Questa settimana ricorre il compleanno di Attilio Bertolucci, nato il 18 novembre 1911, figura cruciale della poesia italiana del Novecento. Anna Toscano gli ha dedicato un dossier speciale inedito, in tre puntate. Pubblichiamo oggi la prima e le altre due nei giorni a seguire.
Una vita a osservare la vita
Bertolucci è stato un “eccentrico e infaticabile pedalatore”, come amava definirlo Cesare Garboli, e nonostante i decenni e le mode poetiche la sua poesia continua a pedalare in mezzo a noi raccontando, regalando visioni di un mondo grande nel piccolo dell’inquadratura, giocando con le ombre, mostrando anche quando ci fa entrare la luce negli occhi e poi ci conduce in un interno casa, quasi tenendoci per mano finché non discopriamo le sagome di ciò che ci va descrivendo. A venti anni dalla sua morte la sua poesia corre lentamente tra le averse al sole e i papaveri, in un tramonto di ombre lunghissime.
Attilio, un infaticabile pedalatore anzi un “appiedato”, un po’ in disparte, inizia il cammino della propria vita nel 1911, data che lo pone sulla strada percorsa dai più insigni poeti della “terza generazione”, così lo colloca Marco Forti. Già la sua prima opera Sirio lo colloca ai margini di questa strada, e il poeta stesso di sé scrive: “tra i corridori in bicicletta ci sono quelli che si trovano bene nel gruppo perché si fanno aiutare dagli altri e i solitari che preferiscono fare la corsa da soli. A me è sempre piaciuto fare le mie corse da solo, a costo di arrivare fuori tempo”.
Bertolucci nasce dunque nel 1911 a sei chilometri da Parma, in una bella casa civile, come si diceva allora, per distinguerla dal rustico dove vivevano i contadini: dunque figlio di proprietari e conduttori di terre; della sua condizione di origine scriveva: “Mio padre e mia madre, di borghesia agraria entrambi, venivano da due sottospecie di detta borghesia: lontanissime, diversissime, addirittura antitetiche. Mio padre è nato in un paese, Casarola, che si trova sui mille metri […] Mia madre è nata in pianura […]. Sono nato e vissuto in campagna sino a sei anni, in quella specie di felice regno che può essere per un bambino un bel podere parmigiano”.
Questa infanzia felice e spensierata, in una campagna dove poter giocare non solo dunque nel giardino ma anche nei campi coltivati, questo poter spaziare liberamente nella natura e avere un contatto fisico con essa, influenzerà per sempre il poeta che attraverso l’occhio del puer conoscerà queste meraviglie.
A sei anni il piccolo Attilio viene mandato in collegio perché la scuola era troppo lontana da casa, “non perché fossi cattivo”, si affretta a specificare Bertolucci, “anzi ero buonissimo, tanto che se dovevo piangere, per non disturbare gli altri andavo a piangere di nascosto”. Questo distacco dalla famiglia e dalle sue abitudini gli procurerà un trauma, che lui stesso definirà fortissimo, ma sarà proprio da internato nel Convitto Nazionale Maria Luigia di Parma che nasceranno le prime poesie. Verso gli otto anni Bertolucci iniziava a scrivere le prime poesie e, senza firmarle, andava ad appoggiarle sul davanzale della finestra del maestro, volendo fargli credere che fossero state portate dal vento.
In questo inizio poetico precoce già si possono capire due elementi essenziali che ritorneranno in tutta la sua opera: da un lato la necessità di scrivere e farsi leggere e dall’altro il desiderio di nascondersi, di non rivelare il “vizio” della poesia.
A dieci anni continuava a scrivere e leggere poesie; da allora si possono datare i suoi anni di apprendistato poetico, con letture disordinate e casuali, ma talmente intense da fargli trascurare la scuola. Letture disordinate, il ragazzo si affidava all’unica collana economica di allora, la «Biblioteca Universale Sonzogno», dove poteva leggere Baudelaire e Walt Whitman.
