Queste dodici poesie di Denise Levertov sono traduzioni del Laboratorio di traduzione di poesia Monteverdelegge, che da dieci anni opera presso la bibliolibreria Plautilla c/o CSM Cantiere 24, ASL Roma D (Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson). Le pubblichiamo con una nota introduttiva di Fiorenza Mormile. Si ringrazia la New Directions Publishing Corp., casa editrice di Denise Levertov, per l’autorizzazione alla riproduzione e traduzione dei testi, i cui riferimenti bibliografici sono riportati in calce all’originale di ogni poesia.
Denise Levertov (Ilford, Inghilterra 14/10/1923 – Seattle, Usa 1997) è stata un’intensa e prolifica poetessa (oltre trenta pubblicazioni tra poesia e saggistica). Si è molto impegnata anche nel sociale, dal volontariato a vasto raggio durante la seconda guerra mondiale all’attivismo pacifista condiviso con il marito Mitchell Goodman che dal 1948 aveva seguito negli Usa. Levertov, che a cinque anni aveva già chiaro il suo destino poetico, fonde in una cifra personale molteplici successive influenze: quella eclettica e colta della famiglia (il padre ebreo di origine russa divenuto pastore anglicano, la madre gallese appassionata di poesia), delle assidue frequentazioni dei Black Mountain Poets e in particolare della spinta di W.C. Williams verso l’esplorazione del quotidiano e la semplificazione antiletteraria della lingua. Levertov le ha attraversate tutte, così come ha attraversato l’Atlantico, approdando a una scrittura consapevolmente “americana”. Dagli anni Ottanta assume rilevanza, affiancato ad una spiccata sensibilità ambientale, anche il suo percorso dall’agnosticismo alla conversione, prima al Cristianesimo e infine al Cattolicesimo. Levertov presta crescente attenzione verso la natura, alla cui contemplazione riconosce forza appagante e liberatoria (Celebration). L’amico poeta Milosz, che amava tradurla, diceva di apprezzare nelle sue poesie “il tanto guardare”. Leggendo questi dodici testi (che seguono l’ordine cronologico di pubblicazione e ruotano per lo più intorno a temi metaletterari) non meraviglia che Levertov teorizzi nelle sue Notes on Organic Form la contemplazione come metodo base per una poesia “esplorativa” che, lavorando sull’appercezione e sulla consapevolezza dei propri stati emotivi, sappia andare in profondità, intuendo per spiragli rivelatori un ordine preesistente già nelle cose e nelle loro relazioni. “Contemplare deriva da “templum, tempio, un luogo, uno spazio per l’osservazione, segnato dall’augure”. Significa non semplicemente osservare, considerare, ma fare queste cose in presenza di un dio. E meditare è “mantenere la mente in uno stato di contemplazione”, il suo sinonimo è “musa” e musa deriva da una parola che significa “stare a bocca aperta” non così comico se pensiamo a “ispirazione-ispirare”. (…) “la forma non è mai più che una rivelazione di contenuto”. C’è quindi in Levertov una sacralità della scrittura, non necessariamente tutta ascrivibile a una specifica confessione religiosa. Nei suoi testi la contemplazione non si realizza solo tramite la vista, (che pure appare prevalente, anche sotto forma di visione mentale), ma anche per mezzo di suggestioni olfattive, tattili, uditive – “origliando in pace” (Aware). Esempio di illimitata fiducia nella capacità comunicativa della parola è la spiegazione dei colori ai ciechi, veicolata in termini di vibrazioni sensoriali da loro comprensibili (For the Blind). Va sottolineato il peso dell’immaginazione, cui Levertov attribuisce la capacità di incidere nella realtà perché reale è il suo agire nelle menti degli uomini (Everything that Acts is Actual). Scrivendo il poeta si addossa una responsabilità e una doppia missione: cogliere la vera essenza delle cose, il segreto che giace sotto la superficie e aprire attraverso l’immaginazione l’accesso ad una nuova realtà, ad esempio, in Making Peace, lo sforzo di delineare un non ancora sperimentato “immaginario di pace” così come si crea una poesia, con le “parole che la creano, /una