[All’inizio di aprile è uscito per il Mulino La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, di Gianluigi Simonetti. Analizzando centinaia di opere apparse perlopiù tra anni Novanta e anni Zero, e muovendosi in modo fluido tra romanzo, poesia e ‘altre scritture’, La letteratura circostante mira a due obiettivi principali. Primo, delineare una storia delle figure retoriche più significative degli ultimi trent’anni; secondo, azzardare un’interpretazione unitaria della scena contemporanea. Pubblichiamo alcune pagine del secondo capitolo, dedicato alla poesia, ringraziando l’editore per avercelo permesso. Ricordiamo che oggi 22 maggio, alle ore 17, Gianluigi Simonetti dialoga con Matteo Marchesini su La letteratura circostante presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari di Padova – Palazzo Maldura – aula Scattola, nell’ambito della rassegna “Da giovani promesse”, il festival dedicato agli esordi e alla generazione under 35, che si svolge a Padova tra il 16 maggio e il primo giugno.]
Due diverse reazioni psicologiche
Riformismo esistenziale [Terza generazione e postmontaliani] e rivoluzione «novissima» [neoavanguardie] sono posizioni di lungo corso – così lungo che c’è chi (come Cesare Viviani) ha avuto il tempo e il modo di attraversarle entrambe. Al netto di ogni giudizio di valore resta il fatto che le novità più spiccate, negli ultimi trent’anni, provengono da esperienze diverse, né riformiste né rivoluzionarie; da modi differenti di reagire alla fine del Novecento.
[…]
Riprendiamo dunque il discorso da dove il Novecento finisce, cioè dalla metà degli anni Settanta, dal momento in cui diventa chiaro che si sta ricominciando da un grado zero dell’autocoscienza storica. […] Se non si scorgono più tradizioni, o correnti, o linee, a ciascuno è possibile ripensare a modo proprio la storia del genere, e sentirsene legittimamente al centro:
Riconosciamo innanzitutto che a partire dai primi anni Settanta c’è stata in Italia una ripresa di scrittura poetica fuori da ogni corrente e inizialmente fuori anche da ogni canale stabilito[1].
Posta di fronte a questa svolta, a questo «liberi tutti», la maggior parte dei lirici italiani ha risposto sostanzialmente in due modi distinti – ciascuno dei quali collegato a una varietà di posizioni di poetica e di ricerca stilistica. Non due linee, quindi, e tantomeno due movimenti, ma due atteggiamenti, o meglio due diverse reazioni psicologiche al progressivo esaurimento della tradizione postromantica, alla crisi dell’avanguardia e del dimesso sublime, all’usura gergale della poesia del Novecento.
[…]
Mito delle origini
La prima reazione, forte soprattutto negli anni Settanta, ma sempre riaffiorante, è stata di tipo euforico, ed è consistita nel ripristino a diverso titolo del mito della poesia come emergenza emotiva, comunicazione spontanea antecedente a qualsiasi stilizzazione – idea per cui in poesia è sempre possibile, e anzi si deve, ricominciare ogni volta da capo, e ogni volta rinascere. La lirica in particolare viene qui intesa come bisogno insopprimibile, istinto primario sottratto al divenire storico – atto di festa, creativo e atemporale. Tutta la realtà è poetabile, l’atto stesso della poesia tende a disporsi in una ritualità estatica. Castelporziano ne è un possibile emblema, non tanto come episodio (in sé non indimenticabile) di storia della poesia, quanto come modello di esperienza poetica.
