«In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò solo un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella s’irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.»
Così Nietzsche, con una favola agghiacciante, deride il filosofo che pone l’uomo al centro dell’universo.
Ai tempi in cui l’idea o l’uomo che chiamiamo per convenienza Omero sbatteva i suoi naufraghi sulle coste della Libia a cibarsi del frutto dell’oblio, il pensiero razionale emergeva dai sogni mitologici e iniziava la ricerca prometeica delle spiegazioni naturali; ma i filosofi ionici credevano ancora – come Omero – che la Terra fosse un disco galleggiante sull’acqua e che gli astri fossero fissati a mo’ di chiodi a una sfera trasparente fatta di una sostanza cristallina che gira intorno alla Terra «come un cappello intorno a una testa».
Al centro dell’Universo stava l’Uomo; o, per parafrasare Bernard Andreae, l’archeologia dell’immagine europea dell’uomo: ovvero Ulisse. Quello omerico, multiforme e ambiguo, e quello dantesco, che anticipa Cristoforo Colombo – unico personaggio della “Commedia” a essere ucciso direttamente da Dio.
Giona, Sindbad e Ulisse sono le varianti ebraica, araba e greca di un mito che durante la storia della letteratura potrà assumere persino le sembianze dell’agente di commercio Leopold Bloom.
Ulisse è l’uomo che ha viaggiato nel regno dei morti e oltre le colonne d’Ercole; una sonda spaziale col suo nome naviga le impercorse lontananze del mondo senza gente dietro il sole. Ma l’eroe che «molti dolori patì», il viaggiatore che «di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri» è soprattutto un prodigioso narratore: i dieci anni più interessanti della sua vita – quelli in cui per poco non viene divorato da un ciclope, soggiorna nella reggia del signore dei venti, vede i suoi compagni trasformati in maiali da una maga, scende nell’Ade, schiva lo scoglio delle Sirene e amoreggia per sette anni con una ninfa su un’isola deserta – è lui stesso a raccontarli alla corte dei Feaci, per accontentare la curiosità dei suoi ospiti.
Ulisse è maestro nel mescolare le carte; è un mentitore nato e mostra un notevolissimo talento nell’architettare inganni. È possibile che abbia frodato anche il re dei Feaci e la sua corte inventandosi il frutto dell’oblio e Polifemo, i lestrigoni e la terra dei Cimmeri, il cieco Tiresia e il fantasma di Agamennone, Scilla e Ogigia? Non possiamo escluderlo.
Sul perché Omero abbia scelto di concentrare in quattro libri il decennio più mirabolante del suo eroe, lasciando a lui il compito di raccontare cosa è successo e riservando a sé stesso solo gli ultimi quaranta giorni del nostos, non esiste una spiegazione univoca. Come mai, poi, il poema non cominci con la partenza di Ulisse da Troia ma dalla fine della sua penultima avventura sull’isola di Ogigia, rinviando tutto il racconto delle peripezie precedenti a un ingombrante flashback, è un mistero che ha a che fare con quella sopraffina arte dell’inganno che è la letteratura. Omero stesso si diverte a preannunciare questa sconvolgente scomposizione del tempo quando nell’ultimo verso del proemio generale dell’Odissea, invoca così la Musa: «Da un punto qualsiasi, dea, figlia di Zeus, racconta anche a noi».
Anche la fine, in realtà, è solo una sospensione. Tornato a Itaca, Ulisse uccide i Proci e si ricongiunge con suo padre, suo figlio e sua moglie; ma gli isolani vogliono fargli la pelle perché ha causato troppi morti e disgrazie. La dea Atea, però, interviene e convince tutti a deporre le armi.
Come ha detto una volta Orson Welles, «nessuna storia ha un lieto fine, a meno che non si smetta di raccontarla». Avendolo incontrato qua e là in Ovidio, in Cicerone e in Seneca (ma anche nell’Enea virgiliano), Dante decide che lo scopo finale di Ulisse non può essere il ritorno ma la ripartenza: è deciso a raccontare la storia fino alla fine, fino al non plus ultra. E anche lui cede la parola al personaggio.