grammatica di giustizia, /una sintassi di reciproco aiuto”. Una poesia riuscita assume una sorta di potere: suscita amore, solleva lo spirito (Poet’s Power), accresce la conoscenza facendo scaturire da un verso un’improvvisa illuminazione, o anche solo la speranza di potercela trovare (The Secret). Ma, pur valorizzando il ruolo del poeta nella società, Levertov non assume mai atteggiamenti da poeta-vate: all’altezza del valore riconosciuto alla poesia contrappone l’umiltà di un perenne spirito di servizio, la necessità di un duro apprendistato: per elevare la sua scrittura il poeta “deve sbucciarsi le ginocchia”(The Jacob’s Ladder), accettare un perenne stato di allerta, anche notturna, pur di fermare a tentoni nel buio un verso sulla carta prima che col pieno risveglio ne svanisca “la visione”, per incuria potrebbero infatti andare perse “parole che forse hanno il potere/ di far sorgere di nuovo il sole”(Writing in the Dark). Per Levertov scrivere comporta un dialogo serrato col dolore, fedele come un cane (Talking to Grief): l’esperienza negativa del passato va inseguita, braccata senza pietà “fino al nido di cenere” perché ne possa scaturire un nuovo, vitale “guizzo di fiamma” (Hunting the Phoenix). Prestando fede alla parola dei “grandi vecchi” i poeti devono accettare un estenuante e incerto cammino verso il mare, col solo bagaglio della lingua affidata nelle loro mani: “abbiamo in tasca le parole/indicazioni oscure” (September 1961). Procedono, immaginando a tratti, per conforto, di avvertirne l’odore.
Fiorenza Mormile
Ogni cosa che agisce è in atto
Dalla luce ambrata
dalle notti di pioggia
dall’immaginazione che trova
se stessa e più che se stessa
sola e più che sola
in fondo al pozzo dove vive la luna,
puoi trascinarmi
dentro dicembre? una pianura
di spazio, percezione di spazio
torreggiare di ombre di nuvole soffiate su
nuvole sopra
terreno nuovo, reso nuovo
sotto i passi pesanti di dicembre? l’unico
modo di vivere?
L’imperfetta luna
agisce sul vero, e crea
un autunno di incerti
silenzi.
Tu vivevi, ma altrove,
la tua presenza toccava altri, cerchio dopo cerchio
e cambiava. Credevi
che io non sarei cambiata?
La luna nera
si allontana, finito il suo lavoro. Una tenerezza,
autunno inespresso.
Siamo fedeli
solo all’immaginazione. Quel che
l’immaginazione
coglie
come bellezza dev’essere verità. Quel che ti lega
a ciò che vedi di me è
solo quella presa.
Everything that Acts is Actual
From the tawny light
from the rainy nights
from the imagination finding
itself and more than itself
alone and more than alone
at the bottom of the well where the moon lives,
can you pull me
into December? a lowland
of space, perception of space
towering of shadows of clouds blown upon
clouds over
new ground, new made
under heavy December footsteps? the only
way to live?
The flawed moon
acts on the truth, and makes
an autumn of tentative
silences.
You lived, but somewhere else,
your presence touched others, ring upon ring,
and changed. Did you think
I would not change?
The black moon
turns away, its work done. A tenderness,
unspoken autumn.
We are faithful
only to the imagination. What the
imagination
seizes
as beauty must be truth. What holds you
to what you see of me is
that grasp alone.
1.”Everything that Acts Is Actual” by Denise Levertov, from COLLECTED EARLIER POEMS 1940-1960, copyright ©1949, 1979 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
La scala di Giacobbe
La scala non è
fatta di fili lucenti
un’evanescenza radiosa
per piedi d’angelo che nel passare sfiorano appena la pietra, senza
doverla toccare.
È fatta di pietra.
Una pietra rosata che si accende
di morbida luce
solo perché dietro il cielo è di un incerto, dubbioso
grigio notte.
Una scala di angoli
acuti, di solida fattura.
Si vede che gli angeli devono saltare
giù da un gradino all’altro, con un leggero
colpo d’ala:
mentre un uomo che si arrampica
deve sbucciarsi le ginocchia e ricorrere
alla presa delle mani. La pietra tagliata
conforta i suoi piedi brancolanti. Ali lo sfiorano passando.
