Avrei voluto urlare, e ero muto:
la mia religione era un profumo.
Ed eccolo ora qui, uguale e sconosciuto,
quel profumo, nel mondo, umido
e raggiante: e io qui, perso nell’atto
sempre riuscito e inutile, umile
e squisito, di scioglierne l’intatto
senso nelle sue mille immagini…
Mi ritrovo tenero come un ragazzo
all’entusiasmo misterioso, selvaggio,
come fu in passato, e stente
lacrime mi bagnano la pagina
alla vista, nel solicello ardente,
di quei due, che – loro sì ragazzi –
si perdono svelti, beatamente,
nella ricca periferia, sotto terrazzi
pieni di sereno cielo di mare,
mattutini balconi, attici
dorati da un sole già serale…
Il senso della vita mi ritorna
com’era sempre allora, un male
più cieco se stupendamente colmo
di dolcezza. Perché, a un ragazzo, pare
che mai avrà ciò che egli solo
non ha mai avuto. E in quel mare
di disperazione, il suo furioso sogno
di corpi, crede di dover pagare
con l’essere follemente buono…
Così, se bastano due giorni
di febbre, perché la vita sembri
perduta e intero torni
il mondo (e niente m’inebbri
altro che rimpianto) al mondo io,
nel grande e muto sole di settembre,
morendo, non saprei che dire addio…