A pochi anni dalla fine della saga dell’Amica geniale tutti sappiamo quale sia stata la fortuna di Elena Ferrante, conosciamo i nomi di chi si è entusiasmato per quei romanzi e di chi invece, in minoranza, li ha criticati. La discussione si è assestata in fretta a vantaggio dei sostenitori, e la Ferrante fever è ancora circolante. La vita bugiarda degli adulti appena uscito ha subito scalato le classifiche mondiali, Netflix ha annunciato che ci sarà una serie, mentre L’amica geniale di HBO è ancora in produzione, e una rivista accademica di storico prestigio come MLN ha annunciato che farà uscire a breve un numero speciale per celebrare Ferrante. La corsa sembra inarrestabile, ma forse ci si potrebbe ancora fermare un momento a cercare di capire perché e da dove sia iniziata, tornando a chiederlo proprio ai libri di Ferrante. C’è una cosa infatti che non abbiamo considerato nella querelle tra pro e anti ferrantiani, è cioè quello che i romanzi stessi hanno da dire su di sé.
I romanzi dell’Amica geniale tendono a dire tutto. Questo è un dato neutro, sul quale potrebbero trovarsi d’accordo sia i detrattori che i fan. Se qualche volta capita di inseguire connessioni tra un aspetto e l’altro del libro, o un senso non immediato, ben presto ci si ritrova di nuovo dentro la carreggiata di una narrazione che procede su un piano senza intoppi, il cui punto di arrivo non è il campo aperto, incerto e rischioso delle deduzioni ma uno spazio sicuro in cui tutto si risponde da sé. Quando ad esempio il destino della piccola Tina, la figlia di Lila che scompare alla fine dell’ultimo volume, ci ricorda improvvisamente l’inizio della storia, perché delle due bambole fatte cadere da Lila nello scantinato di Don Achille quella di Lenù si chiamava proprio Tina, e per un attimo ci sentiamo precipitare anche noi in un vertiginoso inabissamento del romanzo, la mano di Ferrante arriva a raccoglierci e a riportarci in superficie, spiegandoci tutto e restituendoci il nostro ragionamento, o se non altro rinfrescandoci la memoria se per caso ci fossimo dimenticati di quel primo episodio: «mi tornò in mente persino, dopo tanto tempo, che per motivi del tutto occasionali – sotto le più insignificanti occasioni si nascondono distese di sabbie mobili –, Lila aveva finito per chiamare sua figlia col nome della mia amatissima bambola, quella che, da piccola, lei aveva gettato in fondo a uno scantinato». Non solo Ferrante svela apertamente il suo piano narrativo, ma confessa anche perché lo fa: perché non si sente a suo agio nell’«intreccio di sentimenti oscuri» che rendono complessa e inafferrabile una trama; il suo intento è quello di «mettere ordine». Pensando alla sovrapposizione tra la sua bambola e la figlia di Lila, Elena ammette subito di non reggere la vertigine, di preferire schivare le “sabbie mobili” in cui la superficie delle cose sprofonda: «fu la prima volta, ricordo, che ci fantasticai sopra, ma non ressi a lungo, mi affacciai su un pozzo scuro con qualche scintillio di luce e mi ritrassi. Ogni rapporto intenso fra esseri umani è pieno di tagliole e se si vuole che duri bisogna imparare a schivarle». Così «tutto fila liscio», per usare un’espressione un po’ trita ma molto usata da Ferrante: se non capiremo ci verrà spiegato, se saremo smemorati o pigri ci sarà ricordato, e nulla di “oscuro” resterà imbrigliato nelle maglie del romanzo continuando a inquietare la nostra coscienza di lettori anche quando avremo chiuso il libro.
