Otto anni fa moriva Lucio Dalla, il mio cantautore preferito. Questo è il pezzo che ho scritto su di lui nell’antologia LA CANZONE ITALIANA 1861-2011, da me curata e pubblicata da Mondadori-Ricordi nel 2011. All’indomani della sua morte, fu ripubblicato su “Il Foglio”.
Per cinque anni – e precisamente dal 1977 al 1981 – Lucio Dalla ha rasentato la
perfezione, come forse mai nessuno nella musica leggera italiana prima e dopo di lui. Gli album COME È PROFONDO IL MARE (1977), LUCIO DALLA (1979) e DALLA (1980) – con il corollario del live BANANA REPUBLIC (1979) in coabitazione con De Gregori e del mini-lp DALLA Q-DISC (1981) – stanno a testimoniare di una creatività straripante e soprattutto di una felicità assoluta; felicità intesa come gioia pura del cantare e fare musica, libido nell’atto creativo che magicamente lascia traccia di sé negli esiti: ascoltare Dalla, quel Dalla, migliora la qualità del tempo speso a farlo non tanto perché ci si sente intellettualmente sollecitati o perché si resta intrappolati dal potere incantatorio della musica, ma perché quelle note, quella voce sprigionano un’energia positiva davvero contagiosa. E questo, nonostante il mondo che lui racconta sia sempre sull’orlo della catastrofe, pieno di malefici uccellacci, di russi ed americani col dito pronto a premere un bottone rosso, di angeli di Dio che bestemmiano e prigionieri coi piedi insanguinati, sotto un cielo da cui penzola «una stella senza luce», che poi si rivela essere «quella del brodo Star». Un mondo che ai «pesci, dai quali discendiamo tutti, […] indubbiamente» deve «sembrar cattivo»; ma tra questo sfondo minaccioso e l’uomo – ecco il miracolo che compie Dalla – c’è tutto il “magico quotidiano” (fatto di tutto e di niente, di incontri, di amori, di sogni), che l’uomo stesso scatena dal suo “io” perché intervenga a mutare il senso, se non il corso, delle cose. La “vittima della storia” diventa così la misura di una vita degna di essere vissuta e “bella da cantare”, se non altro per il fatto di sapersi riprodurre e di produrre sogni, di soffrire l’amore e le ingiustizie, di amare, di godere, di avere paura per sé e per i figli. A un manipolo di dèi che si pettinano aspettando l’Apocalisse, l’uomo può così rispondere:
e per che cosa mi dovrei pentire,
di giocare con la vita e di prenderla per la coda?
Tanto un giorno dovrà finire
e poi, all’eterno ci ho già pensato:
è eterno anche un minuto, ogni bacio ricevuto
dalla gente che ho amato».
Prima di quel Lustro d’Oro, c’è stata per Dalla una gavetta lunghissima, iniziata nel 1958: «mia madre», ricorderà, «non si è mai opposta al fatto che io facessi il musicista. Anzi, era molto soddisfatta; tant’è che io con un po’ di amarezza smisi di andare a scuola in quinta ginnasio per andare a suonare a Roma e avevo dei dubbi che mi levò lei. “No”, disse, “va’ a Roma immediatamente a suonare e a divertirti! È meglio avere un artista in casa che un bidello”». Il ragazzo suona con Chet Baker («Chet Baker viveva a Bologna, e c’erano vari gruppi che lo accompagnavano; io ero uno dei più presenti perché mancava sempre il clarino»), fa da session-men nei dischi balneari di Edoardo Vianello, e nel 1963 viene convinto da Gino Paoli ad usare la voce per cantare e non solo per prodursi in folli skat. Nel 1966 la Arc gli pubblica un album intitolato 1999, dove vengono raccolti tutti i 45 giri incisi nel biennio precedente, quando hanno provato a lanciarlo come cantante soul, una sorta di clone di Fausto Leali. C’è anche “Paff… bum!” che Dalla ha presentato a Sanremo assieme agli Yardbirds. TERRA DI GAIBOLA (1970) e STORIE DI CASA MIA (1971) sono gli album che completano la prima trilogia discografica del Nostro; le musiche le compone lui, i testi sono affidati a Sergio Bardotti, Paola Pallottino e Gianfranco Baldazzi, alcune canzoni diventeranno dei classici: “Occhi di ragazza” (già interpretata da Morandi), “Itaca”, “Il gigante e la bambina” (scritta per Ron) e soprattutto “4/3/43”, presentata al Sanremo ’71. Un anno dopo, Dalla tornerà al Festival con “Piazza Grande”:
Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
sulle panchine in Piazza Grande,
ma quando ho fame di mercanti come me
qui non ce n’è.
Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me,
gli innamorati in Piazza Grande:
dei loro guai dei loro amori tutto so,
sbagliati e no».
“4/3/43” e “Piazza Grande” sono due canzoni d’impianto “nazional-popolare”, che danno al bolognese la prima notorietà, ma che non riescono a soddisfarlo pienamente dal punto di vista artistico. L’incontro col poeta Roberto Roversi inaugura la seconda fase della carriera di Dalla, quella più sperimentale, concretizzatasi in una nuova trilogia: IL GIORNO AVEVA CINQUE TESTE (1973), ANIDRIDE SOLFOROSA (1975) e AUTOMOBILI (1976). A far scoccare la scintilla fra i due, dopo qualche prova alla Libreria Palmaverde di Bologna, fu il verso «nevica sulla mia mano», da “La canzone d’Orlando”. «Rimasi come scioccato da questo meccanismo», ricorda Dalla, «e da lì cominciammo ad andare avanti. […] Roversi mi ha insegnato cose in insegnabili. Per partenogenesi, per osmosi, tirandomi da lontano delle freccine con la cerbottana mi ha fatto capire delle cose che non avrei mai capito né a scuola né da solo né andando tre volte sul monte Sinai. Ho capito soprattutto l’organizzazione del pensiero della canzone, la parola, il senso, il segno, la forza».
Roversi vuole fare “canzoni civili”, e ne scrive parecchie: sul primo disco ci sono “L’auto targata ‘To’”, sugli emigrati, e “L’operaio Gerolamo”, che parla degli incidenti sul lavoro. ANIDRIDE SOLFOROSA è un album sull’inquinamento ambientale e fieramente anticapitalista (“La borsa valori”). AUTOMOBILI è un capolavoro di poesia in musica, un concept-album, un poema eroicomico sulla Fiat, le corse, Nuvolari, il mito futurista delle macchine. L’incipit è una irresistibile “Intervista con l’Avvocato”:
Buongiorno, grazie Avvocato,
sono del “Manchester Guardian”.
Non le farò perdere tempo;
questa è la prima domanda:
la Fiat nella sola Torino
ha centoventimila operai,
quindicimila le industrie
legate a questo destino. […]
Ora sbaracca a Vòlvera la fabbrica con i ricambi,
la fonderia a Crescentino?
La risposta di Agnelli è un esilarante e incomprensibile scat di Dalla… Poi si fa un balzo indietro in una Italia bombardata e contadina dove ancora le velocità inusitate del motore a scoppio sono sintomo e simbolo di progresso; […] un’Italia dove si aggira ancora “una morte secca per i campi a falciare il grano”: è “Mille miglia” – divisa in due parti –, la cronaca di quel grandioso spettacolo, una cosa alla Cecil De Mille, racconto di eroi come Arcangeli, Varzi, Campari, Biondetti e poi lui, Nuvolari, il campione a cui è dedicata la canzone eponima. Un capolavoro pseudofuturista:
Nuvolari è basso di statura,
Nuvolari è al di sotto del normale.
Nuvolari ha cinquanta chili d’ossa,
Nuvolari ha un corpo eccezionale.
