipici delle sue opere. In tutti questi casi, i riferimenti storici e la dimensione ebraica della poesia di Celan appaiono spesso sottovalutati. E in una linea analoga, anche se più attenta alla ricchezza della poesia di Celan, si può includere anche L’Éphémère, la rivista animata da Picon, du Bouchet, Bonnefoy e des Forêts che ha enormemente contribuito a far conoscere Celan in Francia, pubblicando anche la prima traduzione francese del Meridiano.
In questo contesto uno dei meriti del saggio di Levinas è allora la sua capacità di discostarsi dalla tradizione interpretativa preesistente, contribuendo a sviluppare un nuovo modo di leggere Celan. Il che non vuol dire che le precedenti interpretazioni fossero sbagliate, ma che Levinas ha permesso, insieme ad altri studiosi come Meschonnic, Jackson, e più tardi Broda, d’evidenziare degli aspetti che fino ai primi anni Settanta erano stati sottovalutati e che saranno poi invece sempre più commentati. Lo si può osservare anche confrontando il suo saggio con l’editoriale di Rainer Michael Mason che apre il numero de La Revue de Belles-Lettres che include «Dall’essere all’altro». Mason in effetti presenta Celan come l’erede della tradizione incarnata da Hölderlin, Rilke e Trakl, mentre Levinas invoca l’esigenza d’avvicinarsi a Celan con categorie diverse da quelle che Heidegger aveva utilizzato per commentare proprio Hölderlin, Trakl e Rilke:
“Senza dubbio, un tale dialogo, un tale appello, per quanto legati al mutismo più ellittico, non hanno mai smesso di essere alla base dei poemi di Paul Celan, non hanno smesso di fare della sua voce, ormai inscritta nella linea di Hölderlin, Rilke, Trakl, una delle più singolari e pressanti della letteratura tedesca ed europea del dopoguerra.” (R.M. Mason)
“Il poema va verso l’altro. Spera di raggiungerlo liberato e vacante. L’opera solitaria del poeta, che cesella il prezioso materiale delle parole, è l’atto di stanare un faccia a faccia. Il poema diventa dialogo, e spesso dialogo appassionato… incontri, cammino di voce verso un tu vigilante – le categorie di Buber! Potrebbero essere preferite a tanta geniale esegesi che discende sovranamente su Hölderlin, Trakl e Rilke dal misterioso Schwarzwald per mostrare la poesia che apre il mondo, e il luogo tra terra e cielo? […] Senza alcun dubbio, Buber è preferito ad esse.” (Levinas)
Non meno emblematico è un passaggio in cui Levinas insiste sull’importanza dell’ebraismo e della Shoah sottolineando come il movimento verso l’altro che caratterizza le poesie di Celan si oppone a qualsiasi concezione che associ la poesia a una forma di radicamento a una terra. Levinas torna qui ancora alla «Conversazione nella montagna» riprendendo questa volta anche dei brani nei quali Celan sottolinea la distanza che separa la tradizione ebraica dalla concezione della natura celebrata dal romanticismo tedesco. Se non occorreva attendere Levinas per scoprire questi aspetti, è altrettanto vero che negli anni precedenti, almeno in Francia, essi non venivano evidenziati con la stessa forza.
“Come se, nell’andare verso l’altro, io potessi ricongiungermi con me stesso e impiantarmi in una terra, ormai natale, affrancato da tutto il peso della mia identità. Terra natale che non ha nulla a che fare col mettere radici, nulla a che fare con la prima occupazione; terra natale che non ha nulla a che fare con la nascita. Terra natale o terra promessa? […] ma l’abitazione giustificata dal movimento verso l’altro è ebrea per natura.
Celan non si riferisce all’ebraismo come a un particolarismo pittoresco o un folklore familiare. Senza dubbio la Passione di Israele sotto Hitler – tema delle venti pagine di Engführung, lamento dei lamenti […] – aveva, agli occhi del poeta, un significato per l’umanità intera, di cui l’ebraismo è una possibilità – o un’impossibilità – estrema, rottura dell’ingenuità dell’araldo, del messaggero o del pastore dell’essere. […] Espulsione al di fuori della mondanità del mondo, nudità di colui che prende in prestito tutto quello che possiede; insensibilità alla natura… poiché l’ebreo, tu lo sai bene, che cosa possiede che gli appartiene veramente, che non sia ricevuto, preso in prestito, mai restituito… Eccoci di nuovo sulla montagna tra il martagone e il raperonzolo. Due ebrei stanno lì, o un solo ebreo, divenuto tragicamente due con sé stesso. Ma a loro, cugini nati da fratelli, mancano… gli occhi o, più esattamente, ai loro occhi un velo ricopre l’apparire di ogni immagine, perché l’ebreo e la natura sono di due specie diverse, sempre, anche oggi, anche qui… […] E quelle montagne con la loro mole imponente? Che cosa ne è di quelle montagne di cui Hegel diceva ‘è così’ con sottomissione e libertà? Celan scrive: … la terra si è corrugata verso l’alto, si è corrugata una volta e due e tre volte e si è aperta in mezzo, e in mezzo c’è l’acqua, e l’acqua è verde e il verde è bianco e il bianco viene dall’alto, viene dai ghiacciai…”
Almeno due altre caratteristiche di questi brani sono rilevanti in risposta alle critiche di Thouard ai filosofi. La prima riguarda Heidegger, la cui concezione della poesia è stata aspramente criticata dallo stesso Thouard, che ne ha denunciato l’influenza nociva su molte interpretazioni filosofiche di Celan. Non è allora senza interesse né che in Francia Celan e Heidegger siano stati inizialmente associati non da dei filosofi ma da dei letterati come Ferriot, né che tra i commentatori che hanno più duramente criticato questo approccio ci sia proprio un filosofo come Levinas. In secondo luogo è anche importante ricordare di nuovo come, pur senza commentare nessuna poesia, Levinas non è stato insensibile alla scrittura di Celan, come attestato dal fatto che il suo saggio è letteralmente composto da innumerevoli citazioni, provenienti oltre che dal Meridiano anche dalla lettera a Bender e dalla «Conversazione nella montagna».
5. In conclusione, torniamo un’ultima volta al libro di Thouard. A dispetto della severità delle sue critiche, va precisato che il suo obiettivo non è quello d’invitare i filosofi a astenersi dal riflettere su Celan o addirittura dall’occuparsi di poesia. Ciò che propone è piuttosto che essi si concentrino su due tesi specifiche, che a suo avviso da sole “giustificano sufficientemente che il discorso filosofico si rivolga alla poesia in quanto tale”. Esse corrispondono rispettivamente all’idea che la poesia è “portatrice di un’esperienza di lingua” e all’idea che “la poesia è portatrice di un’esperienza (della diversità) delle lingue”. Ebbene, pur riconoscendo che queste tesi toccano delle questioni essenziali, ci sembra che i testi di Levinas insegnino, tra molte altre cose, che non è opportuno assegnare preliminarmente ai filosofi (come neanche a qualsiasi altro lettore) dei compiti specifici. Può anche accadere che un filosofo possa contribuire a mettere in luce il contesto storico delle poesie e a prendere meglio le distanze da altre interpretazioni filosofiche che, è vero, a volte possono essere estremamente problematiche.
[1] Per la versione integrale in francese: Po&sie, n° 174, p. 163-173; https://doi.org/10.3917/poesi.174.0163.