Nel 1925 Bertolucci ricorda di essere stato tra i primi acquirenti degli Ossi di seppia e di aver acquistato i primi due volumi della Recherche a Venezia alla «Treves-Treccani-Tuminelli» in piazza San Marco: “cominciai a leggere immediatamente, follemente, i miei genitori non riuscirono più a stanarmi dalla stanza dell’albergo in cui, gran privilegio, potevo ritirarmi”.
Nel 1929, appena diciottenne, pubblica presso l’editore Minardi in Parma, la sua prima raccolta Sirio, dove troviamo, usando le parole di Pier Paolo Pasolini, “l’eccesso di poeticità prodotta dai silenziosi traumi giovanili, ipoteca di deformazione elegiaca e torbidamente religiosa”.
Del 1934 è la seconda raccolta, Fuochi in novembre, un prolungamento della prima e totalmente anacronistica rispetto al clima letterario del tempo.
Dopo quattro anni infruttuosi all’università di Legge, dove darà solo due esami, ma scriverà molte poesie, (“I miei speravano che la Legge mi desse una certa quadratura mentale”) Bertolucci in tre anni si laurea in Lettere a Bologna. Clima culturale favorevolissimo con Roberto Longhi docente e tra i compagni Giorgio Bassani, Francesco Arcangeli, Antonio Rinaldi, Franco Giovannelli e Augusto Frassineti.
Dovranno passare molti anni fino al 1951, perché vengano pubblicate Lettera da casa e La capanna indiana, composte tra il ‘47-’48 e il ‘50: in pochi anni di intenso lavoro Bertolucci ritrova la sua autentica voce. Il ventennio che separa Fuochi in novembre da Lettera da casa segna una battuta d’arresto nella produzione poetica di Bertolucci documentata anche dalle poche poesie pubblicate, allora, in rivista e mai raccolte in volume.
Sono anni in cui, tra l’altro, imperverserà la guerra; ma in Bertolucci, così portato a chiudersi e difendersi, questa esperienza si farà sentire più tardi, perché, secondo Pier Paolo Pasolini, in Bertolucci “la violenza delle esperienze è inversamente proporzionale agli effetti: dapprincipio egli reagisce col tacere, con l’ignorare, chiuso come un riccio nei dolci aculei del suo istinto di conservazione. Poi un po’ alla volta, col decrescere della violenza, cresce la sua volontà di capire, covata in silenzio: il dopoguerra per Bertolucci comincia nel’51, l’anno del distacco dai suoi luoghi”.
Sembra dunque essere rimasto felicemente immune dalle malattie spaventose della modernità, mentre in Ungaretti e Montale il trauma della modernità si avverte subito: ci si accorge immediatamente che è accaduto qualcosa di terribile nella continuità tra presente e passato. In Bertolucci ciò non avviene. Egli, usando le parole di Pasolini, “tace” e “ignora”, chiuso come un riccio nella sua Parma con i suoi amici dell’università e poi ancora con Spagnoletti, Guanda e molti altri. Una atmosfera quella di Parma di quegli anni che poi ritornerà esplicitamente nella sua poesia.
Nel 1951 avviene il trasferimento a Roma e l’abbandono di Parma, la sua dolce prigione. Uno sradicamento volontario che lo costringerà a una pendolarità senza scampo tra le due città e la difficoltà di coordinare il proprio passato e il proprio presente: il bisogno di chiudersi nel bozzolo e quello di andare al di là delle proprie radici.
L’intervallo molto ampio che separa La capanna indiana del 1951 da Viaggio d’inverno del 1971 ha un significato diverso dagli anni che dividevano Fuochi in novembre da La capanna indiana.
Sono vent’anni di intensa attività culturale: collaborazioni al terzo programma della Rai, consulenza alla Garzanti, redazione di riviste letterarie tra cui «Paragone», «L’Approdo letterario» e «Nuovi Argomenti».
Dal dopoguerra, dal 1955, per mantenere saldo il legame con le proprie origini e radici spezzate dal trasferimento, Bertolucci inizia a scrivere il romanzo in versi La camera da letto la cui prima parte verrà pubblicata solamente nel 1984 e nel 1988 la seconda.