Nuvolari ha le mani come artigli,
Nuvolari ha un talismano contro i mali,
il suo sguardo è di un falco per i figli,
i suoi muscoli sono muscoli eccezionali.
Gli uccelli nell’aria perdono l’ali
quando passa Nuvolari.
Quando corre Nuvolari mette paura
perché il motore è feroce
mentre taglia ruggendo la pianura.
Gli alberi della strada
strisciano sulla biada,
sui muri cocci di bottiglia
si sciolgono come poltiglia,
tutta la polvere è spazzata via.
Quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari
la gente arriva in mucchio e si stende sui prati.
Quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari
la gente aspetta il suo arrivo per ore e ore
e finalmente quando sente il rumore
salta in piedi e lo saluta con la mano,
gli grida parole d’amore
e lo guarda scomparire
come guarda un soldato a cavallo,
a cavallo nel cielo d’aprile.
Nuvolari è bruno di colore,
Nuvolari ha la maschera tagliente.
Nuvolari ha la bocca sempre chiusa,
di morire non gli importa niente.
Corre se piove, corre dentro il sole,
tre più tre per lui fa sempre sette,
con l’Alfa rossa fa quello che vuole
dentro il fuoco di cento saette.
C’è sempre un numero in più nel destino
quando corre Nuvolari.
Quando passa Nuvolari
ognuno sente il suo cuore vicino:
in gara a Verona è davanti a Bordino.
Con un tempo d’inferno,
acqua, grandine e vento,
pericolo di uscire di strada,
a ogni giro un inferno,
ma sbanda striscia è schiacciato,
lo raccolgono quasi spacciato.
Ma Nuvolari rinasce come rinasce il ramarro:
batte Varzi e Campari,
Borzacchini e Fagioli,
Brilli-Peri e Ascari.
“L’ingorgo” e “Il motore del Duemila” sono le due facce della stessa medaglia: realtà e mitologia del mostro tecnologico creato da un mondo-industria che non sa immaginare il futuro. Il finale è cinematografico:
dall’alto piove una neve verde
portata dall’ombra della sera;
scoppiano tre stelle all’improvviso,
enormi come un grande riflettore,
sopra all’auto scalcinata
al margine di un campo,
dentro a un’auto in demolizione
dove due ragazzi senza tempo
fanno l’amore».
«Alla fine Roversi si ritirò», ricorda Dalla. «Fu un trauma. Dopo Roversi non avrei mai immaginato di poter scrivere testi con altri. È come quando scopi con la Schiffer; a un certo punto lei non c’è più e al suo posto c’è un pastore tedesco. Allora capii che dovevo cominciare a scrivere i testi delle mie canzoni». È l’estate del 1977: Dalla si ritira nella sua casa alle Tremiti e tira fuori otto canzoni. «All’inizio è stato difficile. Ma dopo i primi tre o quattro versi, ho capito che non solo era necessario, ma anche divertente…» Quando in autunno esce COME È PROFONDO IL MARE, le prime reazioni sono stupite: possibile che un mese di isolamento da parte di un musicista che non hai mai sviluppato un proprio linguaggio letterario possa dotarlo della tecnica e dell’ispirazione necessaria a scrivere versi così belli? Sono accessibili e aperti, divertenti e anomali: prese di coscienza in flussi di coscienza; licenze a “delirar per vero”. Lucio è navigatore e superstite nel mezzo d’un mare come un fuoco. È l’Ulisse che canta con tensione poetica la forza dell’amore e il coraggio nella disperazione, attraversando la storia umana, tra ricordo e irrazionale, sorpreso e allucinato.
Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte
per paura degli automobilisti, dei linotipisti,
canta nella title-track, disegnando un paesaggio soffocante e ostile; e in “Quale allegria” – forse l’episodio più alto del disco –:
senza allegria,
uscire presto la mattina,
la testa piena di pensieri,
scansare macchine, giornali,
tornare in fretta a casa;
tanto oggi è come ieri.