Si è trattato di una risposta plausibile, quasi spontanea, al ritrarsi dei padri novecenteschi, oberati dai dubbi e dai sensi di colpa: un gesto di oblio e insieme di apertura contro i loro segnali di ripiegamento e chiusura. Si sente, qui, il venir meno di una responsabilità verso il passato culturale, e anche verso il presente inteso come luogo di conflitto e di scelta. Scrivere versi ha il significato di un’affermazione di alterità, di un’esigenza di immediatezza – è una forma di protesta contro un eccesso di consapevolezza letteraria e di autocoscienza critica. Naturale quindi che a un primo livello questo ricorso a un’idea sorgiva, innocente e metastorica di poesia – questo mito delle origini – abbia prodotto (specialmente dalla metà degli anni Settanta) formule espressive volutamente semplici, dirette, elementari, assestate sul linguaggio parlato e su uno stile volutamente al risparmio. Emblematico, in questo senso, il sottotitolo di una rivista tra le più rappresentative dello snodo Settanta/Ottanta, la romana «Valori d’uso» («foglio di poesie e/o comunicazioni semplici»). Pochi tropi, sintassi facile, lessico vicino allo standard, metricità debole e distanza dalla tradizione scolastica contraddistinguono tutta la poesia cosiddetta «selvaggia», sia sul versante dell’emarginazione, esterna all’istituzione letteraria e spesso anonima (i versi dei drogati, dei pazzi, delle prostitute)[2], sia su quello della politica militante: il movimento studentesco, i militanti, gli operai. I temi vengono da esperienze privatissime e circoscritte, «in una situazione in cui grande importanza assume l’immediatezza e l’istintività dell’espressione e […] scrivere versi diventa una necessità»[3]. E i versi, per questo, sono di solito liberi, le rime pensate per l’orecchio, più che per l’occhio. Si spinge forte sul pedale della leggibilità; ci si pone inevitabilmente contro le due tradizioni maggiori, difficili e gerarchizzanti, del Novecento – le avanguardie e il postsimbolismo[4]:
una volta scrivevo poesie
nelle latrine
sulla carta da culo
come fa anche montale
qualche volta[5]
Va in scena un io narcisista e anarchico, che si denuda, si espone e si dà fuoco in pubblico. L’io che brucia, appunto, di Renzo Paris; ma anche Alda Merini, Dario Bellezza, Attilio Lolini, Carlo Bordini, Patrizia Cavalli. Autori che ambiscono a un ideale di autosufficienza espressiva, dando l’impressione di ricominciare a scrivere a ogni pagina, «senza sforzo visibile e senza preliminari»[6]; poesia che si nutre, più di altra, di logica simmetrica, di equivalenze simboliche e oniriche, di generalizzazioni emotive. Per questo nel mito delle origini momento euforico e momento distruttivo possono coincidere – come coincidono nel Mondo salvato dai ragazzini, o nelle poesie di Sandro Penna. E come in loro, la festa della poesia può rivelarsi tragica, e dar luogo a una versificazione che dietro l’estasi si rivela «decisamente triste, amara, pregna di morte e di violenza»[7]. Un’ambivalenza diversamente declinata in una delle figure più esemplari di questa posizione, la tautologia:
Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo[8]
Un coro lietissimo di giorni
fa prato il prato
e neve neve
e vento[9]
queste tautologie
cretine
mentre nel ‘500
tutto è puro simbolo[10]
Nella stessa direzione, ma a un più alto livello di anacronismo, c’è chi ricomincia a interpretare l’atto del poetare come valore assoluto e irrazionale, a volte mistico, a volte semplicemente schizofrenico – più Es che Io. In ogni caso uno slancio privo di inibizioni, che nasce dallo stadio orale e punta al principio di piacere: tentativo ambizioso di liberarsi dei dubbi e delle autocritiche attraverso un atto di fede nelle ragioni occulte e sciamaniche dell’andare a capo. In definitiva, un’esigenza espressiva che rifiuta la vergogna, aggira l’ironia ed insegue le emozioni, le confessioni, le esperienze più drammatiche; che si colloca dalla parte degli archetipi (Conte, Piersanti, Mussapi, Carifi); che dà del tu alla tradizione, senza angoscia dell’influenza.
Di anacronismo in anacronismo, anche in quest’ambito riprende forma il progetto di una poesia ad alta voce, che sale sul palco e ambisce a essere detta; che scopre o riscopre la performance, il festival, il microfono. Una lirica che rifiuta le strutture rigorose dell’antologia tradizionale, preferendo categorie meno verificabili e più suggestive[11]. Una poesia che, se a volte si è voluta sovversiva e militante, più spesso e più profondamente rifiuta la politica – perché se l’immaginazione è al potere, e il potere viene ormai direttamente rivendicato nelle forme incessanti della poesia, «dove altro si può essere rivoluzionari se non nel pensiero?»[12].
Non proprio, come pure si è detto in qualche caso, un ermetismo di ritorno, ma – nella maggior parte dei casi – un ermetismo rovesciato, che punta sull’azione e sul caos più che sulla profondità e l’ascesi, e sa accontentarsi di una lingua comune, discorsiva, non eletta. Una scrittura che si vuole fuori dalla contingenza, indifferente al tempo, quindi estranea alla Storia – o addirittura sua nemica:
Toglietemi la storia, se no
come ricomincio?
la storia è una cosa assurda
la storia è un buco nero
Ignoro il corso della Storia. So solo
la bestia che è in me e latra[13].
