(Postfazione al volume Il mondo di Irene Brin, che raccoglie per la prima volta una selezione degli scritti dell’autrice pubblicati dagli anni Quaranta agli anni Sessanta. Il volume è stato curato da Flavia Piccinni per Atlantide Edizioni)
Da quando sono bambina, ho sempre perso tutti i libri che mi sono passati fra le mani e sotto gli occhi. Gli unici che non ho mai smarrito, e che ho sempre tenuto in prossimità – sopra il comodino, sotto il letto, appoggiati sulla scrivania, dentro la borsa, nel portabagagli della macchina – sono i libri di Maria Vittoria Rossi. I libri di Mariù, come la chiamavano affettuosamente i parenti. I libri di Contessa Clara. I libri di Irene Brin, secondo lo pseudonimo che le suggerì Leo Longanesi e grazie al quale l’Italia imparò a conoscerla, e per un lungo tempo se ne innamorò.
Ho impiegato gli ultimi dieci anni della mia vita a leggere Maria Vittoria Rossi, a provare a decifrare quel enigma che si annida nelle sue parole, che hanno sempre odore di polvere e fatica, di delicatezza e acredine. Ho cercato per anni di arrampicarmi in quell’alchimia silenziosa che è stata la sua vita, costruita da frammenti opposti, distantissimi eppure dai medesimi profili, cercando di tradurre la sua personalità labirintica e trasformista. Più ho provato a scavare, più ho trovato dubbio e altro mistero.
Nella sua vita Maria Vittoria Rossi è stata giornalista di cani schiacciati, come all’epoca si definivano gli articoli di costume, è stata instancabile traduttrice, gallerista di talento, brillante anticipatrice di tendenze, avida lettrice e raffinata intellettuale.
La sua storia non si può analizzare attraverso singoli momenti – alcuni dei quali si sono poi rivelati epici, come quando nascose quaranta disertori nella soffitta di casa –, ma lascia trasparire la sua essenza nel momento in cui acquista la complessità dell’insieme; esattamente come accade per un quadro, o per un romanzo a chiave. Tutti gli episodi della vita di Irene Brin – dall’interminabile sequenza di pseudonimi, al primo incontro con il futuro marito all’Hotel Excelsior scandito da una serie di balli durante i quali parlarono di Proust, a quando Diana Vreeland la notò a Central Park abbigliata con un elegantissimo Fabiani e la trasformò nella prima corrispondente italiana per «Harper’s Baazar» – hanno un fondo mitologico, che suggerisce determinazione e incanto.
Per cercare Irene Brin – quasi fosse un cappello rosso che continua a passeggiare per New York, o il passo sbilenco che avanza per Via Margutta, o la cadenza di una voce che risuona per Palazzo Torlonia – sono andata nei suoi luoghi, come avevo fatto sei anni fa mentre curavo l’edizione della raccolta dimenticata Olga a Belgrado, pubblicata per la prima volta da Vallecchi editore nel 1943.
Ho cercato Irene Brin nella sua casa a Sasso di Bordighera, una palazzina che s’affaccia su un giardino meraviglioso di palme e di erba, dove sta ancora la sua macchina da scrivere con la gomma da cancellare legata a un nastrino rosso e dove si respira l’odore dei suoi abiti, il colore dei suoi occhi nel ritratto che Campigli le fece nel 1954, provando invano a svelare la sua campigliesca tristezza. Ho cercato Irene Brin per le strade di Roma, intorno a Piazza del Popolo e dentro Rosati, camminando in Via del Corso e vicino Via Giulia. Per un lungo periodo mi è parso di intravederla alla Galleria nazionale d’arte moderna, dove dal 2000 ha trovato dimora il fondo Irene Brin, Gaspero del Corso e L’Obelisco. Ed è qui che in fogli ingialliti, fra i dattiloscritti originali di Olga a Belgrado e Usi e costumi, fra agendine dalle copertine scure, fra decine di articoli e di appunti, ho trascorso molti struggenti autunni. Ed è qui che Irene Brin è diventata la sorpresa degli articoli pubblicati su «Il Borghese» e su «Omnibus», la destinataria di migliaia di lettere, come quelle firmate da Leo Longanesi che il 7 ottobre 1953 le scriveva: «ho conservato sempre grande nostalgia degli anni di «Omnibus», in cui andavamo tanto d’accordo. Ecco che ora possiamo ricominciare d’accapo», e così arrivava a proporle «una storia rapida della moda e dei gusti che, come l’intendo, dovrebbe cominciare dal 1870, vale a dire da Roma Capitale e arrivare fino a oggi». Il libro non vide mai la luce, ma si dimostrò una delle molte trame che animarono la prosa di Irene Brin fino alla sua morte, insieme alla malinconia delle sue donne, alla frustrazione per l’amore irrisolto e doloroso, alla frivolezza e alla madre. E poi, in un bellissimo novembre denso di pioggia e di profumi, incontrai L’Italia esplode, il racconto firmato per la collana curata da Milena Milani Un anno di… dell’editore genovese Michele Immordino, in cui raccontava il suo 1952. Il libro, rimasto inedito fino al 2014, quando Viella lo ha pubblicato per la curatela di Claudia Palma, ha definitivamente tracciato il suo profilo di donna in bilico perenne fra la disperazione e la gioia. Fra la silenziosa vita interiore e quella affollatissima delle vernici, dei rossetti, della lacca sulle unghie.