“Il cucciolo Alfredo” è ambientata «tra le case e i palazzi di una strada all’inferno»; ma – ecco lo “scarto” tipico in Dalla – al protagonista, «avvilito e appuntito, con i denti da lupo tradito, basta cantare «in modo diverso la canzone senza note di uno che si è perso, canzone diversa ma canzone d’amore», ed ecco che l’oscena realtà è solo un drappo da scostare: «se la sua è cattiveria io la prendo per mano e ce ne andremo lontano». Così, il disperato personaggio dell’erotico stomp, rinchiuso nel suo appartamento, pensa
a delusioni, a grandi imprese…
a una tailandese;
ma, dice, l’impresa eccezionale,
dammi retta, è essere normale.
Quindi, normalmente,
sono uscito dopo una settimana:
non era tanto freddo e normalmente
ho incontrato una puttana.
A parte il vestito, i capelli,
la pelliccia e lo stivale,
aveva dei problemi anche seri
e non ragionava male.
Non so se hai presente una puttana
ottimista e di sinistra…
Non abbiamo fatto niente, ma son rimasto solo,
solo come un deficiente.
Ricorrerà – e sarà un passo celeberrimo, in qualche modo “rivoluzionario” – alla masturbazione, ma noi gli prestiamo le parole di un altro pezzo dell’album:
io me ne vado via
dove se apri le orecchie
non le chiudi per la rabbia e lo spavento,
dove puoi rinunciare alla gioia
per una sottile tenerezza,
dove puoi uccidere il tuo passato
o il Dio che ti ha creato […]
e correre insieme agli altri
ad incontrare il tuo futuro
che oggi è proprio tuo.
L’umanità in Dalla vince sempre. Lui spiega: «io amo la realtà anche quando è orribile. Amare la realtà significa presentarla attraverso meccanismi accessibili. Significa trovare in ogni momento quel barlume di ottimismo che ti aiuta ad andare avanti pur continuando a osservare, a tenere gli occhi bene aperti sul mondo. Vedere il lato buono in ogni cosa è una conquista che costa fatica».
La musica, poi, tirata a lucido, amplifica lo spettacolo, complice il gioco di squadra tra Dalla e i produttori Alessandro Cremonini e Renzo Cremonini; oltre a Sandro Centofanti e Ron, che si dividono le tastiere con Lucio la band che per due settimane registra il tutto negli studi romani è il nucleo degli Stadio: Fabio Liberatori (effetti elettronici), Marco Nanni (basso) e Giovanni Pezzoli (batteria). Un anno più tardi si aggiungerà Ricky Portera alla chitarra elettrica e andranno tutti a registrare il nuovo album al Castello di Carimate. Il titolo è, semplicemente, LUCIO DALLA ed esce nel febbraio del 1979: non un elemento fuori posto. Non un verso, non un passaggio, non una nota che non dovrebbero stare dove stanno. Si ha la sensazione di ritrovarsi di fronte ad un unicum, un qualcosa che non è riuscito neppure a Battisti e a De André e che con assoluta probabilità non succederà più: parliamo del disco perfetto. Sembra che Dalla abbia trovato l’alchimia giusta per dire ciò che sente, anche le cose più difficili e contorte, con una fluidità di scrittura che sembra piovuta dal cielo, una manna di cui cibarsi. […] Ogni minimo particolare, ogni suono è stato levigato, ripulito.
Si parte dallo scenario apocalittico di “L’ultima luna”, un mondo al suo ultimo giorno con le scimmie per strada, signori eleganti con le orecchie insanguinate, file di prigionieri in ceppi: finché non
sospesero i giochi e si spensero le luci,
cominciò l’inferno;
la gente corse a casa perché per quella notte
ritornò l’inverno.