Si tratta di una saga familiare e un romanzo della memoria, lo stesso autore ci fornisce indicazioni sul suo archetipo ispirativo: il manoscritto Memorie dei fatti straordinari successi alla casa Bertolucci ed altri degni di memoria nelli anni 1873 e negli altri progressivi, ritrovato nei cassetti della vecchia casa di famiglia.
Bertolucci sceglie la forma del poema “per fabbricare qualcosa di grande nel tempo e nello spazio”; vuole dunque dare una collocazione spazio-temporale a fatti ordinari e minimi, ma degni di memoria, accaduti alla famiglia Bertolucci in oltre un secolo di esistenza.
Se escludiamo la pubblicazione del poema da Viaggio d’inverno del 1971 dovremo aspettare altri vent’anni per leggere Verso le sorgenti del Cinghio, pubblicato nel 1993.
Oltre alla poesia, sua principale passione, rilevante è la collaborazione con riviste come «Letteratura» «Circoli» «Corrente» e l’aver fondato e diretto, per l’editore Guanda suo concittadino, l’importante collana di poeti stranieri «La Fenice».
La passione per la letteratura straniera, soprattutto anglosassone, è dimostrata dalle sue traduzioni e dalla antologia Poesia straniera del Novecento, edita da Garzanti nel 1957.
Come traduttore Bertolucci si è occupato di poeti di lingua inglese rinunciando a quei poeti francesi che pure gli erano vicini; come antologista e come estensore di brevi ma incisivi profili biografici formula, in modo indiretto, una propria poetica.
Alcune delle sue prose sono raccolte in Poetica dell’extrasistole, vero e proprio «diario» delle sue passioni: dalla narrativa alla poesia, dal cinema al teatro, e poi ancora il melodramma, la pittura, l’arte, gli incontri, le persone, il tutto sempre saldamente collegato alla propria storia.
Nel 1997 esce La lucertola di Casarola, raccoglie versi disseminati negli anni, versi racchiusi fra le date 1928-1996, le date della sua vita di poeta. Sembrerebbe che il tempo non avesse impolverato il verso bertolucciano, basta sostare tra i versi di questa raccolta per scorgere l’altrove sempre presente del poeta, un altrove con gli anni maggiormente reso più nostalgico dagli oggetti, suoi correlativi oggettivi. “Dietro il muro sbiadito e il marmo” Bertolucci in tutta la sua vita ha visto la poesia, ma l’ha vista anche guardando quel muro; così come in Aritmie la penna di uccello che gli cadde in casa in via del Tritone era foriera di riflessioni sulla vita in prosa, la lucertola di Casarola è vita che si condensa in poesia. Attilio muore nel Duemila, lasciando oltre a carte che nel tempo sarebbero state pubblicate, un immenso patrimonio che è quello di un uomo che osserva la vita.
Ma quale è la posizione storica di Bertolucci, rispetto all’Europa e alla tendenza ermetica. Lui si distanzia dalle caratteristiche della lirica europea del XX secolo; o almeno da quella lirica, secondo Friedrich, “difficilmente accessibile, che parla per enigmi e oscurità”. Nel suo linguaggio non si ritrovano quelle componenti di oscurità, di incomprensione, di dissonanza che i poeti a lui contemporanei utilizzano per creare una poesia che “trasfigura”. In questi poeti l’Io personale è un operatore della lingua che non partecipa alla rappresentazione come essere umano, fa uso di un vocabolario inconsueto approdando a una idea di lingua poetica come esperimento.
Tanto meno si può riconoscere nel nostro poeta parmigiano quella “drammaticità aggressiva” che H. Friedrich riscontra nella lirica europea di questo secolo: una drammaticità aggressiva che nasce quando il poeta si stacca dallo spazio armonico della società che occupa nel XIX secolo per porsi in opposizione a una società preoccupata di assicurarsi economicamente la vita. Ne deriva una rottura della tradizione e una tensione che tende all’inquietudine che domina la relazione tra temi e motivi, e tra poesia e lettore.