Malgrado questo, una poesia che ha saputo fornire, in qualche caso, delle fotografie straordinariamente precise della società e dell’ambiente culturale che l’hanno prodotta. Come in Somiglianze (1976) di Milo De Angelis (libro che, sintomaticamente, avrebbe dovuto intitolarsi Esterno): forse il miglior ritratto letterario – non solo poetico – degli anni di piombo:
Fuori c’è la storia
le classi che lottano[14]
[…]
Nevrosi della fine
La seconda reazione, di tipo malinconico, è emersa soprattutto a partire dagli anni Ottanta, ha contrassegnato a lungo i Novanta, resta viva nella poesia che si scrive oggi. Non nega ma al contrario prende atto della frattura intervenuta nella dialettica storica e induce molti poeti ad assumere un atteggiamento e uno stile postumi rispetto alla modernità; a usare la tradizione contro la tradizione, a testimoniare un’angoscia, a elaborare un lutto (il contrario della festa del mito delle origini). La storia, qui, esiste eccome; è onnipresente, asfissiante, da incubo; la rivoluzione è atto impossibile o eternamente rinviato.
Adoperando metaforicamente il vocabolario della psicanalisi, si potrebbe parlare in questo caso di una specie di nevrosi della fine, incarnata in moduli spesso manieristici, o barocchi, comunque culturalmente saturi e formalistici, agli antipodi dell’antintellettualismo del mito delle origini. Quella posizione, come abbiamo visto, rimuove la crisi, fa finta o si illude che non esista; la nevrosi della fine «parla con la crisi, servendosene»[15]. Qui non si cerca o non si finge l’immediatezza, la follia o il contatto con gli dèi – al contrario si valorizza con intenti di straniamento la mediazione culturale, la citazione e il montaggio; il distacco laico, l’artificio, il repertorio. Si esalta ad esempio il valore non-standard della lingua, e il lato artigianale della versificazione, aumentando il tasso figurale tutte le volte che si può; di solito si valorizzano le armoniche plurilinguiste e l’esercizio metrico e retorico. Le regole stesse dell’andare a capo sono desunte dalla tradizione letteraria, meglio se prenovecentesca e premoderna – ma con effetto paradossalmente postmoderno: vanno registrati il recupero di regolarità della misura del verso e della strofa, l’uso frequente della rima, il suo rafforzamento in posizioni esposte, eccetera. Frammenti di forme chiuse sono recuperate e talvolta pantografate, in un paradossale recupero o addirittura «perfezionamento dell’antico»[16] che prevede il riuso creativo di reperti e di rovine.
È un ambito in cui prevalgono colori freddi, spesso senili, anche se vi si sono riconosciuti, magari saltuariamente, non solo poeti effettivamente molto maturi (Giudici da Lume dei tuoi misteri in poi, Sanguineti, Zanzotto, Fortini, Raboni), ma anche generazioni più giovani: Held e Nove, Lo Russo; il gruppo di «Baldus» e la corrente neometrica del Gruppo ’93 (in particolare il gruppo di «Altri luoghi» e K.B.: Frasca, Frixione, Durante); fino ad autori di più recente esordio come Andrea Temporelli o Italo Testa. La maniera è la scelta che collega certi giovani a certi vecchi – ad esempio le terzine di endecasillabi di D’Elia ai poemetti narrativi di Pasolini (e di Roversi). La saturazione culturale può collegare campi e livelli diversi del sapere: come in Frasca, Nove o Testa, che in libri come Biometrie o La divisione della gioia passa con disinvoltura da Michelangelo ai Joy Division. Del resto l’esporsi, in questi poeti, non è solo biografico, come nel mito delle origini, ma anche e forse soprattutto stilistico – come dimostra il caso davvero esemplare di Patrizia Valduga.
Se il mito delle origini prevede un risparmio semiotico, ma non emotivo, la nevrosi della fine fa incetta di segni ma emotivamente rimane sulle sue. Allude invece a un significato ironico, in senso romantico: Paesaggio con serpente e Composita solvantur di Franco Fortini rappresentano probabilmente i capolavori di questa posizione.