Elena Ferrante, veramente democratica, asseconda anche questo ipotetico lettore pigro o smemorato, senza paura di cadere nello schematico o nel didascalico. Anzi a volte la narrazione si riduce al suo scheletro e procede per elenchi puntati, come: «a quel punto successero due cose molto brutte, l’una dietro l’altra. Innanzitutto [etc.]. Subito dopo [etc.]»; oppure: «la giornata filò liscia» (appunto) «a parte due episodi all’apparenza senza conseguenze. Vediamo il primo. [etc.] Il secondo episodio ebbe per protagonista [etc.]». Un’altra norma è la ripetizione enfatica di certi concetti chiave, anche a scapito dell’eleganza del testo e dello shock of recognition del lettore. Quando Lila è incinta per la prima volta ci viene spiegato che «pareva veramente impegnata in una lotta senza quartiere per dimenticare il peso di ciò che tuttavia definiva in modo incongruo “un vuoto dentro”». Ma non bastava aver letto, per notare questo parallelismo tra gravidanza e “vuoto dentro” e per cogliere la sua “incongruità”, quello che aveva già detto la stessa Lila letteralmente undici righe prima («diceva cose un po’ insensate tipo: “Non ne voglio parlare, è una malattia, ho dentro un vuoto che mi pesa”»)? E che dire dei personaggi, che cosa possiamo dedurre di loro? Forse siamo più indotti a interrogarci sulle loro identità se li vediamo rappresentati nella serie di Costanzo, con tutti gli scarti e le discontinuità naturali del mezzo cinematografico, che quando troviamo i loro originali nei libri dove lo spazio per le nostre domande è già tutto occupato dalle spiegazioni esaustive di Ferrante. Di Alfonso, per esempio, avremmo capito l’anima, e avremmo capito la natura del rapporto quasi morboso con Lila che dà forma alla sua omosessualità, anche se non ci fosse stato spiegato così tante volte e in modo così didascalico; e peraltro, senza queste spiegazioni, il suo personaggio ci sarebbe sembrato più sottile, più acuto, e avremmo potuto saperne di più sapendone meno.
C’è una certa autoconsapevolezza in Ferrante. «Sbaglio, mi dissi confusamente, a scrivere come ho fatto finora, registrando tutto quello che so. Dovrei scrivere come lei parla, lasciare voragini, costruire ponti e non finirli, costringere il lettore a fissare la corrente». Così pensa Elena Greco nel quarto volume, meditando sulla sua carriera di scrittrice, mentre «lei», colei che invece sa «governare e sgovernare a piacimento, con pochissime parole, la fantasia altrui», «senza aggiungere altro», è ovviamente Lila.
Lila è l’unico personaggio che fa eccezione alla regola del “dire tutto”: è sfuggente, è inafferrabile, è quella che scompare, ossessionata dall’idea di cancellarsi, e che “rende faticosa la scrittura” così didascalica di Elena. Se non abbiamo bisogno di chiederci chi siano Alfonso, Gigliola, Michele Solara, qualche volta capita invece di chiederci chi sia Lila. Lila è l’amica geniale che non si cura della propria genialità e la attribuisce a Elena, restando disinteressata e libera nei confronti della propria intelligenza, che è innata: nessuno le ha insegnato a leggere e scrivere, quando la maestra glielo chiede risponde «io». Lila «aveva una testa pronta e riusciva bene in qualsiasi cosa le capitasse di applicarsi: se avesse potuto studiare sarebbe diventata una scienziata come Marie Curie o una grandissima romanziera come Grazia Deledda». Il suo talento maggiore, però, è letterario. Fin da bambina Lila «prendeva i fatti e li rendeva con naturalezza carichi di tensione; rinforzava la realtà mentre la riduceva a parole, le iniettava energia»; «era molto abile a raccontare, sembrava tutto vero». Lila seduce e allarma tutti con la sua «potenza di sirena». Se tutto questo volesse significare qualcosa, si potrebbe ipotizzare che il solo simbolismo non scoperto in questi romanzi riguarda proprio lei: Lila è la letteratura.
Alla fine del quarto volume Elena è tormentata dall’idea che anche Lila stia scrivendo un libro su Napoli, «non le migliaia di pagine che avevo scritto io, ma un libro del cui successo non avrebbe mai goduto come io invece avevo fatto coi miei, e che tuttavia sarebbe durato nel tempo e sarebbe stato letto e riletto per centinaia d’anni». «Non mi venne in mente mai – mai – che lei potesse aver scritto una storiella melensa, zeppa di luoghi comuni». Quello di Lila non sarebbe un libro che vende, come quelli di Elena, ma avrebbe il destino di un classico. Lila saprebbe dire anche le cose banali «in un altro modo». Elena ne è convinta, e per questo Lila non cessa mai di essere il suo modello. Tutto quello che Elena scrive, dai temi della scuola ai libri che pubblica da adulta, testimonia «soprattutto quanto fosse stato fruttuoso studiare e conversare con Lila, averla per stimolo e sostegno». Al ginnasio Elena scrive un tema su Didone, la professoressa glielo loda, ma lei sente in qualche modo di aver barato: «certo, mi dicevo, sicuramente lo svolgimento su Didone è mio, la capacità di formulare belle frasi è roba che viene da me; certo, ciò che ho scritto su Didone mi appartiene; ma non