Bertolucci non si staccherà mai dallo spazio che occupa nella società, vivendo una “Storia minore” in cui porterà la propria storia: “in pochi poeti c’è una contrapposizione così netta della propria storia alla Storia” (H. Friedrich). Una “Storia minore” composta in prevalenza di piccoli fatti cittadini e di quel “fascino del microcosmo” fatto di infinite modulazioni e illuminazioni del reale. Quello di Bertolucci è dunque un piccolo mondo fonte di infinite osservazioni di uno stupore che accompagna sempre il suo sguardo: un piccolo mondo capace di un legame con l’infinito.
Unica fonte di tensione e inquietudine è rintracciabile nell’Io del poeta e non nel suo rapporto con la società.
Negli anni dell’esordio poetico di Bertolucci l’Italia era una provincia della letteratura occidentale e come tale seguiva lo spirito e le direzioni della poesia occidentale.
Nel 1920 in Italia veniva pubblicata Poeti d’oggi, una famosa antologia compilata da Giovanni Papini e Pietro Pancrazi; questa antologia è significativa perché aveva escluso di proposito i tre grandi capi che si erano trasmessi il predominio: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Questo poteva indicare due cose: o che era cominciata una letteratura senza capi, o che quel posto era vacante. In entrambe i casi, però, ciò sta a significare che l’Italia era pronta a captare e assorbire la maggiore tendenza della poesia occidentale di questo periodo: l’ermetismo.
L’ermetismo si sviluppa in Italia in due tappe. La prima intorno al 1930, quando si comincia a chiamare ermetica la cosiddetta poesia «pura». Questa denominazione di «ermetica» ha una portata polemica: gli avversari ne sottolineano così la difficoltà e l’inaccessibilità. La seconda tappa ufficiale dell’ermetismo si produsse verso il 1938 e indicò una vera e propria poetica consapevole con fini e modi propri.
Bertolucci, con la sua prima raccolta Sirio, del 1929, è dunque contemporaneo al primo ermetismo, ma con la sua poesia riuscirà a essere “inattuale”, al di fuori di ogni movimento precostituito.
Importante è anche vedere in quale contesto culturale Bertolucci è vissuto, come era Parma quando viveva ancora in campagna e ne assorbiva già l’influenza, e come era quando si è trasferito in città.
Non si può dunque non dare uno sguardo a quella che Pasolini chiamò «officina parmigiana» di poesia e non notare il rapporto che c’è tra sperimentalismo e tradizione, una «officina» divisa da un intenso gusto sperimentale e un altrettanto intensa pulsione conservativa.
Parma rappresentava nei primi cinquant’anni del’900 un centro di incontri civili in cui allo scrittore risultava possibile avvertire l’ampliarsi dei propri orizzonti venendo a contatto con una tradizione fortemente radicata: in essa, da una parte, dominava il buon gusto e, dall’altra, la ricerca di un aggiornamento culturale anche extra europeo. Basta fare qualche nome di letterati, critici e artisti attratti come falene dalla lampada parmense, e su di essa esercitanti un qualche influsso: da Barilli ad Aldo Borlenghi, a Oreste Macrì, Mario Luzi, Giacinto Spagnoletti Roberto Longhi, Giorgio Morandi, Idelbrando Cocconi, Cesare Zavattini, Pietro Bianchi, Carlo Mattioli , solo per citarne alcuni: “ciò che si chiama un’atmosfera nutrita di una ritualità «provinciale» per ironia: incontri-scontri, malizie, sensualità stupefatta: quanto poté essere Parma, nel breve giro di sillabe del suo nome”, come sottolinea Cusatelli.
Il movimento artistico d’avanguardia che fiorisce a Parma dal 1911 al 1923 si presenta come un organismo composito e articolato; vi erano intensi rapporti tra gli intellettuali parmigiani e F. T. Marinetti, testimoniati dalla sua collaborazione a riviste locali già dal 1906. Ci fu la costituzione di un Circolo Giovanile Futurista che diffondeva le idee dell’avanguardia attraverso movimentate conferenze sia nei circoli intellettuali che negli ambienti popolari. L’atteggiamento filo-futurista del gruppo sindacalista della Camera del Lavoro ebbe grande influenza presso le classi lavoratrici che si trovarono più futurizzate dei circoli universitari e intellettuali, elemento questo unico nel panorama nazionale. Tutte queste tendenze troveranno coagulo nel 1911 nella rivista culturale «Medusa» che l’anno successivo assorbirà «L’Incendiario», rivista del C.G.F.