[…]
Prove di ibridazione
Mito delle origini e nevrosi della fine hanno segnato la scena della poesia italiana degli ultimi quarant’anni. Capita, è capitato, che confliggano in campo aperto, incarnandosi in opposti orientamenti di poetica. Buona parte della decennale parabola critica e letteraria che culminerà nella nascita di un postmodernismo critico – dal manifesto dei «Quaderni di critica» alle Tesi di Lecce, dalla genesi di «Altri termini» a quella di «Baldus» – può essere interpretata come una reazione polemica, nevrotica, alle derive euforiche e talvolta iniziatiche documentate dalle riviste – «Niebo», «Prato pagano», «Lengua» – e dalle antologie – Il pubblico della poesia (1975) e La parola innamorata (1978) – del dopo-avanguardia (a loro volta reazione polemica ai moduli neoavanguardistici). Autori di generazioni diverse – ad esempio Sanguineti e Ottonieri – si sono ritrovati a combattere per la stessa causa e sullo stesso campo, in rassemblement critici tenuti insieme quasi esclusivamente dallo sforzo di collegare le esperienze del Gruppo ’63 con quelle del Gruppo ’93. Nonni e nipoti uniti in un fronte di poesia «critica» e materialistica contrapposto a un lirismo più evasivo, irrazionale e spensierato, sentito come egemone negli anni Ottanta[17].
Ma c’è anche chi, in quegli stessi anni, rompe le righe, passando da un atteggiamento prevalentemente nevrotico, e disforico, a uno prevalentemente euforico, inclusivo: ad esempio Antonio Porta, nel tragitto che dai Novissimi (1961) e dai Rapporti (1966) conduce a Passi passaggi (1980) e Invasioni (1984), attraverso la tappa della stessa Parola innamorata (1978), libro che Porta ha proposto alla Feltrinelli (e di cui pare abbia addirittura scelto il titolo).
Oppure Lello Voce, che all’esordio, ai tempi di «Baldus», ha puntato su poetiche dell’intertestualità, ricche di teorie e di citazioni; ma che – specie da Farfalle da combattimento in poi – si è in seguito speso per una poesia orale e corporea, che alle citazioni sostituisca le campionature, e alle parole sommi musica e immagine. Una poesia multimediale, sempre in azione, magari non innamorata ma esplicitamente «emozionata»[18]; «epica», addirittura[19].
[…]
Si può insomma coltivare il mito delle origini anche se si teorizza la nevrosi della fine; o viceversa; quasi che un atteggiamento garantisca l’altro, nella polemica verso nemici esterni come dentro se stessi. Si può e forse si deve, specialmente in una fase come quella attuale, in cui l’ibridazione e la proliferazione delle identità e dei linguaggi (fino alla multimedialità) sembrano a molti autori la sola strategia a cui ricorrere per non sclerotizzarsi in posizioni esaurite.
Di certo fin dagli anni Ottanta tra mito delle origini e nevrosi della fine c’è stata non solo opposizione, ma anche dialettica. Raramente questa interazione ha prodotto grande poesia, ma che ci sia stata e ci sia è interessante in sé.
[…]
Nel rumore di fondo
[…] Mito delle origini e nevrosi della fine rivivono nel tentativo diffuso, oggi, di scrivere una lirica senza aura, e possibilmente senza io (o con un io ad assetto poetico variabile); una lirica priva della ruggine accumulata in due secoli di arbitrarietà, estroflessioni, licenze, o direttamente una post-poesia, che insieme alla ruggine butta via la modernità lirica intera. Delle testimonianze post-poetiche parleremo più avanti [§ 16]; prima ci soffermeremo su ciò che resta della tradizione poetica tradizionalmente intesa. Su questo fronte, alcuni scrittori in attività sembrano interessati soprattutto a cercar di limare le parti consunte o esauste del linguaggio poetico, in una ricerca di poesia senza letteratura, e a volte quasi senza stilizzazione evidente, che rinvia indirettamente a vecchie istanze del mito delle origini. Altri (dalle parti della nevrosi della fine) cercano di conseguire un risultato analogo percorrendo la via opposta: la loro è una ricerca di marche letterarie, esibite però come elemento di oggettività e chiarezza superiore (non di orpello, non di artificio). Di qui un ritrovato interesse per la retorica, orientato specialmente sull’impiego di contrassegni legati a generi poetici non monologici – o anche non poetici affatto, nella dimensione della prosa, convenzionalmente interpretata come luogo deputato al racconto, alla descrizione, alla riflessione razionale.