La poesia si eleva.
The Jacob’s Ladder
The stairway is not
a thing of gleaming strands
a radiant evanescence
for angels’ feet that only glance in their tread, and need not
touch the stone.
It is of stone.
A rosy stone that takes
a glowing tone of softness
only because behind it the sky is a doubtful, a doubting
night gray.
A stairway of sharp
angles, solidly built.
One sees that the angels must spring
down from one step to the next, giving a little
lift of the wings:
and a man climbing
must scrape his knees, and bring
the grip of his hand into play. The cut stone
consoles his groping feet. Wings brush past him.
The poem ascends.
2.”The Jacob’s Ladder” by Denise Levertov, from POEMS 1960-1967, copyright ©1961 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Settembre 1961
È l’anno in cui i vecchi,
i grandi vecchi
ci lasciano soli sulla strada.
La strada porta al mare.
Abbiamo in tasca le parole,
indicazioni oscure. I vecchi
hanno portato via la luce della loro presenza,
la vediamo allontanarsi in diagonale
su per una collina.
Non stanno morendo,
si sono chiusi
in un doloroso isolamento
imparando a vivere senza parole.
E.P. “È come morire”—Williams: “Non so
descriverti cosa mi
sta accadendo”—
H.D. “incapace di parlare”.
Il buio
si avvita nel vento, le stelle
sono piccole, l’orizzonte
racchiuso in una confusa bruma urbana.
Ci hanno detto
che la strada porta al mare,
e hanno affidato
la lingua alle nostre mani.
Sentiamo
i nostri passi ogni volta che un camion
ci supera abbagliandoci e scompare
lasciandoci un nuovo silenzio.
Non si arriva
al mare su questa strada senza
fine verso il mare senza
svoltare alla fine, sembra,
e seguire
il gufo che silenzioso la sorvola
di sghembo, avanti e indietro,
e via in boschi profondi.
Ma per noi la strada
si snoda, contiamo le
parole che abbiamo in tasca, ci chiediamo
come sarà senza di loro, non
smettiamo di camminare, sappiamo
che c’è ancora molta strada, a volte
pensiamo che il vento della notte porti
un odore di mare . . .
September 1961
This is the year the old ones,
the old great ones
leave us alone on the road.
The road leads to the sea.
We have the words in our pockets,
obscure directions. The old ones
have taken away the light of their presence,
we see it moving away over a hill
off to one side.
They are not dying,
they are withdrawn
into a painful privacy
learning to live without words.
E.P. “It looks like dying”—Williams: “I can’t
describe to you what has been
happening to me” —
H.D. “unable to speak.”
The darkness
twists itself in the wind, the stars
are small, the horizon
ringed with confused urban light-haze.
They have told us
the road leads to the sea,
and given
the language into our hands.
We hear
our footsteps each time a truck
has dazzled past us and gone
leaving us new silence.
One can’t reach
the sea on this endless
road to the sea unless
one turns aside at the end, it seems,
follows
the owl that silently glides above it
aslant, back and forth,
and away into deep woods.
But for us the road
unfurls itself, we count the
words in our pockets, we wonder
how it will be without them, we don’t
stop walking, we know
there is far to go, sometimes
we think the night wind carries
a smell of the sea . . .
3.”September, 1961” by Denise Levertov, from POEMS 1960-1967, copyright ©1964 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Il segreto
Due ragazze scoprono
il segreto della vita
in un verso improvviso di
poesia.
Io che non conosco il
segreto ho scritto
quel verso. Mi hanno
detto
(tramite una terza persona)
di averlo trovato
ma non quale fosse
e neppure
quale fosse il verso. Senza dubbio
adesso, più di una settimana
dopo, avranno dimenticato
il segreto,
il verso, il nome della
poesia. Le amo
per aver trovato quello
che io non riesco a trovare,
e per avermi amato
per il verso che ho scritto,
e per averlo dimenticato
così che
mille volte ancora, finché la morte
non le trovi, possano
scoprirlo nuovamente, in altri
versi
in altri
accadimenti. E per
averlo voluto conoscere,
per
aver pensato che tale
segreto esista, sì,
per questo
soprattutto.
The Secret
Two girls discover
the secret of life
in a sudden line of
poetry.