A questo punto parte l’assolo chitarristico di Portera – uno dei due-tre più celebri della storia della nostra canzone – al termine del quale ci si presenta questa scena kubrikiana:
l’ultima luna
la vide solo un bimbo appena nato:
aveva occhi tondi e neri e fondi
e non piangeva;
con grandi ali prese la luna tra le mani,
tra le mani,
e volò via e volò via:
era l’uomo di domani.
La seconda traccia, “Stella di mare”, è un crescendo mozzafiato, in cui il pianoforte s’arrampica sul ritmo dettato dal basso di Nanni (protagonista di tutto il disco) e la batteria di Pezzoli:
così stanco da non dormire.
Le due di notte: non c’è niente da fare.
Mi piace tanto poterti toccare
o stare fermo e sentirti respirare.
“La signora” è l’amaro ritratto delle insoddisfazioni borghesi; “Tango” si apre con gli archi arrangiati da Reverberi e la fisarmonica di Gianni Ziglioli e si chiude con una quartina fulminante:
Morena è lontana e aspetta,
suona il suo violino ed è felice:
nel sole è ancora più bella e non ha fretta,
e sabato è domani.
La dolcissima “Notte” è un tipico stream of consciousness dalliano, con alcuni versi mozzafiato:
notte bianca come il vestito di una sposa,
in leggera discesa
così che il corridore stanco si riposa,
dura da masticare,
a pezzi tra i denti,
notte da sputare,
così noiosa che si addormenta sul divano
e mi viene addosso.
“L’anno che verrà” è l’ennesimo squarcio visionario: «c’è una certa amarezza che gira per la canzone», spiega Dalla; «perché in fondo è una canzone che parla di noi: “sacchi di sabbia alla finestra”. Li mettono adesso: questo è il paese degli antifurti. È un discorso pessimista, in qualche modo; però c’è, alla fine, il riscatto: anche se l’anno prossimo sarà brutto, io ci voglio essere. È questa la novità».
E poi c’è “Anna e Marco” – forse la canzone della vita. Cinema in miniatura, coi due giovani protagonisti che vivono in periferia il disagio della loro condizione esistenziale, apparentemente senza futuro e destinata a risucchiarli in una vita fatta di routine e fughe in città il sabato sera, per sognare una ipotetica America, simbolo di una dimensione di vita diversa e più gratificante. Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna, e allora conviene cercare di cambiare almeno qualcosa, visto che non si può cambiare per intero la direzione della propria vita; e quale miglior cambiamento che iniziare una storia d’amore, proprio loro due, Anna e Marco?
Anna come sono tante,
Anna permalosa,
Anna bellosguardo,
sguardo che ogni giorno perde qualcosa.
Se chiude gli occhi lei lo sa,
stella di periferia…
Anna con le amiche,
Anna che vorrebbe andar via.
Marco, grossescarpe e poca carne,
Marco cuore in allarme,
con sua madre e una sorella;
poca vita, sempre quella.
Se chiude gli occhi lui lo sa,
lupo di periferia …
Marco col branco,
Marco che vorrebbe andar via.
E la luna è una palla
ed il cielo è un biliardo;
quante stelle nei flippers:
sono più di un miliardo.
Marco dentro a un bar
non sa cosa farà;
poi c’è qualcuno che trova una moto:
si può andare in città.
Anna, bellosguardo, non perde un ballo,
Marco che a ballare sembra un cavallo;
in un locale che è uno schifo:
poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo.
Ma dimmi tu dove sarà,
dov’è la strada per le stelle?
Mentre ballano, si guardano
e si scambiano la pelle
e cominciano a volare,
con tre salti sono fuori dal locale:
con un aria da commedia americana
sta finendo anche questa settimana.
Ma l’America è lontana:
dall’altra parte della luna,
che li guarda – e anche se ride,
a vederla mette quasi paura.
E la luna in un silenzio
ora si avvicina,
con un mucchio di stelle
cade per strada:
luna che cammina,
luna di città…
Poi passa un cane che sente qualcosa,
li guarda, abbaia e se ne va.