Ulisse dice sempre «io». Anche – cinquecentotrentatré anni do-po aver parlato con Dante all’inferno – quando “ruba” la penna a Tennyson e scrive:
“Per un re, starsene in ozio presso la quieta fiamma del focolare, l’anziana moglie accanto, tra queste nude rocce, e misurare e pesare leggi non adeguate per un popolo rozzo che ammassa denaro e mangia e dorme e di me non sa nulla: che gusto c’è.”
È un Ulisse malinconico quello che ora si lamenta che fermarsi è «coprirsi di ruggine, non brillare più!». Mentre quello che Pascoli mette in scena nel poemetto “L’ultimo viaggio” è talmente vecchio che gli resta la vaga sensazione di aver sognato luoghi ed eventi che ora vorrebbe poter verificare per capire se è stata vita vissuta o solo letteratura. Deve trascorrere i suoi ultimi anni a Itaca, e per somma sventura gli capita anche di incontrare dopo tanto tempo Femio, un aedo che aveva risparmiato durante la strage dei Pretendenti.
Supplicando Ulisse di non ucciderlo, Femio gli aveva detto di non essere un aedo come gli altri, capace solo di riproporre vecchi canti altrui, ma di avere il talento per comporre canti nuovi: solo lui avrebbe potuto, se lasciato in vita, trasformare in canto epico le gesta del re di Itaca, garantendogli gloria perenne.
Quando lo rincontra in tarda età, Ulisse fa sapere a Femio che il suo nuovo canto su di lui non gli è piaciuto:
«Terpiade Femio, e me vecchiezza offese
e te: ché tolse ad ambedue piacere
ciò che già piacque. Ma non mai che nuova non mi paresse la canzon più nuova di Femio, o Femio; più nuova e più bella:
m’erano vecchie d’Odisseo le gesta.
Sonno è la vita quando è già vissuta:
sonno; ché ciò che non è tutto è nulla».
Per la prima volta nella sua brillante carriera, Femio viene “fischiato” dal suo pubblico, che stavolta è composto da un ascoltatore solo: il soggetto stesso del suo canto, e – ancor di più – colui che (meglio) aveva già raccontato da sé la propria storia.
Ulisse – quello di Omero e quello di Dante, il Sindbad delle “Mille e una notte” e il signor Bloom di Dublino, l’Ulisse cantato da Pascoli e incontrato da D’Annunzio, per non parlare del capitano David Bowman che in “2001: Odissea nello Spazio” viaggia «oltre l’infinito» – ci ricorda che nella sua evoluzione l’Universo ha generato degli esseri che «non sono solo capaci di guardare allo spettacolo, ma anche di venire a capo della trama» come ha ben sintetizzato il fisico Paul Davies. Alla faccia di Nietzsche.
L’idea di un Ulisse che si rinchiude in una stanza, in perfetto isolamento, per attendere alla stesura della sua autobiografia (chissà quanto fedele alla verità dei fatti) è di Margaret Atwood. Il talento retorico (e inventivo?) che l’eroe omerico mostra nel raccontare le proprie vicissitudini lo pone alla stessa altezza di Sherazade e dello jahvista che redasse il Pentateuco; e contribuisce a cementare quell’inestricabile legame tra arte e vita che è la letteratura.
Come la filosofia e la scienza (che non sono altro, a ben vedere, che generi letterari) la letteratura si pone sempre le stesse, decisive domande: perché sono qui? come ci sono arrivato? e come andrà a finire? E così come la filosofia e la scienza, la letteratura non sa esattamente in che punto e quanto a lungo la realtà e la finzione si tocchino.
Può ben essere, come argomentava Schopenhauer, che «tutto ciò che noi conosciamo si trova nella coscienza»; secondo Berkeley, ogni cosa è un’idea divina – anche noi: il Cesare della Storia soffre il colpo di un pugnale allo stesso modo del re Duncan inventato da Shakespeare.
Siamo, forse, dei personaggi letterari e possiamo tutt’al più sperare di vivere in un libro che diventerà un classico piuttosto che in uno destinato al macero.
Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.