Strade diverse, evidentemente, che forse s’incontrano in un punto solo, ma decisivo: il tentato recupero di meccanismi di comunicazione, intesa e interazione con il pubblico. Il muoversi al riparo dall’usura, dall’inerzia, dall’opacità di quel che è diventato il linguaggio lirico moderno, in un guscio di leggibilità e chiarezza che legittimi l’esistenza di chi sa o sente di scrivere in assenza di mandato sociale. Da un secolo almeno i poeti erano abituati a non farsi più capire dal loro pubblico – a considerarsi diversi, alternativi alla letteratura stessa; e a scrivere spontaneamente come tali, pescando a piene mani nell’inconscio, nell’imprevisto, nell’arbitrario. Oggi l’oscurità, quando c’è, sembra vissuta più come un pedaggio pagato a una motivazione superiore che non un gesto di rivolta, o un meccanismo di difesa, o addirittura un codice, il codice, della poesia.
In questo, forse, qualcosa sta cambiando: la poesia si fa più progettualmente discorsiva, più sensibile alle esigenze di decifrazione del suo pubblico residuo. Cerca la comunicazione, o finge di cercarla. Tende a mimetizzarsi nel paesaggio della «letteratura in generale», cancellando le tracce delle proprie scommesse e della propria oltranza. A cominciare proprio dalla scansione in versi – quando rinuncia (sempre più spesso) ad andare a capo – per arrivare all’oggetto del discorso, che è sempre più frequentemente riconoscibile, concreto, referenziale; passando per una riduzione generale del tasso di figuralità del discorso. Una poesia insomma che cerca, contraddittoriamente, di non somigliare, a volte neppure tipograficamente, all’immagine che tradizionalmente ha avuto di se stessa (fino arrivare, in ambito post-poetico, a negazioni vere e proprie); con qualcosa in comune con la direzione che ha preso, in questi stessi anni, la prosa narrativa. Tutto questo va nel senso di una possibile palingenesi, all’insegna appunto di una nuova (e a volte solo apparente) trasparenza, che dell’oscurità comunicativa è naturalmente il rovescio. Almeno finché una letteralità perseguita fino alle estreme conseguenze – come in certi esperimenti di «prosa in prosa» che vedremo meglio più avanti [§ 16] – non implichi una nuova oscurità, di secondo o terzo grado. O finché l’ideale di una rappresentazione della realtà piana e nitida non venga alterato e acceso da elementi di disturbo. Per alcuni autori – che identificheremo più avanti [§ 17] – la pronuncia chiara e il rapporto sistematico col parlato non è che il contenitore confortevole in cui ospitare la sopravvivenza di una logica pur sempre aberrante, irrazionale, soggettiva.
Sia nella sua versione più moderata e compromissoria, sia in quella più sperimentale e oltranzistica, la trasparenza può essere tanto una forma di velocità, quanto una forma di engagement – proprio come nella prosa coeva, anche in poesia si riscopre la vocazione civile, la riflessione illuministica, la denuncia. Forse la versificazione contemporanea, come la prosa, sta cercando a sua volta di farsi più veloce, più spiccatamente narrativa, più impegnata socialmente – e talvolta più moralistica [Cfr. § 1.16.]. Ma tutto questo dimostra che il progressivo deterioramento del linguaggio poetico, la perdita di autorità sociale del poeta, la crisi di visibilità e di funzione della scrittura in versi si sono, negli ultimi dieci o quindici anni, ulteriormente aggravati; che sono sempre di meno gli autori disposti a occupare il territorio della poesia-poesia (e sempre più numerosi i transfughi verso le «arti poetiche»). Segnala, infine, che la lirica moderna, intesa come oscurità procurata e bisogno di assoluto (il grido, il silenzio), è davvero un genere in declino[22].
[1] R. Di Marco, Il nuovo modo di far letteratura, in F. Bettini e F. Muzzioli (a cura di), Gruppo ’93. La recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia, cit., pp. 65-66: p. 66.
[2] C. Bordini, A. Veneziani, I. Nigris e C. Troianelli (a cura di), Dal fondo. La poesia dei marginali, Roma, Savelli, 1978.
[3] C. Bordini e A. Veneziani, Presentazione a Dal fondo. La poesia dei marginali, cit., p. 8.
[4] «La scuola romana di poesia ha poco a che spartire dunque con il filone ermetico e quello avanguardistico. […] D’altronde è proprio l’estrema leggibilità di questa poesia ad accantonarli». R. Paris, Introduzione a Id. (a cura di), L’io che brucia. La scuola romana di poesia, Roma-Cosenza, Lerici, 1983, p. v.
[5] A. Lolini, Notizie dalla necropoli. 1974-2004, Torino, Einaudi, 2005, p. 38. I versi citati risalgono agli anni 1974-1980.