Grande peso ebbe poi l’influenza dannunziana, la tensione prodotta dalla Prima guerra mondiale e l’amarezza di un regime che toglieva alla poesia energie e slancio. Parma, come tante altre città, era soffocata in una atmosfera dolorosa in cui però poteva nascere una diffusa commozione umana. Luogo ideale per questa dilaniata umanità era da una parte il colloquio con la natura vista come energia capace di offrire all’uomo nuove prospettive, dall’altra un tentativo di rifarsi alle origini, alla tradizione. Entrambe queste due «scappatoie» possono essere facilmente rintracciabili in Bertolucci.
In questo ambito possiamo collocare la pasoliniana «linea parmigiana». Secondo Pasolini la poesia prodotta a Parma non era una merce locale, con caratteristiche del luogo, ma era riconducibile a una linea marcata. Pasolini parlava di una «linea parmigiana» facente parte della più lunga «linea emiliana».
Alla più lunga «linea emiliana» appartengono Pascoli e Serra, romagnoli, Bassani, Arcangeli, Rinaldi, Giovannelli, Roversi e Leonetti, operanti a Bologna.
Pasolini riconduce alla «linea parmigiana» oltre a Bertolucci anche Gian Carlo Conti, Il ventenne Alberto Bevilacqua, Giorgio Cusatelli, Gian Carlo Artoni e il quindicenne Bernardo Bertolucci.
Specificatamente di Attilio Bertolucci dice:
“[…] la realtà è che non si trattava di un caso felice che Parma venisse a costituire uno dei centri della cultura ermetica nel suo momento, però ormai tendenzialmente antiermetico, e antifascista per definizione: che vi si realizzasse, insomma, la poesia di Bertolucci”.
Ma questa «parmigianità» non è solamente una collocazione geografica o il riferimento di un particolare modo di fare poesia bensì è una vera e propria caratteristica che per spiegarne l’essenza Bertolucci stesso utilizza una frase del “più grande dei parmigiani, Verdi”: “la parmigianità è un’invenzione dal vero”.
Per rintracciare gli autori che hanno esercitato una qualche influenza su questo poeta lontano da ogni movimento precostituito, estraneo un po’ per natura e un po’ per convinzione alle poetiche novecentesche della parola , dobbiamo rifarci più addietro: da Pascoli ai crepuscolari, sino al realismo minore ottocentesco e al Carducci paesista, passando anche dai prediletti anglosassoni, tra cui Thomas Hardy, e dai francesi più lievi (Toulet, Apollinaire), con un ritorno anche al Leopardi idillico.
Bertolucci è un epigono rispetto al suo tempo solo per questi attacchi culturali perché la tematica delle sue opere è chiusa in un autobiografismo difensivo ed elegiaco, che si nutre degli affetti familiari, della campagna circostante e di Parma immutabile all’orizzonte.
Bertolucci alle sue origini poetiche fu dunque un isolato nel panorama contemporaneo europeo, italiano e parmigiano, influenzando però tutta la poesia emiliana.
Sirio, la sua prima raccolta, viene pubblicata nel 1929 in pieno ermetismo, solo quattro anni dopo la seconda antologia poetica del futurismo, che ne indica già l’estenuazione, e sempre quattro anni dopo la pubblicazione degli Ossi di seppia che toccano subito e a fondo poeti più anziani, Saba, Solmi, conducendoli ad una svolta, ma che non coinvolgono l’ermetismo.
Secondo Mengaldo i poeti di questo periodo o sono ermetici o vengono indicati come paralleli o tangenti all’ermetismo; constatando in quest’ultimi delle caratteristiche seppur «deboli» dell’ermetismo. Divide cioè l’ermetismo in un ermetismo «forte» e in un ermetismo «debole» in base a una definizione linguistica. Mengaldo fa rientrare Bertolucci, con Caproni e Sereni, nell’ermetismo «debole» constatandone però una radicale distanza perché “non solo rifiuta o pratica del tutto saltuariamente le novità linguistiche della «scuola», ma oppone a quelle tratti stilistici suoi del tutto allotrii”.