Una malinconia che è sempre in secondo piano, eppure è presente in ogni scritto, e avvolge lo straordinario, profondo, orgoglioso talento di una donna che per anni è stata semplicisticamente definita come una giornalista di costume. Ma Irene Brin, come emerge con limpida chiarezza da queste pagine, ha saputo raccontare con incredibile lucidità un’epoca e le universali ossessioni umane, che ancora oggi si mostrano nella loro contemporaneità. Ha saputo anche dare spazio alla libertà della parola e dell’immaginazione, come accade ne Le Visite, forse la sua raccolta più preziosa, nella quale declina il suo struggente animo in personaggi femminili ondivaghi, eterei, malinconici e presentissimi. Il Mondo traccia così i confini di un tempo attraverso una lingua meticolosa e raffinata, che con un’eleganza sorprendente inchioda l’anima e le sue perversioni. Irene Brin traspare in tutto quello che sfiora, e per spiegare il suo mistero ritornano le parole usate nell’introduzione che fece a Prime vite immaginarie di Marcel Schwob, da lei tradotto per Fausto Capriotti Editore, che pubblicò il testo in un’edizione delicata ed preziosissima nel marzo del 1946. A proposito dello scrittore francese, Irene Brin nota: «Una cultura enorme, un’elaborata alchimia di stile, un gusto morboso per le esistenze fastosamente deviate, per i vizi delicatamente pittoreschi, un’amicizia fraterna e quasi casta per le fillettes communes medioevali, per le piccole prostitute di tutti i tempi: (…) l’opera resta fedele a una sua traccia, malinconicamente sensuale, e riesce difficile pensare che i suoi pazienti studi negli archivi, le lunghe esplorazioni sulle antiche cronache, si alternassero a periodi di desolante sofferenza, o a tentativi estremi di viaggi in terra straniera. (…) Del resto un singolare desiderio di innocenza anima tutti gli scritti». Ed è come se in contro luce, per un gioco di rimandi ossessivi e rutilanti, si intravedesse sempre lei, Irene Brin. La si intravedesse con i suoi occhi annacquati dalla miopia, mentre cerca, come tutti i miopi, di restituire al mondo un confine conosciuto e di riempirne i margini con l’ambizione, la determinazione, il sogno. Ed è così che arriva l’Irene Brin più sincera, quella del motto: “Nelle difficoltà, arroganza e allegria”. Quella che nel testo inedito Le perle di Jutta – riscoperto di recente dal nipote Vincent Torre in un baule nella casa di Sasso di Bordighera – afferma: “Nessuno ascolta mai il cuore degli altri”.
Il Mondo di Irene Brin è il mondo di una donna che non riesce a vedere solo i suoi giorni, ma si costringe – adesso nel ritratto delle protagoniste e dei protagonisti che ci restituiscono l’anima transitoria che accompagna ogni successo, ora nell’analisi delle ossessioni fisiche e linguistiche, adesso nella disamina delle abitudini e delle mode – a svelare un tempo. Grazie a una lingua da romanziera di talento e di giornalista acuta, Irene Brin mette a fuoco attraverso una sorprendente ironia il rapporto con l’arte, con il costume, con le tradizioni, con la vita. Apparecchia per noi un mondo, e ci invita a guardarlo con lei.
Flavia Piccinni (Taranto, 1986). Ha curato due antologie, e pubblicato Adesso tienimi (Fazi 2007), Lo sbaglio (Rizzoli 2011), La mala vita (Sperling & Kupfer 2012). Collabora con numerosi giornali. È autrice di documentari per Rai1 e Radio3 Rai. È coordinatrice editoriale per Atlantide. Il suo ultimo romanzo è Quel Fiume è la notte (Fandango, 2016). Il suo ultimo saggio è Bellissime (Fandango, 2017).