I who don’t know the
secret wrote
the line. They
told me
(through a third person)
they had found it
but not what it was
not even
what line it was. No doubt
by now, more than a week
later, they have forgotten
the secret,
the line, the name of
the poem. I love them
for finding what
I can’t find,
and for loving me
for the line I wrote,
and for forgetting it
so that
a thousand times, till death
finds them, they may
discover it again, in other
lines
in other
happenings. And for
wanting to know it,
for
assuming there is
such a secret, yes,
for that
most of all.
4.”The Secret” by Denise Levertov, from POEMS 1960-1967, copyright ©1964 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Parlare al dolore
Ah, dolore, non dovrei trattarti
come un cane randagio
che viene alla porta sul retro
per una crosta, per un osso spolpato,
dovrei fidarmi di te.
Dovrei accoglierti
in casa e darti
un angolo tutto tuo,
una logora stuoia su cui sdraiarti,
la tua ciotola dell’acqua.
Pensi che non sappia che vivi
sotto il mio portico.
Vuoi un posto tutto tuo
prima dell’inverno. Hai bisogno
di un nome,
un collare, una targhetta. Vuoi avere
il diritto di tenere lontani gli intrusi,
di considerare
tua la mia casa
e me la tua persona
e te
il mio cane.
Talking to Grief
Ah, grief, I should not treat you
like a homeless dog
who comes to the back door
for a crust, for a meatless bone,
I should trust you.
I should coax you
into the house and give you
your own corner,
a worn mat to lie on,
your own water dish.
You think I don’t know you’ve been living
under my porch.
You long for your real place to be readied
before winter comes. You need
your name,
your collar and tag. You need
the right to warn off intruders,
to consider
my house as your own
and me your person
and yourself
my own dog.
5.”Talking to Grief” by Denise Levertov, from POEMS 1972-1982, copyright ©1978 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Per i ciechi
Ascoltate: il vento sulle foglie nuove.
sussurra, più lieve del tocco delle dita,
di un filo di seta che scorre liscio tra le dita . . .
Quando i vedenti
parlano di bianco possono intendere
il silenzio del freddo cupo con cui l’inverno—
per quanto calde le vostre stanze
—aspetta alla porta.
(Ma c’è un altro tipo di bianco,
più simile all’assenza di peso di un fiocco di neve
di un petalo, di un ago di pino . . .)
Quando dicono nero possono intendere l’insistenza
del vento freddo che disperato, rabbioso
irrompe senza tregua tra i rami spogli.
(Ma c’è un altro tipo di nero,
pieno e rotondo come le note del violoncello e del tamburo . . .)
Ma questo:
questo brivido vitale, lieve
che si spande come una carezza
sulla nostra carne
quando le foglie sono umide e minute
e i venti sono gentili,
è verde. Un verde leggero. Non senza peso,
leggero.
For the Blind
Listen: the wind in new leaves
whispers, smoother than fingertips,
than floss silk smoothing through fingertips . . .
When the sighted
talk about white they may mean
silence of sullen cold, that winter—
no matter how warm your rooms
—waits with at the door.
(Though there’s another whiteness,
more like the weightlessness of a flake of snow
of a petal, a pine-needle . . .)
When they say black they may mean the persistence
of cold wind hopelessly, angrily
tearing and tearing through leafless boughs.
(Though there’s another blackness,
round and full as the notes of cello and drum . . .)
But this:
this lively, delicate shiver
that whispers itself caressingly
over our flesh
when leaves are moist and small
and winds are gentle,
is green. Light green. Not weightless,
light.
6.”For the Blind” by Denise Levertov, from POEMS 1972-1982, copyright ©1978 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Scrivere al buio
Non è difficile.
Comunque, è necessario.
Aspetta il mattino e avrai dimenticato.
E chissà se il mattino arriverà.
Cerca a tentoni la luce e sarai
del tutto sveglia, ma la visione
sbiadirà, scivolando
lontano.
Devi avere carta a portata di mano,
un pennarello—le biro non sempre scorrono,
le punte di matita tendono a spezzarsi. Non c’è niente
di vergognoso in tanta prudenza: sono i nostri ferri del mestiere.