l’ho elaborato insieme con lei, non ci siamo stimolate a vicenda, la mia passione non è cresciuta al calore della sua?». Più avanti, in un periodo di militanza politica sui quotidiani, Elena sa in fondo di non essere del tutto coerente con se stessa perché è troppo fissata sull’emulazione di Lila: «mi è difficile spiegare perché insistessi a scrivere quella roba […]. Forse lo facevo per insicurezza. […] O perché – e facevo fatica ad ammetterlo – il mio modello restava Lila con la sua cocciuta irragionevolezza che non accettava vie di mezzo, tanto che, pur essendo ormai distante in tutti i sensi da lei, volevo dire e fare ciò che immaginavo lei avrebbe detto e fatto». Ferrante sottolinea moltissimo il momento in cui Elena, subito dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, si ritrova tra le mani La fata blu, il “romanzo” che Lila aveva scritto da bambina: «mi misi a leggere La fata blu dall’inizio, correndo per l’inchiostro pallido, per la grafia così simile alla mia di allora. Ma già alla prima pagina cominciai a sentire male allo stomaco e presto mi coprii di sudore. Solo alla fine, però, ammisi ciò che avevo capito già dopo poche righe. Le paginette infantili di Lila erano il cuore segreto del mio libro. Chi avesse voluto sapere cosa gli dava calore e da dove nasceva il filo robusto ma invisibile che saldava le frasi, avrebbe dovuto rifarsi a quel fascicolo di bambina, dieci paginette di quaderno, lo spillo arrugginito, la copertina colorata in modo vivace, il titolo, e nemmeno la firma». E nonostante i sudori di Elena questo ricapiterà ancora e ancora: «non un’idea, senza Lila. Non un pensiero di cui mi fidassi, senza il sostegno dei suoi pensieri. Non un’immagine».
A quei pensieri e a quelle immagini oltretutto Elena non accede mai davvero: è lei stessa a dichiarare che la forza di Lila è incompatibile con la sua scrittura dove normalmente «il tempo si acquieta e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni come valigie sul nastro di un aeroporto; li prendi, li metti sulla pagina ed è fatta». La scrittura “a nastro” di Elena insegue Lila con spirito di rivalsa e senso di inferiorità: «vediamo chi la spunta questa volta» è il pensiero con cui si inaugura la stesura di questi volumi, intrapresa quando Lila, ormai anziana, è scomparsa da giorni. La sparizione di Lila e la competizione frustrata sono il motore del romanzo. In effetti, l’oggetto dell’ammirazione di Elena non è neanche così presente. Lila non fa la scrittrice, non pubblica nulla e di suo non c’è molto: La fata blu, la lettera di Ischia, i quaderni, le pagine sulla condizione operaia. Ma se pure è poco, «quelle pagine», per Elena, «dicevano esattamente ciò che lei non aveva da dire», e chiarivano che «Lila era altro». Quando Elena si accorge di essere «banale», sa che Lila invece è «suggestiva»; quando vorrebbe emanciparsi dalla sua scrittura «artificiosa e rigida» pensa a quella «fluida e trascinante» di Lila; quando si riconosce capace solo di fare un «riassunto», anela alle «parole belle» di Lila. Elena, di fronte a quel poco che si intravede di Lila, sembra ridursi a nulla.
È strano che si sia fatta così poca attenzione a questi segnali di inferiorità letteraria. Viene da chiedersi – proprio perché i romanzi di Ferrante hanno avuto così tanto successo e sono stati seriamente paragonati alle opere di Manzoni, Kafka, Ovidio, Sofocle, Goethe, etc. – che cosa farsene di questi giudizi di valore così poco generosi che si affacciano qua e là nientemeno che nei libri stessi. Per risponderci, dobbiamo innanzitutto decidere se i romanzi dell’Amica geniale siano autobiografici, ovvero se la scrittura di Elena Greco sia di fatto la scrittura di Elena Ferrante. Così parrebbe: certo lo stile di questi romanzi non è l’elemento che ha conquistato i lettori, soprattutto quelli italiani. Qualcuno avrà pensato, per giustificare una certa mancanza di stile, che Elena Ferrante abbia cercato di mimare la prosa di Elena Greco, la narratrice nella finzione. Ma di un simile esercizio si sentirebbe pur sempre la raffinatezza, e invece sembra non esserci nessun filtro tra la voce dell’autrice e quella della narratrice. Quello che si legge nella Frantumaglia o nell’Invenzione occasionale, che sono i testi autobiografici o perlomeno di non-fiction di Ferrante, non è troppo diverso da ciò che si trova nell’Amica geniale né in termini di contenuto (quando Ferrante si descrive e parla della propria vita in questi testi sembra veramente che Elena Greco sia un suo fedele alter ego) né in termini di espressione, un po’ da posta del cuore (aprendo l’Invenzione occasionale a caso: «I rapporti di coppia sono una sintesi efficace della precarietà delle nostre vite». «Sono convinta insomma che cambiare ha un suo versante sempre positivo». «Stupisce quale forza visionaria può stimolare la pagina, quando un grande talento se ne nutre». «Sono diventata di quelle donne che amano moltissimo la primavera, se ne stanno volentieri al sole, ma […] adorano l’autunno e persino l’arrivo del freddo». «Amo le piante»).