Anna avrebbe voluto morire,
Marco voleva andarsene lontano.
Qualcuno li ha visti tornare
tenendosi per mano.
Rivela Dalla: «io ho due protagonisti fissi, ideali, che sono Lui e Lei. Innanzi tutto non sono generazionali ma plurigenerazionali; possono essere ragazzini come Anna e Marco o i due adulti di “Futura”, o i vecchi di “Ciao”. […] I grandi ragionamenti li fanno [loro], i protagonisti, e li fanno perché gli cadono addosso, come una nevicata, perché sono stupefatti da un tramonto o perché non gli si infila il bigolo nel posto giusto… Quindi la scrittura di una canzone è sempre sceneggiatura, ciò mi consente di creare una forma di esasperazione dei sentimenti che se dovessi costruirla su di me sarebbe una falsificazione assoluta, visto che sono tutt’altro che esasperato. Mi dispiace dover ammettere pubblicamente di essere un tipo tranquillo; può succedermi di tutto, può arrivare un’eruzione dell’Etna a portarmi via la casa, ma ritengo che al mondo non ci sia niente di veramente definitivo e letale».
In LUCIO DALLA c’è pure “Cosa sarà”, un pezzo cantato in duetto con Francesco De Gregori e già uscito – in una differente versione – come lato b del 45 giri “Ma come fanno i marinai” nel dicembre del 1978. L’8 luglio di quell’anno, Lucio e Francesco avevano richiamato quarantamila persone al Flaminio di Roma. Quella del ’79 sarà la loro estate col tour negli stadi di Banana Republic, da cui scaturirà l’omonimo album live. Il più venduto della storia della musica italiana.
Terzo preziosissimo tassello della trilogia “cruciale” è l’album DALLA, pubblicato nel settembre del 1980 e, come il suo predecessore, subito in vetta alla hit parade. Sembra impossibile, ma il miracolo si ripete anche a livello qualitativo: “Balla balla ballerino” detta il sound – sempre ad opera degli Stadio; nessuno riuscirà mai più a creare un vero e proprio rock d’autore come quello del Dalla a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, dove non c’è la minima traccia di citazioni o (peggio) scimmiottamenti esterofili, ma è tutto al tempo stesso internazionale e italianissimo. “Il parco della luna” è una favola noir in cui il Nostro mostra – se ce n’era ancora bisogno – di essersi impadronito della tecnica dei migliori parolieri:
sono più di cent’anni
che al parco della luna
arriva Sonni Boi con i cavalli di legno
e la sua donna Fortuna,
i denti di ferro, gli occhi neri
puntati nel cielo per capirne i misteri. […]
Di notte va a caccia
e con il cavallo raccoglie chi si è perduto.
Lo sfondo comune a tutti i brani è quello di un destino che fa paura; ma è solo un paesaggio che si avvicina e si allontana con dissolvenze incrociate; non è un inferno, ma un purgatorio in cui corrono, consolatorie, le immagini di un’infanzia difesa allo spasimo, con i suoi giocattoli e il suo kitsch: la nave illuminata, Sonni Boi e il luna-park, l’angelo ballerino. In un repertorio vastissimo di visi, di personaggi picareschi, di donne dolcissime o cattive, Dalla sembra cercare i corpi da amare, i capelli da contare, le sorprese e le ricompense al peso della vita.
“Mambo” racconta di una love-story agrodolce, ma quel che impressiona è lo sfondo, cupo, senza spiragli. «Anni fa ho scoperto Robert Walser e me ne sono innamorato, l’ho letto d’un fiato» spiegherà Dalla. «Poi, Jorge Luis Borges, ultimo grande classico, moderno Omero. Il suo racconto “25 agosto 1983” ha influenzato la parte non dico pessimistica ma amara di quell’album».
