Questo è il mondo e il tempo in cui io so.
Stasera svetta intorno al mondo quel determinato totem temporale così definito: vigilia di natale.
È questo il tempo in cui io, mentre tace la piazza sottostante, incapsulata in dolori di sterni e psoriasi recidive, sposto il mio occhio verso storie che non so.
Sono storie che sono le mie?
E dunque considero che.
Essi non sono.
Non sono nel biancore scavato dei volti tiepidi, nel circuito vano e non vitale dei pensieri, nell’articolazione di parole asociali, parole abnormi, imprigionate in ossificazioni di umane mandibole, che misere muovono quest’atmosfera aguzza, d’azoto menzognero. Stanno, essi, nel loro stare indefinito in questo tempo, è un tempo questo. È questo un tempo che non necessita fioritura, né germinazione, bensì pura tessitura.
È tessitura l’incantamento del tempo, è la via dell’umano principio.
E dunque: essi non sono.
Essi non sono in quanto non è materia tale tempo opaco.
Essi non sono: è ineluttabile non tessere questo tempo alato.
Non sono, essi. Sono?
È una crestomazia della vita quella che vanno cercando.
E non è la vita.
*
Essi non sono e siamo io, che di me dico: Maria è il nome mio, e mi piace pensare che la sera le stelle e le rondini e le gemme fiorite tutte insieme danzino sopra la testolina mia, ma so che è un volteggiare mio, che mi piace pensare alla sera come il tempo in cui danzare è come andare dentro un po’ il me stesso mio.
È cupissima la stanza, e altrettanto le palpebre spalancate nelle valanghe di silenzio che giungono qui, in questa stanza. Stanza che non è la mia: è di mamma e di papà, che ora non sono però qui, stanza di essi, che siamo noi, che siamo io, che di me dico: Maria è il nome mio e cerco stasera in questa stanza le domande come le farfalle.
Io sono Maria.
Essi siamo noi.
Siamo qui dentro, in questa stanza denominata, secondo i criteri delle antiche case universali, nient’altro che: salotto.
Siamo noi in questo salotto e ci si potrebbe chiedere perché qui e non lì, perché ora e non poi, perché noi e non voi.
È una crestomazia della vita quella che andiamo cercando.
Le notti sono desertiche fuori e dentro e il telegiornale starà cantando nelle case degli altri eallalà, alleluia.
E noi siamo qui.
Su quali strade di destino ci spingiamo a singhiozzare?
Su quali strade di deserto singhiozzano ora mia madre e papà mio?
Una bambina da sola nella notte di natale.
Nient’altro che questo appaio io, e così mi vedrà mia nonna scrutandomi da oltre il cielo, dichiarando: «Stavolta Iddio non lo perdóno».
Fuori è freddo, lo so, ma nessuna neve cala ora da questo cielo rosseggiante.
Lo osservo dalla finestra di questo salotto in buio.
Là fuori non si intravedono le anime dagli sterni gonfi e dalle psoriasi vegetali. Sono nelle loro case a mangiare e ad ascoltare al telegiornale della sera la consueta considerazione: quella secondo la quale è giunto finalmente e inderogabilmente il tempo di cantare eallalà, alleluia.
Il mio orizzonte oculare non mi consente, a causa della cupezza, di osservare attorno a me i mobili di un legno antico ma non antiquario, fatto di fregi che accennano al barocco.
I cassetti del mobile centrale sono lunghi e come incastonati nel tempo. Ben ricordo cosa vi si custodiva: broccati francesi di seta, stralci di gobelin, stoffe di fiori e armature e scene storiche e mitologiche.
E poi bagattelle dal sapore ferroso: ditali, tire-bouchon e un ferro a carbone ungherese in ottone.
È il mondo tutto.
Potrei chiedermi dove siano la mia mamma e il papà mio oppure potrei stare qui a non pensare, a trotterellare con la mente come facevo da bambina, quando ero piccola.
«Quando eri piccola? Ma come? Sei ancora una bambina! Non ritieni che la tua concezione del tempo sia un po’ superficiale?» riverbera la voce di mamma e papà mio.
Ma loro non ci sono, ora qui, e non c’erano ieri, quando ho trovato in cantina colui che ho di fronte.
Questa notte è per noi.
Ora mi siedo a terra, e lo osservo.
Non potrei, poiché la stanza è buia e sono fulminate le lampadine da giorni: sin da quando la mia mamma e il papà mio sono andati via.
Una bambina non sa mettere le lampadine. Ma conosce il potenziale energetico e apotropaico di una luce.
La luce allontana gli influssi malefici in tutto il mondo: da questo principio sono nate le compagnie elettriche?
Ma io sto bene, qui, senza luce: pur se mi nutro di acciughe, olive verdi in salamoia e una mattonella di gelatina alimentare ottenuta da bifido bovino.
Sto bene. Sembra scintillare.