La sensazione di essere mediocre tormenta Elena Greco dalle scuole elementari («eravamo animaletti spaventati dalla nostra stessa mediocrità»). Da ragazzina non si nasconde, quando riceve la lettera di Lila da Ischia, che è molto migliore delle sue, che tutto quello che ha saputo scrivere fino a quel momento è «banale». Da adulta ammette di riciclare nei suoi discorsi «materiale collaudato e di sicuro effetto». La bruttezza del suo secondo libro fa addirittura venire da piangere a Lila, e in fin dei conti, a ripensarci, sembra evidente anche a Elena: «forse Lila aveva ragione: il mio libro – che pure stava avendo tanto successo – era davvero brutto». Elena dice anche in cosa consistono, più specificamente, i suoi problemi. «Cosa mi mancava, dunque? Era difficile dire. Napoli, forse, il rione. O un’immagine come quella della Fata blu. O una passione». «Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo era certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un’ambizione determinata». «Dovevo […] accettare che ero una persona media. Cosa dovevo fare. Provare ancora a scrivere. Forse non ne avevo la passione, mi limitavo a eseguire un compito». È curioso il modo in cui Elena sottolinea a più riprese la sua mancanza di vocazione letteraria e d’altra parte scopre interessi più prosaici. Il desiderio di diventare scrittrici nasce per il desiderio di diventare ricche, ancora prima che Lila scriva La fata blu. Se al primo libro pubblicato Elena non immaginava che avrebbe guadagnato del denaro, alla fine il denaro diventa la ragione per cui scrive: «dovevo scrivere e pubblicare con regolarità, dovevo consolidare la mia fisionomia di autrice, dovevo guadagnare. E la ragione non era la vocazione letteraria, la ragione aveva a che fare col futuro: pensavo davvero che Nino si sarebbe occupato per sempre di me e delle mie figlie?». Elena dice di essere ossessionata dall’idea di “diventare”: diventare ricca, diventare qualcuno. Non nasconde che letteratura per lei significa anche rivalsa, narcisismo e potere. «Tra qualche mese ci sarebbe stata della carta stampata, cucita, incollata, tutta piena di parole mie, e sulla copertina il nome, Elena Greco, io, punto di rottura di una lunga catena di analfabeti, di semianalfabeti, cognome oscuro che adesso si sarebbe caricato di luce per l’eternità». Questi i pensieri di Elena all’uscita del suo primo libro, non molto diversi dal bilancio finale dei propri risultati: «mi sentii di gran lunga più stimata, direi anzi più potente di quanto era stata Adele ai miei occhi decenni prima» (Adele era la suocera altolocata). Fa parte del personaggio anche una sorta di sindrome da prima della classe, la «voglia di far bene» e di farsi amare che non cambia dal tempo delle scuole elementari al momento in cui esce il primo libro: «ah, cos’ero stata capace di fare, e com’era tutto veloce, come piacevo e come mi facevo amare, come sapevo parlare dei miei studi, di dove li avevo fatti, della mia tesi sul quarto libro dell’Eneide». Il lavoro di Elena è diligente. «Diligenza» è la parola più usata per descrivere la sua attitudine di studiosa e di scrittrice: è la risorsa con cui riesce ad andare avanti nonostante tutto, a diventare, pur non avendo i doni spontanei di Lila. Quando la professoressa Galiani sembra avere occhi solo per Lila, Elena vorrebbe gridarle: «sì, è vero, Lila ha una grande intelligenza, intelligenza che ho sempre riconosciuto, che amo, che ha influenzato tutto ciò che ho fatto; ma io ho coltivato la mia con grande fatica e con successo, mi apprezzano ovunque».
