Sette poesie da Il grande innocente di Gabriel Del Sarto (Aragno, 2017).
Il tempo e la vita
Quando di nuovo abbiamo parlato di quel giorno
l’acqua mista al sangue – ti ascoltavo
e immaginavo il ferro e l’ossigeno
nelle emoglobine, il destino cambiare – e il dolore
che niente ha cancellato, ho saputo
come la natura si concentri nel tempo
di ciascuno: un’assoluta
ed armonica compossibilità di volti
e sofferenza.
………………… (Esiste quasi
da sempre anche l’Anticlinale,
……………. è una piega
delle rocce, una struttura
dove gli strati sono convessi
verso l’alto e puoi trovare, dicono,
dal basso a salire, l’acqua
che satura tutti i pori, gli idrocarburi liquidi, il gas
che si accumula all’apice della piega. Ancora
azioni e parole. La contraddizione
che governa ogni cosa.)
Ogni tanto ancora un cenno. Fa parte
di noi, di questa storia ricordata.
Può bastare un articolo o un post
in rete letto a voce alta dentro
le stanze che abitiamo, il silenzio
dopo, uno sguardo al posto di ogni cosa,
leggere contrazioni, siamo noi,
è la vita, quando la prima morte
è quella della parola che manca.
*
Nel profilo dietro la porta a vetri che scorre
non appena entri nel campo d’azione
della telecamera, nessuna sorpresa, solo
si apre il silenzio pieno prima
della domanda di cortesia, il vuoto
di una sala d’attesa
quando sfiorare lo schermo
del telefono cellulare è l’unica forma
di contatto con se stessi – una circolazione fluida
di plasma e sangue – mentre un filo
d’aria condizionata scende dall’alto
e la musica fredda scivola senza fine.
………………………. È normale. Siamo qui
complici di questo silenzio: sorrido
mentre mi offre un caffè. Non so, forse dovrei
dirle di quel bianco che vedo,
del Mar Baltico dentro la sua isola.
Il suo corpo scompare veloce
oltre la soglia e lo schermo scuro che stringo
sembra retrocedere verso un’altra epoca,
in un tempo o solco tracciato da altri, non qui,
e per nessuno di noi, che non sappiamo perché
sostiamo in questa veglia, aspettando cosa.
*
In fondo al linoleum del corridoio la finestra con gli infissi
sporchi e un volto pari al tuo, come in attesa:
beve un caffè, racconta qualcosa nei secondi
che condividete e ne senti
il lamento profondo, la distanza di quel momento
dalle cose che per entrambi hanno un peso.
…………………………………………….Queste – pensi
subito dopo il suo saluto, nel gesto ordinario
di gettare un bicchiere – sono le ore che ami
le costole perfette negli uffici.
*
Hitler
Buia quest’ora,
…………..e violenta: lo zero che si muove
di solitudine e estinzione
è il vero rapporto dell’uomo con la vita: non ha senso
ascoltare gli altri. Gli angeli
da lontano aprono debolezze, perché l’ospite,
severo, ama solo i folli
e i presenti a se stessi. Uno spessore
che non si trova.
…………….Tutte le porte
restano aperte, la vita è un alito
dalla gola del leone.
…………….Ed anche tu, amore per il nome,
nata più volte dalla mano, saprai
che Gabriel non è più competente a dire,
angelo muto che sussurra solo il destino. Un vecchio
parlerà – poi lentamente noi
saremo Hitler, mattone simmetrico
e logico di tutto, madre di ciò che precipita
doloroso nel mondo con una sua purezza, intatta
per quanto vuota. Saremo incapaci
di vedere in noi il seme
opposto che germoglia.
*
Oggi che narrare diventa acciaio, metrica
di un XXV aprile visto dal monte sul mare,
non ci sei. Notizie dall’ultimo grido
dopo l’alba fredda. Avere abbastanza
cuore.
……..La neve dopo fu una strategia possibile,
un privato conteggio
degli angeli prima del nostro battesimo
del fuoco: uscire nello spazio
per essere colpiti, per comprendere
nella carne l’esatta presenza di tutto
quando è inizio. Il resto è questa vita: Caterina
ha sognato i draghi stanotte e racconta ieri
come fosse un quadro e noi
tutti dipinti in aprile siamo
questa famiglia, la quota di desiderio
che abbiamo dissotterrato.
E anche tu, da dentro l’idea d’innocenza
che ho sentito, risponderai dell’unica decisiva
sentenza domestica: a chi siamo mancati?
*
Affidata a chi muore
Il ghiaccio della luce sopra i tetti
visti dalla collina del terrazzo,
era una ringhiera minima sopra
la valle e il fiume, che si teneva vicino
a te, alle tue lettere segnate sul foglio
col pennarello. Scrivo il mio nome
con tre lettere, mi hai detto, non
vedi? Consegni così il tuo codice
di A e C e T variamente intrecciate
al racconto della prima lunga notte
in me rappresa. Leggo così la tua storia
di terra preparata dall’addio
e affidata a chi muore da un Dio che resta
a creare, da dentro se stesso, il mondo.
*
The Lasting Life (da J. H.)
The glory of man is his capacity for salvation
(T.S. Eliot)
Cos’è quello che prego quando prego
che tu possa essere vista, tu intera, dagli dei
o dal cosmo, tu nel tuo carattere, divenuta
ormai vecchia? Quale forza chiedo
che infine emerga? Sarà una voce discesa
da me e da ogni antico, una potente
epifania della longevità che ci visita,
qualcosa dell’inconsistente traccia
che siamo, splendido pigmento scuro
sulla linea sottile? L’Altro che ti guarda
da lontano, a figura piena. Anima
sconfinata nel disegno, oltre il tempo
e la gloria pensata adesso.
Più tardi
ci sarà molta più notte, mi dici
la vigilia di natale, mentre scivoli
sotto la coperta. Ci sarà un buio
vero – ci sarà la capacità: sostare
sul vuoto: abbastanza cielo, quando
la solitudine rende tutti i corpi
distanti dall’ultima onda, infinite
linee divergenti. Le cose accadono:
origini e livelli d’esperienza
che si sovrappongono, storie e polveri
e notizie di foglie. Poi
l’altra salvezza: senza sosta esplode
la domanda la parola e nella corrente
la vita. Sì, abbastanza: quel nome
sentito è il tuo, il mio, senza fine musica
per il mondo che comincia.
Immagine: Opera di Erin Mcsavaney.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).