Lu + C + I + O + Co + Rh + Si → LuCIO CoRhSi
(lutezio, carbonio, iodio, ossigeno, cobalto, rodio, silicio)
Lo stato di aggregazione di ciò che sembra vero
«Questa era la natura delle nostre passeggiate: registrare quello che c’era, tutti i ritmi sparsi negli eventi e nelle circostanze, e ricostruire ogni cosa sotto forma di rumore umano»
Don DeLillo, La mezzanotte in Dostoevskij, in L’angelo Esmeralda, Einaudi, 2013
Qualche settimana fa, mia sorella mi ha regalato un sasso. «È un lapislazzuli», mi ha detto, «te lo devi mettere in tasca come facevi da piccola». Siccome pensavo si dicesse lapislazzulo, ho cercato subito su internet l’etimologia di quel sasso che mi guardava dal palmo della sua mano e ho scoperto, oltre al fatto che avevo torto, che quell’oggetto bluastro aveva una formula chimica piuttosto lunga e si faceva chiamare pietra preziosa.
Quando ero piccola, in tasca, ci mettevo ben altri tipi di sassi: ciottoli di fiume, ghiaia da giardino, pezzi di scoglio, rocce di campagna, schegge di sampietrini – una volta, non so perché, pure un dente di cinghiale. Mi servivano come parafulmine: li stringevo per scaricarmi di dosso tutto quello che non riuscivo a capire del mondo e di quella sua materia instabile, in costante trasformazione. Mi servivano perché, a differenza del resto, i sassi rimanevano sempre sassi.
Le persone, invece, anche se mi sembravano solide finivano spesso per fondersi e assumere la forma delle bocche che le contenevano oppure, peggio, sublimavano verso uno stato aeriforme che le rendeva comprimibili e rarefatte. I sentimenti, poi, ci mettevano un attimo a condensare e a pioverti addosso: parevano potersi espandere fino a occupare tutto lo spazio disponibile, invece retrocedevano in fretta a fenomeno meteorologico passeggero. Stringevo il sasso per non sentire arrivare le temperature critiche, per non dovermela vedere con le viscosità, per liberarmi dal calore latente di tutti quegli assurdi cambiamenti di fase e mi chiedevo come avrei fatto a non avere paura non tanto della realtà quanto della maniera in cui avrebbe potuto trasformarmi.
Nel suo ultimo disco, Cosa faremo da grandi?, Lucio Corsi prende l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco e li trasmuta, li forma, li deforma, li ribalta e poi li rimette al loro posto, come le onde che girano e girando cambian volto e dopo aver girato tutto il mondo tornano nel porto. Ed è così che splendidamente racconta che quel sasso su cui pensiamo di scaricare la paura di diventare noi stessi, in realtà, non rappresenta la configurazione più sicura della nostra materia ma il punto triplo in cui coesistono tutte le fasi della nostra sostanza. Se lo stringiamo, possiamo sentire la libertà di essere talmente vicini a noi stessi da poterci trasformare nelle altre forme di quello che già siamo.
Nei petali ma nelle spine: il lutezio
[Simbolo dell’elemento: Lu / Numero atomico: 71 / Serie: lantanidi]
Cosa faremo da grandi? arriva dopo Federico Dragogna, Matteo Zanobini, Brunori Sas e i Baustelle, tra i dinosauri e i cocomeri, Margherita Vicario e almeno una lepre, grazie a Antonio Cupertino e Francesco Bianconi, davanti agli occhi di Tommaso Ottomano e di qualche lucciola cadente, in mezzo alle mani di una madre pittrice che sa rimboccare le copertine con il pennello. Si tratta del secondo album di Lucio Corsi, anche se in un certo senso è pure il quarto, o forse il terzo se i primi due EP li contiamo come uno solo, visto che sono stati pubblicati insieme.
Sembrerebbe una domanda, Cosa faremo da grandi?, se non fosse un’affermazione, un segno paragrafematico che ci istruisce sulla poetica di un artista necessario, un «cantautore glam» con uno stile catalizzante, bianco-argenteo come il lutezio, che resiste alla corrosione ed è talmente raro che è il più difficile da trovare di tutti gli elementi della tavola periodica. Lucio Corsi, però, lo abbiamo trovato, o meglio, è stato lui a trovarci, probabilmente perché ha scoperto che, tra Vetulonia e Milano, ci sono le caratteristiche fisico-chimiche di tutti i sassi del mondo.
