Tre testi dal libro di prose di Italo Testa Teoria delle rotonde, Valigie rosse, 2020.
[nuotare al buio]
Le poesie non parlano di parole, vorrebbero piuttosto renderle trasparenti e disinnescarle. I poeti artificieri vorrebbero bonificare la mente dagli ordigni verbali che irrompono nei siti cerebrali. Anche dalla vaghezza della parola “luogo”. Ma come scriveva Corrado Costa, “il luogo della poesia torna sempre fuori, anche se il poeta è senza luogo”. Commentando queste parole, Patrizia Vicinelli ha aggiunto che “è il poeta a scegliere il territorio della sua nascita. A volte coincide, a volte no”. Non sa se il poeta sia senza luogo, anche se resta fermo all’evidenza che la poesia è un non luogo a procedere. Non sa neppure se possiamo scegliere il territorio della nostra nascita, di ciò che potrebbe voler dire venire alla luce da qualche parte nella poesia. Sperimentiamo piuttosto un senso di costrizione, siamo lì, quei canali, quei pioppi muti, quegli argini e quelle sabbie continuano a ripresentarsi. Rimane la non coincidenza, perché le colline, i calanchi franosi al cui cospetto siamo cresciuti erano già altri, sin dall’inizio, sin da quando ha iniziato a manifestarsi questa debolezza del volere, questa forma di akrasìa. Forse li abbiamo riconosciuti anche altrove, o all’inverso erano solo l’anticipazione di quanto sarebbe venuto. Così questa non coincidenza è anche il segno di una pluralità: i luoghi tornano sempre fuori. Quei calanchi franosi, le terre rosse delle colline dell’Emilia sono tornate dopo molto tempo, quando già la cintura lagunare veneta gli si era stretta intorno, a delimitare lo spazio acquoso dei suoi versi: e sono ritornate come le sabbie emerse, le dune che sono sempre state. Così le piazze sterminate e i campi d’acqua, l’eco degli allarmi nelle strade di Milano e le sirene delle maree. Sei lì sotto, nuoti al buio, sotto una crosta ghiacciata, a tratti una corrente ascensionale ti porta verso la superficie, dove il ghiaccio è più sottile fai pressione, lo perfori, riemergi da qualche parte, hai poco tempo, prima di tornare sotto, per riconoscerlo, sembra uno di quelli, sembra proprio uno di quei luoghi.
[ultratossico]
Considera l’ipotesi che le poesie a volte non siano altro che siti di stoccaggio di rifiuti verbali ultratossici. A che cosa varrebbe? A disinfestare la mente? A liberare questi luoghi dai detriti, e lasciare che le cose si mostrino? Considera l’ipotesi che le poesie siano luoghi eventuali. In questo spazio qualcosa deve poter accadere, fare irruzione, sovrastare: i detriti trasfigurati, di più, cancellati. Negazioni determinate di se stesse, del loro proprio luogo. Perché è la spazialità concreta ciò che più di tutto sembra distinguere il testo poetico dalle altre forme di espressione. Come questo spazio è occupato, una determinata disposizione delle parole, certi pieni e certi vuoti. Questa forma conta, fa la differenza. È così che crediamo di riconoscerle, a colpo d’occhio. Stanno lì, nel mondo, sono dei luoghi espressivi altamente connotati e differenziati, su cui più individui possono transitare, fermarsi per un poco, esplorarli, prendere congedo. Ma si deve chiedere di più: se di questo luogo non ci dimenticassimo, se non sparisse alla vista, se non si negasse nello stesso momento in cui si affaccia alla mente, della poesia non ne sarebbe nulla, nulla accadrebbe.
[sostanza]
Devono poter dimenticare. Finché ti ricordi di una cosa, l’hai vista spesso, non sarà mai tua: tua come deve poter essere per entrare in una poesia, e diventare d’altri. Anche i luoghi non ricordano, almeno non da soli: non possono ripescare, richiamare dal fondo cose e eventi. Ma hanno memoria. Possono avere una memoria fisica, che sta lì, anche se nessuno potrà mai più richiamarla. Perché contengono, come pozzi, serbatoi, sono recipienti di tracce, impronte, calchi. Anche le poesie non ricordano e sono fatte della sostanza inconscia della memoria.
Immagine: Piotr Hanzelewicz, Il primo occhio di Talete visto da Gadamer (autoritratto), 2020.