Per mezzo di colui che ho di fronte, mia nonna produceva a ritmo incalzante, per abitudine o per distrazione, tele, arazzi.
I nostri volti si sfiorano: è alto quanto me.
Da tempo non viveva al di fuori di quella cantina.
È allestito come se fosse stato appena adoperato, con i fili dell’ordito già arrotolati sul subbio, e in procinto di essere passati nelle fessure e nei fori del pettine.
Ma che bel castello, marcondirondirondello. Risuona alla mia mente.
Mi pare eietti, il telaio, satelliti di testimonianze.
Non innesca un ricordo, ma perpetra il fatto. E dunque vive.
Come può una bimba così piccola vivere così, per giunta sola, solissima, in una scintillante vigilia di natale?
*
Io e il telaio.
In questa notte storica siamo noi che viviamo qui e che, forse, non siamo.
Le tue gambe saranno alte circa un metro, quasi come me.
Ben ricordo quando mia nonna le applicò, perfette per l’altezza della piccola sedia che adoperava.
Su di te vi poggiava le sigarette Gallant Filter, le sue preferite. Io le fumavo di nascosto quando lei, ogni giorno, subito dopo la minestra di pollo, andava a riposare.
Ben ricordo quando lei, al risveglio, non rivolgeva la sua attenzione all’assenza di tre o quattro sigarette Gallant Filter, bensì alla seguente considerazione: «Dove saranno finiti i genitori tuoi. Sia immaledetto».
Ben ricordo te: i fili dell’ordito già arrotolati sul subbio, i fili orizzontali, il pettine appoggiato sulla tacca superiore del portapettine, e poi l’inserimento del filo trama nel varco, il roteare alternato e i fili in alto e poi giù, e poi su, e così sorge l’incrocio con gli altri fili ed ecco il tessuto, un piccolo frammento di tessuto, un piccolo frammento, microscopico, infinitesimale, di mondo, il mondo, io, te, in questa notte di natale del primo anno avanti cristo, del diecimila dopo cristo, nel momento in cui nelle case degli altri il telegiornale starà cantando eallalà, alleluia, nel momento in cui bisogna inderogabilmente chiedersi dove sia il padre, dove la madre, dove le fiere, il bambino, la bambina, che sono io, e muovi i tuoi ingranaggi, scaglia la prima pietra, tessi un filo verso il mondo, tessi la tela, sgancia il blocco del tuo subbio posteriore e avvolgi il tessuto già costituito su quello anteriore, accusa il tempo di essere sfilacciato, disgregato, sfidalo e scaglia la prima pietra, tessi un lembo dell’infinito, scaglialo e getta sul problema del tempo la sua ombra cruda, immensa, dell’infinito, vivi l’esperienza del tuo tempo costruendolo, disgregandolo, tessi, tessi questo tempo infame, questa linea retta flebile, tessi questo inganno, tessi, e vivi, vivi in me che sono qui, io, io sono, io che sono Maria, bambina dai mille cieli, dai mille mondi e spazi, ma senza tempo, poiché è questo un tempo che non necessita fioritura, né germinazione, bensì pura tessitura.
È tessitura l’incantamento del tempo, è la via dell’umano principio.
È una crestomazia della vita quella che andiamo cercando. E non è la vita.
Lo dice, adesso, una voce, in questa notte.
Fuori, incapsulata in dolori di sterni e psoriasi recidive, tace immensa la piazza sottostante. Tutti saranno a casa a mangiare cappone ripieno. Non cantano più, ora, eallalà, alleluia.
Nella mia notte, io e il telaio della nonna. Ma mi scuote la voce, la voce che vibra, che ripete parole che lambiscono l’universo.
Chi sarà a parlare, qui? Cosa dirà?
Quali le parole che disgregano l’universo, ora che è tessitura questo tempo mio?
Chi è a invocare da oltre le pareti: Maria, figlia del cielo.
Cerco di capirlo, nella notte affollata di voci, in questa vigilia di natale, affollata di voci, in questo salotto, io e te, il telaio della nonna.
È una voce, questa, che penetra l’infinito.
Chi sarà a parlare, qui?
Chiudo gli occhi e assorbo.
Conosco quella voce.
Ma qui non rivelerò.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo è nato a Bologna nel 1977, è cresciuto a Martina Franca e vive a Roma. Ha esordito nel 2007 con il romanzo Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod), finalista al premio Viareggio. Nel 2008, con il racconto Ustica, il silenzio e il Segreto ha partecipato all'antologia La Storia siamo noi (Neri Pozza), che ha aperto il Festival delle Letterature di Roma. Nel 2011 ha pubblicato il reportage narrativo Le Ceneri di Mike (Fandango Libri, Premio Croce 2012, Premio Sandro Onofri 2012). È studioso di mass media e scrive di cultura per il quotidiano “l’Unità”.