È stato il tempo, io non c’entro: il carbonio e lo iodio
[Simboli degli elementi: C e I / Numero atomico: 6 e 53 / Serie: non metalli]
C’è una forma di sinestesia in ogni immaginario: una percezione alterata del reale che contamina tra di loro i sensi e aiuta le storie a venir fuori ossimoriche, antitetiche, allegoriche, ellittiche, metaforiche. È una caratteristica non metallica della poesia che, come, il carbonio e lo iodio, riesce a esistere in forma solida, liquida o gassosa, permettendo a chi entra in comunione con ciò che sta raccontando di lasciarsi stupire dalla trasfigurazione dei legami su cui si forma il reale. Ed è proprio lo stupore, questo sentimento che ormai pare essere diventato secondario, a fornire la chiave di tutta la musica di Lucio Corsi. Di tutte le sue parole.
«Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i vestiti, parole strade e fiumi
parole barche affilate. Ho solo parole e ali incerte – ali incerte e parole», scrive Mariangela Gualtieri in Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (Einaudi, 2003). Ed è stupefacente quanto sia così.
C’è un mistero in ogni giorno che comincia: l’ossigeno
[Simbolo dell’elemento: O / Numero atomico: 8 / Serie: non metalli]
Chilometri d’asfalto e qualche albero africano. Un mazzo di istrici. Per paura del freddo e dei lupi mannari. Ad esempio a me il miele non piace. C’è un movimento punk nella foresta. Sfonda il soffitto e tocca il naso del cielo. Nell’abisso, nella spina dorsale. Chiedetelo agli insetti. Il presagio mi scroccò una sigaretta e si portò via anche il cuore. Toglimi gli occhi di dosso. Il lupo con la bocca ci salva tutti quanti. Mangiare un pesce è come mangiarsi il mare. Occhi critici di mosche. A pugni, calci, tuoni. Gesù, con un’invasione di campo. Alla fretta che metto nell’atto di fumare. Houston, che sfortuna. Tennis di uova sugli spaghetti al dente. Il giro della morte in altalena. Gli indiani, le piume, le frecce. Le nostre voci si sono sedute troppo lontano. Lucertola inseguita dalle onde. Pensa che buio, pensa che silenzio.
Guarda che ho fatto di me: il cobalto
[Simbolo dell’elemento: Co / Numero atomico: 27 / Serie: metalli di transizione]
In Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (Nottetempo, 2012), Olga Tokarczuk fa dire molte volte alla sua protagonista, sia parafrasando William Blake che traducendo se stessa, che «qualsiasi cosa si possa credere è immagine di verità».
Nell’ultimo disco di Lucio Corsi, le conchiglie probabilmente sono state fatte a mano da un uomo sull’Isola d’Elba, un suo amico che era troppo secco, col vento volava, l’orologio è una macchina del tempo, il treno che sale verso nord ha lo spirito di un capo indiano, il vento che canta in tivù, viene eliminato dallo show, mentre una ragazza trasparente può essere tutto anche una notte d’estate. Il mondo di Lucio Corsi è concentrato nel nucleo della Terra: come il cobalto è poco presente sulla crosta terreste e nelle acque e, quando c’è, bisogna estrarlo dai minerali: è un mondo che non possiamo vedere ma al quale riusciamo a credere con molta facilità perché, come ha detto lui, le sue canzoni sono «storie vere sotto forma di bugie». E infatti somigliano alla letteratura.
Per tenere le nuvole in viaggio: il rodio
[Simbolo dell’elemento: Rh / Numero atomico: 45 / Serie: metalli di transizione]
In un articolo uscito a fine 2019 su «Internazionale» (che si intitola, a partire da alcuni versi di Emily Dickinson, Mi affascina presumere), Zadie Smith ha scritto che «ogni forma di narrazione è l’invito a entrare in uno spazio parallelo, un’arena ipotetica in cui si può avere accesso immaginario a tutto ciò che non siamo». È un saggio che spiega molto bene cosa sia la fiction e che la difende da un mondo in cui sembra che solo ciò che esattamente corrisponde a noi stessi possa essere quantificato, trasformato in dati, e quindi raccontato.