Ferrante sta forse ragionando sull’essenza romantica o classica dell’arte, opponendo all’esempio dell’ispirazione libera e della passione di Lila quello dello studio e della disciplina di Elena? Se così fosse, daremmo ragione a Elena. Ma sappiamo dai romanzi che anche Lila sa, e meglio di Elena, cosa sia l’esercizio. I suoi quaderni sono la traccia di «una cocciuta autodisciplina alla scrittura»: ci sono prove di descrizioni, spunti filologici, esercizi di traduzione in latino e in greco, brani in inglese, idee e ragionamenti, frasi di estrema precisione alternate a prose affannose e sovreccitate. Elena, quando vede questi quaderni, capisce perché la lettera che Lila le aveva mandato ad Ischia era «così ben scritta»: dietro c’era tutto quell’esercizio. Lila sa che la scrittura è passione e disciplina, ma sa anche non far pesare nella prosa la fatica dell’esercizio, e come un grande artista getta via la chiave del nitore dei suoi risultati. Dietro la naturalezza delle sue frasi, pensa Elena, «c’era di sicuro un artificio, ma non seppi scoprire quale».
Questo artificio che Lila sa dosare alla perfezione la fa essere reale e convincente, mentre Elena ha scritto un libro brutto perché troppo artificioso: «perché ben organizzato, perché scritto con una cura ossessiva, perché non aveva saputo mimare la banalità scoordinata, antiestetica, illogica, sformata, delle cose». Lila sa quello che non sa Elena, e cioè quale sia la chiave del realismo. Quando racconta sa “plasmare” la realtà come se fosse stata presente, sa guardare in faccia la verità, e d’altra parte rimprovera Elena perché nei suoi libri ha scambiato la mera trasposizione della dura realtà del rione per realismo, quando invece il realismo consiste quasi tutto nella mediazione, perché «la faccia schifosa delle cose non bastava a scrivere un romanzo: senza fantasia non pareva una faccia vera, ma una maschera». Lila obietta ad Elena quello che si potrebbe obiettare – e che qualcuno ha obiettato – a Ferrante: la complessità dell’Amica geniale sta più nel suo soggetto nudo e crudo che nel modo in cui Ferrante lo lavora. La «banalità scoordinata, antiestetica, illogica e sformata del reale» sembra bastare a se stessa per quanto riguarda lo stile mentre al livello del contenuto è trattata come un tema a sé, che Ferrante chiama «smarginatura». Questo fenomeno si definisce intorno a Lila. La smarginatura è allo stesso tempo la capacità che Lila ha «di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni», e il terrore che gliene deriva: «che le persone, ancor più delle cose, perdessero i loro margini e dilagassero senza forma è ciò che ha spaventato di più Lila nel corso della sua vita». Lila ha paura che la smarginatura scalzi definitivamente la forma, il che è un altro modo di formulare la critica fatta al romanzo di Elena. E ancora una volta questo dato del carattere di Lila fa pensare alla vocazione fondamentale della letteratura, quella di sfondare i margini della realtà e ricostituirla in una forma mediata. Nel formalismo di Lila c’è un’istanza genuinamente letteraria.
Se Lila è la letteratura, dunque, resta da vedere quale sia il suo destino nei romanzi di Ferrante. Lo sappiamo fin dall’inizio: Lila è scomparsa. Tutto quello che era suo è scomparso: La fata blu bruciata nel fuoco, i quaderni buttati nell’Arno, la piccola Tina, vivace e intelligente a sua immagine e somiglianza, sparita nel nulla. Potremmo azzardarci a riferire questo dato narrativo della scomparsa di Lila agli stessi libri di Elena come se fosse un giudizio critico definitivo? Tra tutti i momenti di autocoscienza di Elena ce n’è uno davvero stupefacente: «sapevo bene cos’era la grande letteratura, avevo lavorato molto sui classici, e non mi era mai venuto in mente, mentre scrivevo, che stessi facendo qualcosa di valore». Elena conosce Lila, sa bene cosa sia la grande letteratura, ma sa anche di non esserci arrivata perché in fondo non lo sa davvero? A pensarci bene, quanto desidereremmo sapere cosa c’è scritto di così bello nella Fata blu, eppure non ci è mai dato? Quando Elena dice di essere distante in tutti i sensi da Lila, ci sta confessando anche qualcosa di molto importante meta-narrativamente?
Alla luce di queste domande, chi crede nel valore di Ferrante potrebbe aggiungere al quadro forse il suo segno più azzeccato, una meditazione piuttosto complessa sulle sorti della letteratura di oggi contenuta in questi romanzi-feuilleton. Per chi non la ama, la conclusione sarebbe più semplice: anche Ferrante sa di essere Ferrante.
Giulia Ricca ha studiato Lettere Classiche e Moderne all’Università di Torino. Ora vive tra Torino e New York, studia Letteratura Italiana e Comparata e insegna Italiano alla Columbia University, dove sta facendo un dottorato.