Non preoccuparti dei trattini sulle t, dei puntini sulle i—
piuttosto fa’ attenzione a non coprire
una parola con la successiva. Sarà la pratica a mostrare
come una mano d’istinto aiuti l’altra
a tenere ogni verso
separato da quello che segue.
Continua a scrivere al buio:
una traccia della notte, o
parole che ti hanno strappato agli abissi dell’ignoto,
parole volate attraverso la mente, strani uccelli
che gridavano la loro urgenza con voci umane,
o che si aprivano
come i fiori di un albero che fiorisce
una volta sola nella vita:
parole che forse hanno il potere
di far sorgere di nuovo il sole.
Writing in the Dark
It’s not difficult.
Anyway, it’s necessary.
Wait till morning, and you’ll forget.
And who knows if morning will come.
Fumble for the light, and you’ll be
stark awake, but the vision
will be fading, slipping
out of reach.
You must have paper at hand,
a felt-tip pen—ballpoints don’t always flow,
pencil points tend to break. There’s nothing
shameful in that much prudence: those are our tools.
Never mind about crossing your t’s, dotting your I’s—
but take care not to cover
one word with the next. Practice will reveal
how one hand instinctively comes to the aid of the other
to keep each line
clear of the next.
Keep writing in the dark:
a record of the night, or
words that pulled you from depths of unknowing,
words that flew through your mind, strange birds
crying their urgency with human voices,
or opened
as flowers of a tree that blooms
only once in a lifetime:
words that may have the power
to make the sun rise again.
7.”Writing in The Dark” by Denise Levertov, from CANDLES IN BABYLON, copyright ©1982 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
A caccia della fenice
Sfoglia manoscritti scoloriti,
assicurati che nessuna parola
soffra la sete, sanguini
in attesa di essere salvata. No:
vecchi amori semi-
dichiarati, istanti strappati
al flusso della percezione
per giocare ‘alle statuine’,
e mai liberati—
non avevano sangue da versare.
Devi arrivare
proprio al nido di cenere
se speri di trovare
piume bruciacchiate, ossi d’ala roventi,
e un guizzo di fiamma che canta
e si riaccende.
Hunting the Phoenix
Leaf through discolored manuscripts,
make sure no words
lie thirsting, bleeding,
waiting for rescue. No:
old loves half-
articulated, moments forced
out of the stream of perception
to play ‘statue’,
and never released—
they had no blood to shed.
You must seek
the ashy nest itself
if you hope to find
charred feathers, smoldering flightbones,
and a twist of singing flame
rekindling.
8.”Hunting the Phoenix” by Denise Levertov, from BREATHING THE WATER, copyright ©1987 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Creare la pace
Una voce dal buio gridò,
‘I poeti devono darci
un immaginario di pace, per scalzare l’intenso, familiare
immaginario del disastro. La pace, non solo
l’assenza di guerra’.
Ma la pace, come una poesia,
non esiste prima di esserci,
non si può immaginare prima che sia creata,
non si può conoscere se non
nelle parole che la creano,
una grammatica di giustizia,
una sintassi di reciproco aiuto.
Un sentimento nei suoi confronti,
una vaga percezione del ritmo, è tutto quel che abbiamo
finché non cominciamo a pronunciarne le metafore,
imparandole mentre parliamo.
Un verso di pace potrebbe apparire
se riuscissimo a riformulare la frase che le nostre vite stanno creando,
a revocare la sua riaffermazione di profitto e potere,
a mettere in dubbio i nostri bisogni, a concederci
lunghe pause . . .
Una cadenza di pace potrebbe bilanciare il proprio peso
su quel diverso fulcro; la pace, una presenza,
un campo di forza più intenso della guerra,
potrebbe allora pulsare,
strofa dopo strofa nel mondo,
ogni atto di vita
una delle sue parole, ogni parola
una vibrazione di luce—facce
del cristallo che prende forma.
Making Peace
A voice from the dark called out,
‘The poets must give us
imagination of peace, to oust the intense, familiar
imagination of disaster. Peace, not only
the absence of war.’
But peace, like a poem,
is not there ahead of itself,
can’t be imagined before it is made,
can’t be known except
in the words of its making,
grammar of justice,
syntax of mutual aid.