Lucio Corsi, in questo disco, presume partenze che non hanno bisogno di arrivare da nessuna parte, prende ciò che non sa e se lo immagina così da poterne continuare a moltiplicare la bellezza, combatte contro il tempo e le cose perse non tanto (e non solo) per recuperarli, ma per avere la possibilità di desiderare anche quello che non si vede. È così che crea quell’accesso immaginario a «tutto ciò che non siamo» ma che potremmo essere, usando una forma di narrazione che somiglia al rodio. Anche se nessuno lo dice mai, il rodio è il metallo più prezioso del mondo, più dell’oro e del platino – e così è anche la fantasia.
Piove solamente dai lampioni in giù: il silicio
[Simbolo dell’elemento: Si / Numero atomico: 14 / Serie: semimetalli]
Troppi muri dove sbattere la testa. Avevo una ragazza che non era acqua. Nella forma di una nuvola. Inizierò a cadere con le gambe in alto. Tra le barche dai nomi strani. Dimmi se le mani te le stringo troppo forte. Ho messo nello zaino l’aria. Le bocche spalancate delle montagne in Liguria. Guarda se ti concentri arrivi alla luna. Con le zanzare dividevo il costo dell’appartamento e non pagavo tanto. Io che inseguo lei e che non seguo il calcio. Senza labbra, senza denti e senza lingua. Dove nessuno tocca. Ho saputo che ieri un vaso si è buttato da un terrazzo. Stiamo a vedere se il cielo ha un tetto, un soffitto, un pavimento. Per chi è fermo e non trova il coraggio.
Da quando è uscito, Cosa faremo da grandi? è diventato lo strato siliceo della roccia sedimentaria delle mie giornate, fatta di meteroidi avanzati dalla nebulosa da cui si formò il sistema solare, gusci di protozoi marini che si depositano sui fondali dell’oceano, tectiti vetrosi arrivati a impattare sul terreno misteriosamente, pietre del tuono e ossidi vari che assumono strane forme preziose e diventano gemme.
Quando ho preso per la prima volta in mano il lapislazzuli che mi ha regalato mia sorella, ero molto diffidente nei confronti di quel sasso dal nome plurale, ordinatamente macchiato di grigio, che si credeva chissà chi, per questo ho deciso di far iniziare il nostro rapporto in salita. «Ma che è? Una roba di cristalloterapia?», le ho detto con sgarbo. Lei non mi ha risposto, mi ha lanciato un’occhiata molto prosaica perché verbalizzare poeticamente quel regalo sarebbe stato un tradimento del nostro rapporto e pure perché noi lo sappiamo da sempre, senza dovercelo dire, che crediamo all’etimologia delle formule chimiche molto lunghe, ai parafulmini raccolti per strada che diventano amuleti e a tutto ciò che immaginiamo essere vero.
Nel racconto di Don DeLillo La mezzanotte in Dostoevskij è questo quello che fanno i due amici protagonisti: si raccontano il mondo non per quello che è, ma per quello che gli sembra vero. Seguono una lezione di Logica, con un professore che sfida «la loro ragion d’essere», che gli chiede di immaginare delle cose. «E noi seduti lì immaginavamo».
Anche Lucio Corsi immagina: è se stesso e immagina se stesso. E così il suo disco ha moti di vibrazione e forze che lo compongono, chiudendolo in una forma o lasciandolo libero di abbandonarla, aggrega le sue molecole in un volume e poi lo scava fino a farlo diventare cavo. È un sasso, una conchiglia, un’onda, un topo, una barca, un lampadario e un pallone. È una foresta pluviale, una pianta, un desiderio, il vento e pure un dente di cinghiale. È una stagione, un parco, una metropolitana. È Trieste, Firenze, Lugano, Pisa, la Cina e Milano. Dice mia sorella che è pure un lapislazzuli.
Anche se su questo punto avrei voluto continuare a essere diffidente, la verità è che saper «ricostruire ogni cosa sotto forma di rumore umano» vuol dire possedere una materia da stringere, un mondo da trasformare, che può rischiare di diventare una pietra preziosa.
E allora conviene fare come da piccoli e mettersela in tasca.
Elisa Casseri è nata a Latina nel 1984 ed è laureata in Ingegneria Meccanica. Autrice del blog "Memorie di una bevitrice di Estathè", ha pubblicato il suo romanzo d’esordio "Teoria idraulica delle famiglie" per Elliot nel 2014. Nel 2015, ha vinto la 53° edizione del Premio Riccione per il Teatro con il testo "L’orizzonte degli eventi". Il suo ultimo libro è "La botanica delle bugie" (Fandango, 2019).