[6] A. Berardinelli, Poesie per vent’anni, cit., p. 65.
[7] C. Bordini e A. Veneziani, Presentazione, cit., p. 9.
[8] P. Cavalli, Poesie (1974-1992), Torino, Einaudi, 1992, p. 5.
[9] B. Salvia, Cuore (cieli celesti), Roma, Rotundo, 1988, p. 93.
[10] C. Bordini, Il costruttore di vulcani, Roma, Sossella, 2010, pp. 76-77.
[11] Esemplari in tal senso G. Pontiggia e E. Di Mauro (a cura di), La parola innamorata. I poeti nuovi, 1976-1978, Milano, Feltrinelli, 1978, e A. Porta (a cura di), Poesia degli anni Settanta, cit.
[12] E. Sanguineti, Tutto il potere all’immaginazione, in A. Barbuto, Da Narciso a Castelporziano. Poesia e pubblico negli anni Settanta, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1981, pp. 196-199: p. 199.
[13] Cfr. rispettivamente G. Pontiggia e E. Di Mauro, La statua vuota, in Idd. (a cura di), La parola innamorata, cit., pp. 9-17: p. 15; A. Lolini, Notizie dalla necropoli, cit., p. 31; D. Bellezza, A Pier Paolo Pasolini, in Id., Invettive e licenze, Milano, Garzanti, 1971, p. 88.
[14] M. De Angelis, Somiglianze, Milano, Guanda, 1976, p. 80. Per questo paragrafo a testo come So.
[15] Una formula che Baldacci applica a Patrizia Valduga; cfr. L. Baldacci, La parola immedicata, in P. Valduga, Medicamenta e altri medicamenta, Torino, Einaudi, 1989, pp. v-viii: p. vi.
[16] P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi, cit., p. 143.
[17] F. Cordelli, Il poeta postumo, cit., p. 17. Cfr. anche F. Cavallo e M. Lunetta (a cura di), Poesia italiana della contraddizione. L’avanguardia dei nostri anni. 43 autori in una antologia, Roma, Newton Compton, 1989. Anche la poesia degli anni Settanta, come la politica coeva, aveva visto allearsi i nonni contro i padri – «così si sono rispolverati Rosa Luxemburg, Lenin, Trotskij contro ciò che c’era immediatamente dietro le spalle» (Intervento di B. Frabotta in M. Calabria, R. Carbone et al. (a cura di), Non ci sono sedie per tutti. Una ricerca sulla poesia italiana negli anni settanta, cit., p. 58).
[18] Lello Voce, in G. Alfano, A. Baldacci et al. (a cura di), Parola plurale, cit., p. 677. «La poesia è quest’azione tutta di voce / questo risucchio di suono su tema / è questo dire krak splash tumf croce / su tutto ciò che c’è […] / la poesia è solo quest’azione del parlare / fermi a metà tra pronunciare e nitrire / insomma quest’azione di torturare / ogni sillaba e suono quest’interferire…». L. Voce, Pseudosonetti Rorschach [1999], in Id., L’esercizio della lingua (Poesie 1991-2008), Firenze, Le Lettere, 2008, p. 59.
[19] Di poesia «epica» parla lo stesso L. Voce, Il poeta parasaurolophus, in Ákusma. Forme della poesia contemporanea, cit., p. 192. «Un epos per un popolo che manca, per dirla con Deleuze», chiosa Marianna Marrucci; «Alle forme dell’epos rinviano le strutture formali chiuse, l’isostrofismo, la presenza di ritornelli, la formulaicità a fini mnemonici, le frequenti allocuzioni e la particolare fisionomia dell’io, che scommette […] sull’esistenza di una identità tutta da scoprire». M. Marrucci, Per una nostalgia del futuro, la poesia di Lello Voce, in L. Voce., L’esercizio della lingua (Poesie 1991-2008), cit., pp. 109-122: p. 120.
[20] L. Voce, Los viejos postmodernistas [1991], in ivi, p. 97.
[21] L. Voce, Lai del ragionare caotico (Black Lai), in ivi, p. 43. Chiari i riferimenti agli scontri che segnarono il G8 genovese del luglio 2001.
[22] Cfr. G. Mazzoni, Per un bilancio, in M.A. Grignani (a cura di), Genealogie della poesia nel secondo Novecento, cit., pp. 225-229; considerazioni riprese e ampliate dallo stesso Mazzoni in Sulla poesia moderna, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 211 ss.
Immagine: Andreas Gursky.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).