A feeling towards it,
dimly sensing a rhythm, is all we have
until we begin to utter its metaphors,
learning them as we speak.
A line of peace might appear
if we restructured the sentence our lives are making,
revoked its reaffirmation of profit and power,
questioned our needs, allowed
long pauses . . .
A cadence of peace might balance its weight
on that different fulcrum; peace, a presence,
an energy field more intense than war,
might pulse then,
stanza by stanza into the world,
each act of living
one of its words, each word
a vibration of light—facets
of the forming crystal.
9.”Making Peace” by Denise Levertov, from BREATHING THE WATER, copyright ©1987 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Potere di poeta
In taxi da Brooklyn a Queens,
una grigia giornata di primavera. L’autista ispanico,
quando gli chiedo: ‘Es Usted Mexicano?’ mi dice
No, è un esule dell’Uruguay. E io dico,
‘Il solo uruguaiano che ho incontrato
era uno scrittore—forse
l’ha sentito nominare?—
Mario Benedetti?’
E lui stacca tutte e due le mani
dal volante e si gira,
raggiante di gioia: ‘Benedetti!
Mario Benedetti!!’
Ci sono
alleluia nella sua voce—
eseguiamo un 8
perfetto sull’autostrada splendente,
e ci solleviamo in alto, al di sopra del traffico, volando
per il resto del viaggio nel cielo azzurro, azul, azul!
- ”Poet Power” by Denise Levertov, from BREATHING THE WATER, copyright ©1987 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Celebrazione
Smagliante, questo giorno ̶ un giovane virtuoso, questo giorno.
Le ombre del mattino tagliate da forbici affilatissime,
mani esperte. E ogni prodigio di verde ̶
siano felci o licheni o aghi
o gemme impazienti su arbusti filiformi ̶
più verdi che mai.
E il modo in cui le conifere
offrono nuove pigne alla luce per la benedizione,
come nei giorni di festa, e intonano il canto oceanico che il vento
trascrive per loro!
Un giorno che splende nel freddo
come una premiata banda di ottoni che suona a ritmo di swing lungo la strada
di un paese impolverato di carbone, in disaccordo totale
con le pretese di una ragionevole tristezza.
Celebration
Brilliant, this day ̶ a young virtuoso of a day.
Morning shadows cut by sharpest scissors,
deft hands. And every prodigy of green ̶
whether it’s ferns or lichen or needles
or impatient points of bud on spindly bushes ̶
greener than ever before.
And the way the conifers
hold new cones to the light for blessing,
a festive rite, and sing the oceanic chant the wind
transcribes for them!
A day that shines in the cold
like a first-prize brass band swinging along the street
of a coal-dusty village, wholly at odds
with the claims of reasonable gloom.
11.”Celebration” by Denise Levertov, from THIS GREAT UNKNOWING, copyright ©1999 by The Denise Levertov Literary Trust, Paul A. Lacey and Valerie Trueblood Rapport, Co-Trustees. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.
Consapevole
Quando aprii la porta
trovai le foglie della vite
che parlavano tra loro in fitti
bisbigli.
La mia presenza le portò a smorzare
il loro verde respiro,
imbarazzate, come quando
gli umani si alzano, abbottonandosi la giacca,
come se stessero comunque andando via, come se
la conversazione fosse finita
un attimo prima del tuo arrivo.
Mi piacque
però, vedere di sfuggita
i loro gesti
oscuri. Mi piacque il suono
di voci così intime. La prossima volta
mi muoverò come la cauta luce del sole, aprirò
la porta un po’alla volta, origliando
in pace.
Aware
When I opened the door
I found the vine leaves
speaking among themselves in abundant
whispers.
My presence made them
hush their green breath,
embarrassed, the way
humans stand up, buttoning their jackets,
acting as if they were leaving anyway, as if
the conversation had ended
just before you arrived.
I liked
the glimpse I had, though,
of their obscure
gestures. I liked the sound
of such private voices. Next time
I’ll move like cautious sunlight, open
the door by fractions, eavesdrop
peacefully.
12.”Aware” by Denise Levertov, from THIS GREAT UNKNOWING, copyright ©1999 by The Denise Levertov Literary Trust, Paul A. Lacey and Valerie Trueblood Rapport, Co-Trustees.