“Meri Luis” è un brano fondamentale per capire il Dalla “sceneggiatore” insuperabile, deus ex machina shakespeariano a cui alla fine esce spontaneo un grido di gioia che ce lo fa amare per sempre:
però la vita com’è bella
e com’è bello poterla cantare»
“Cara” è una serenata sentimentale, ironica e intelligente, semplicemente perfetta:
quanti capelli che hai,
non si riesce a contare
sposta la bottiglia
e lasciami guardare
se di tanti capelli,
ci si può fidare.
“La sera dei miracoli” è un classico diorama notturno in stile-Dalla, “Futura” è una natività postmoderna che è ormai entrata a far parte non solo dell’Olimpo della nostra canzone ma anche del nostro immaginario collettivo.
Chissà, chissà domani
su che cosa metteremo le mani?
Se si potrà contare ancora le onde del mare e alzare la testa?
Non esser così seria, rimani.
I russi, i russi, gli americani…
No lacrime: non fermarti fino a domani.
Sarà stato forse il tuono, non mi meraviglio:
è una notte di fuoco.
Dove sono le tue mani?
Nascerà e non avrà paura nostro figlio.
E chissà come sarà lui, domani?
Su quali strade camminerà, cosa avrà nelle sue mani?
Si muoverà e potrà volare, nuoterà su una stella – come sei bella! –
e se è una femmina si chiamerà Futura.
Il suo nome detto questa notte mette già paura:
sarà diversa, bella come una stella, sarai tu in miniatura.
Ma non fermarti, voglio ancora baciarti:
chiudi i tuoi occhi, non voltarti indietro;
qui tutto il mondo sembra fatto di vetro
e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio.
Di più, muoviti più fretta, di più,
Benedetta, più su,
nel silenzio tra le nuvole, più su,
che si arrivi alla luna…
Sì, la luna…
ma non è bella come te questa luna:
è una sottana americana.
Allora su, mettendoci di fianco, più su,
guida tu che sono stanco, più su,
in mezzo ai razzi e a un batticuore, più su,
son sicuro che c’e’ il sole…
Ma che sole…
è un cappello di ghiaccio questo sole,
è una catena di ferro senza amore – amore, amore…
Lento lento, adesso batte più lento… Ciao, come stai?
Il tuo cuore lo sento, i tuoi occhi così belli non li ho visti mai.
Ma adesso non voltarti, voglio ancora guardarti:
non girare la testa. Dove sono le tue mani?
Aspettiamo che ritorni la luce,
di sentire una voce;
aspettiamo senza avere paura
domani.
Un’intensità del genere è difficile da sostenere. Dalla ci prova e nel 1981 ci riesce a metà, nel senso che pubblica DALLA Q-DISC, quattro canzoni che in realtà sono tre (“Telefonami tra vent’anni”, “Madonna Disperazione” e “Ciao a te”, visto che la quarta traccia è una rilettura jazz di “You’ve Got a Friend” di Carole King. Ne viene fuori un Dalla ancora ispirato, ormai libero di fare piazza pulita di molti cascami ideologici e di residui demagogici connessi alla canzone d’autore del periodo. Poi, nel 1983, arriva la crisi: il nuovo album s’intitola 1983 – appunto – e alterna intuizioni geniali a momenti di abbandono, slanci formidabili a segni di stanchezza. […] L’autore ne è pienamente consapevole, tanto da affermare: «L’ho registrato a caldo, senza una progettazione e senza tenere conto dell’interlocutore, del pubblico a cui mi rivolgo». Qualche anno dopo chiarirà il concetto: «mentre stavo registrando 1983 ero impegnato a rinnovare il mio contratto discografico, non mi andava molto di fare quel disco. L’errore era già alla base: centrare il disco sul mio personaggio; resi la mia situazione di cantante e autore più seria di quello che doveva essere. Cantavo su una sedia, davo le coordinate, mentre il soggetto delle mie canzoni è sempre stato la gente, non ho mai soggettivizzato tranne in episodi volutamente ironici come “Disperato erotico stomp”».