Forse sarebbe stato interessante vedere come Giacomo Debenedetti avrebbe inserito Bertolucci nel suo Poesia Italiana del Novecento dove segue l’evolversi del fenomeno letterario da una condizione, l’ermetismo, a una condizione contraria, cioè la poesia impegnata, passando per due poeti fuori dalla corrente predominante, ma non per questo fuori dalla storia: Saba e Penna.
Forse la collocazione di Bertolucci sarebbe stata proprio tra questi due ultimi. Avvicinabile a Saba perché come lui è un “uomo immerso nella propria storia individuale come storia dei fatti, e partecipe della storia e della vita quotidiana di tutti” (Debenedetti).
Ed è anche avvicinabile a Penna nel considerare “il momento lirico non isolato, estraniato come oggetto irrelativo: questo momento è messo in rapporto immediato col soggetto che lo coglie” (ididem) si distanziano cioè da quel modello europeo di poeta, a cui ho già accennato, come operatore della lingua, per riallacciarsi alla tradizione italiana di poeti protagonisti.
In Saba, Penna e Bertolucci non c’è stato alcun entusiasmo per le avanguardie e le innovazioni tecniche; questi tre poeti danno l’impressione di avere un rapporto spontaneo con la tradizione: usano delle rime, a volte sembra che mettano in prosa, che trascrivano in versi liberi o in prosa ritmica immagini che vengono da lontano. La tradizione torna con una familiarità come se la lingua poetica del passato non fosse perduta o minacciata.
Perfetta la collocazione che ne dà Pier Paolo Pasolini:
“[…] la sua «inattualità» (1934-1950) rispetto all’ermetismo, è in effetti «attualità» rispetto se non proprio al realismo, alla tendenza più viva – anti-novecentesca – della poesia del Novecento: fino a prefigurare molti dei modi poetici dei neorealisti”.
Confermata anche dallo stesso Bertolucci:
“Ho sempre avvertito, con fastidio, una sorta di prepotenza nei movimenti. Il movimento mio coetaneo d’allora era l’ermetismo, dal quale mi sentivo lontano, anche se intrattenevo rapporti di stretta amicizia con il suo poeta più autentico, Mario Luzi, e con il suo critico più fervido, Carlo Bo”.
Un Bertolucci decisamente non ermetico dunque, un po’ «neocrepuscolare» e «impressionista» come ama definirsi lui: “cercavo con la mia poesia di ottenere un po’ di luce vera”, da bravo parmigiano, dunque, secondo Verdi. Impressionista in quanto parte sempre da una estrema fedeltà al dato concreto, reale, “annotando con acribia quasi maniacale tutte le variazioni di luce e di clima che possono verificarsi nel corso di un giorno o di un anno”.
Questa è la sua «invenzione» del reale che si traduce in una immersione in esso inerte ma vigile e ardente.
Quello dell’impressionismo trasportato in letteratura è sempre stato un chiodo fisso in Bertolucci tanto che se di letteratura deve parlare usa come parallelo un pittore impressionista: per parlare della Mansfield cita Bonnard.
Ma in realtà Bertolucci attua uno stravolgimento lieve sia a impressionismo che crepuscolarismo, come ci spiega Zanzotto.
“Egli ne sceglie parecchi elementi facendoli poi virare in una luce di assolutezza che si dilata parallela alla poesia pura. Sotto le lacche limpidissime di Bertolucci ogni prosasticità, o, all’opposto, ogni cantabilità, si trasfigurano; tutto entra come un’atemporale ambra, in un non luogo timbrico, pur conservando l’aura libera, la sensitività e persino la «resistenza» di ciò che è vivente”.
Guardando il cammino della poesia di Bertolucci, in una prospettiva di molti anni e una serie di libri, si individua una linea sinuosa ma non interrotta che va da una sorta di impressionismo adolescenziale a un tempo di realismo affettuoso, familiare, domestico per giungere in Viaggio d’inverno a una interiorizzazione del paesaggio, della durata temporale, delle figure umane e per concludere con Verso le sorgenti del Cinghio un’opera che sintetizza e ridà luce ai maggiori temi bertolucciani.
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