Il suono che non vuole finire

da | Ago 1, 2018

Sette poesie di Roberto Roversi, selezione a cura di Dario Bertini.

da L’Italia sepolta sotto la neve (Il Girasole Edizioni, 1989)

Amico, se passi per Bologna
la donna con le mani protese braccia protese
contro il sole fra una nebbia che esalta
rossa l’astuzia della sera
il capo reciso fra le mani.
La città natale nella nebbia e il sole
fra le mani della donna nella nebbia
lo sguardo è la tela
sulla barba del vecchio
legato alla città da cui non si allontana.
La donna con le mani con braccia protese
una campana si espande pratica d’acque nel silenzio
dell’inverno

nell’inverno lo stile è tutto

lo stile barocco fondato sulla
razionalità della scuola emiliana

*

Vorrei avere molti libri da
leggere. Ancora. Tempo davanti.
Libri con segni sconosciuti
vecchie tipologie polverosi
libri trovati nel ripostiglio di casa
odore di tonaca e di cera davanti a una chiesa
sull’argine del fiume sulla
balaustra di un ponte di ferro fra paese e paese
– aspettare un foglio portato dal vento dentro alla
stanza.
È più facile che una voce si conservi sotto la neve.

*

Da altre montagne discendo, altri sentieri
in altri fiumi annego
un’altra vita muoio
non lascio un’ombra addio
sotto l’albero di mille anni
l’estate non ha bruciato
posso dialogare con l’inverno
con la sua neve
al fuoco dell’inverno neve di primavera
e com’è lontano il tempo dei soldati che ritornano
il tempo dei fucili buttati fra la spagna.
Com’è possibile non guardarsi negli occhi
anche a distanza?
Lo sai tu che la penna invecchia la vita si perde
ma la parola detta è consumata solo da un orecchio
buono

*

L’alba non mi sfuggirà
e il suono che non vuole finire
mani alzate braccia alzate Jimi Hendrix arriva
con le babbucce di feltro
non lascia segno il suo andare venire
visi occhi suonano strumenti dimenticati
si lasciano accarezzare

la terra è piccola per un futuro
che non può imprigionare la mia ombra.
Ah madre quando parlo delle nuove battaglie
solo tu mi sai ascoltare – il dolore
è una lepre che corre.
Ordine di sequestro e sparizione

*

Leggi un poco dovunque
non stancarti di chiedere e parlare
– nei film gialli di gansters americani
la vittima inseguita imbocca un vicolo stretto
e laggiù in fondo c’è un muro
un muro alto un muro insormontabile un muro
con cocci di bottiglia
-la tensione è ricomposta da quell’ostacolo invalicabile
che ci avvicina
mentre nella fanghiglia brulica un fanale

da Trenta miserie d’Italia (Sigismundus, 2011)

“Ho passato il mese di giugno più schifoso della mia vita”.
Italia maledetta quattordici sono le maledizioni d’Italia
la vergogna di questa isola senza mari
senza monti prati cavedagne fiumi
senza più lunghi orizzonti di qua e di là dai guadi
il numero arriva con le prime tempeste di giugno
travolge i paesi i sobborghi della miseria feroce
così l’occhio del ladro si chiude sulla tasca
di un vecchio appisolato.
Il poeta delle favole cavalca un’oca superba e vola via
fra scoppi di parole
“quando ti sento dire: sei qua
non ti voglio
io dico la verità, ragazza mia,
vorrei morire. A noi ci specchia il sole”.
Nella piazza la gente si è radunata
per fiducia o sfiducia nel sindacato
sapere come il sindacato si muove
oggi è il problema la gente lo deve capire.
La paura resiste perché episodi di questo genere
possono stravolgere i rapporti e
il peso contrattuale dei lavoratori.
Non erano i pensionati a tirare le fila di questi cortei.
Una piazza compatta tranquilla
è una meraviglia.
Le tute blu sono giovani molto giovani, oggi. I nuovi operai.

*

Quando la notte è zero
e le cicale scoppiano fra i sassi
Italia maledetta è l’ora in cui ritorni perduta
nella caverna della tua maledizione numero uno
e sette. Per niente sei antica
e hai Dante nel carniere.
“Datemi acqua!”
“Bastardo non siamo i tuoi camerieri”.
Quando l’uomo è topo al topo con furibondi duelli
la vita si perde nel letame.
Ti tradirò con sette baci
con la paura delle stelle che non cadono mai
occhio del diavolo nello spazio senza confine
in questa notte di una estate senza neve.
Taci sciagura e piangi
sulle tue mani mangiate dalle vipere
e allora?
Gli angeli troppo magri non hanno gli occhi per vedere.
Nessuna gioventù mi perseguita ancora.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).