Non è un caso che Dalla espungerà in eterno le canzoni di 1983 dalle scalette dei sui concerti; anche se è un peccato, almeno per quanto riguarda la title-track (lungo e complesso racconto autobiografico giocato tra passato, presente e futuro), “Camion” (con quel finale illuminante: «amante è solo chi ama, non quello che è amato») e la meravigliosa “L’altra parte del mondo”. Sarà questo, comunque, l’ultimo disco che Dalla realizza con gli Stadio. A partire da VIAGGI ORGANIZZATI (1984), cambia la musica, letteralmente: per andare appresso alla nuova ossessione telematico-fantascientifica – un po’ Blade Runner un po’ Star Wars – il bolognese apre ai suoni campionati, alla plastica, alla disco-dance. “Washington” è lo scarto più evidente tra vecchio e nuovo; “Tutta la vita” è la canzone più convincente, un ritratto dell’artista maturo che confessa una certa stanchezza:
tutta la vita
a far suonare un pianoforte
lasciandoci dentro anche le dita
su o giù o nel mezzo alla tastiera;
siamo sicuri che era musica?».
BUGIE esce nel Natale del 1985 e segna un ritorno di Dalla alla comunicazione immediata, dopo gli ultimi lavori giudicati un po’ troppo ostici sia dalla critica che dal pubblico. Qui, al contrario, è tutto semplice – pure troppo. “Se io fossi un angelo” diventa subito una hit; “Soli io e te” è il pezzo più convincente, una moderna “Anna e Marco” di grande romanticismo. L’album vende ottimamente, si organizza una lunga tournée anche in America, un album dal vivo – doppio – è in allestimento e a missaggio completato Dalla decide di aggiungervi un inedito di studio: si chiama “Caruso” e diventa una delle più famose canzoni italiane nel mondo, vendendo più di nove milioni di copie. È anche la chiusura del cerchio: attraversata con genialità tutta l’epoca eroica del cantautorato “chic” – per così dire – Dalla torna alla vena nazional-popolare di “4/3/43”, e il progetto successivo, il disco/tour DALLA MORANDI in coppia con l’ex “ragazzo di Monghidoro” non fa che confermare la svolta.
Gli anni Novanta si aprono con CAMBIO (1990) e il tormentone di “Attenti al lupo”. Tre anni dopo esce HENNA, disco più complesso con almeno due grandi canzoni, “Don’t touch me” e la title-track, un apologo in cui riecheggiano certe suggestioni di “Come è profondo il mare”. Nel 1996 CANZONI vende oltre un milione e mezzo di copie, trainato dal brano “Canzone”; ma qui siamo ormai a un pop piuttosto insipido, lontanissimo da guizzi di un tempo. Il nostro si è tagliato la barba, s’è fatto fare un mostruoso parrucchino biondo platino dall’amico Cesare Ragazzi e continua a pubblicare album così così (CIAO nel 1999, LUNA MATANA nel 2001, IL CONTRARIO DI ME nel 2007, ANGOLI NEL CIELO nel 2009), dandosi anche all’opera, alla regia teatrale e alla conduzione di show televisivi.
Nel 2010, a sorpresa, Dalla e De Gregori si riuniscono per un tour insieme (con relativo album live) chiamato WORK IN PROGRESS, trentuno anni dopo BANANA REPUBLIC.
«Se dovessi fare l’analisi chimica dell’esistenza, sarebbe la musica a scorrere sopra ogni altra cosa. Per me la musica è tutto, da trent’anni dormo soltanto se la ascolto continuamente. In tutte le mie case ho uno stereo, un iPod o un lettore che rimangono accesi tutta la notte e, se qualcuno li spegne, io mi sveglio. È la musica che mi fa entrare nel resto della vita».
Copyright 2011 Mondadori-Ricordi
Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.