Tutte le poesie di Mario Benedetti è il volume uscito per “I Grandi Libri Garzanti Poesia” che raccoglie, da Umana gloria (2004) alla suite Questo inizio di noi (2015), l’opera di uno dei poeti più significativi della nostra letteratura. La ripercorriamo con una selezione di testi e con brani dall’introduzione di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta. Il volume sarà presentato dai tre curatori a pordenonelegge domenica 17 settembre in una speciale occasione dedicata a Mario Benedetti.
da Umana gloria (2004)
In fondo al tempo
Stamattina il cielo batte la mano del temporale,
l’uomo delle cambiali è venuto a farci stare qui solo per
[guardare
chi può venire sulla porta a fare un grande rumore.
Le nuvole mangiano l’infinito,
mandano al gabinetto tutto lo sguardo. Annina,
è nel rivo di fango il bastone diritto che ricorda la tua casa.
Ha una volta il tetto di lamiera
con i muri grossi, e una volta solo i fiori con Silvio che
[parla.
Nella strada le ombre vanno sotto l’asfalto,
si cercano i bambini nei tubi di cemento della fognatura
[nuova.
Dietro gli scuri grida la lingua dei genitori. Dietro gli scuri
la carne delle bambine ha avuto un cortile pieno di rondini,
le teneva la terra, non so come dire, la sabbia e l’erba.
Il terremoto improvviso
come il morto che viene alla spalla per farci sentire
improvvisa la luna, la luna, la luna.
*
Passi lontani, bambini crespi nell’aria forte,
il piccolo gelo delle mani tenute vicine a prendersi.
[Oh inverno.
Nel freddo, il sigaro di Vanni, l’erba bianca e dura, giocare.
Abbiamo imparato nelle nostre case il modo di mangiare.
I tetti, quei tetti mi dicevano che io ero i miei occhi e non
[altri.
Nel freddo, adesso, ho un po’ di febbre e qui da solo…
Una volta sono venute le luci prima di dormire e c’era
[la nonna.
C’era la legna da preparare per il carbone e Ernesta
doveva scendere alla locanda a comprare il toscano.
La jarbe jenfri i claps sul ôr de strade.
L’erba tra i sassi sull’orlo della strada.
La piccola staccionata.
Noi non possiamo scendere più così.
Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda.
Pieno un pomeriggio di dormiveglia voglio stare.
Stare con le nuvole ferme come una cosa bianca delle
[montagne.
In una finestra si ricorda il vento tra le foglie.
«Mi dici che non vieni e così penso
se anche verrai non ti dirò niente
ma se non parlerò tu capirai
che non ti voglio.»
Era una che diventava una. Oh inverno.
*
Log, Ambleteuse
Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una
[frontiera,
un bungalow sulla costa.
Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti «guarda»
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico «guarda quante eriche».
Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.
E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta fra i tuoi capelli.
*
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare
[gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non
[sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità
[grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
*
A D.
Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.
*
Le mani sulla mela, sole con il verde
le dita avvoltolate nelle bucce.
Le cassette donate che Rina portava dal lavoro,
quelle cadute sul prato, mamma, che cosa mangi?
E il succo nella bocca della tua eternità
dove il mondo è stato unico e minuscolo.
Povera umana gloria
quali parole abbiamo ancora per noi?
***
da Pitture nere su carta (2008)
Colori 11
E ora è stupore, il bambino.
Guarda negli occhi i suoi occhi.
Si aggrappa alla terra, col bianco dei fiori.
Libro della via Pál, melograni davanti,
tra noi che non eravamo.
Nato da visi, da corpi, da tenera coppia.
Dentro, inseparati, oh, ma gli altri uguali insieme.
Spaccati, già morti, a uno a uno, a due.
E l’idea di vita pervade, trionfa.
Mondo non mondo, mio mondo nero.
*
Si sono addormentati
gli alberi, come fossero
alberi.
Rubor sin nombre. Astro perpetuo.
Entra in noi la luna, in me e in te.
Confín de plata, confine di argento.
Né carne né sogno. Ecuador entre el jazmin
y el nardo.
Tra i fiori di gelsomino, i fiori di nardo,
la rosa.
Inmóvil por el cielo…
È il colore della luna.
*
Galleggiano sull’asfalto
quelli che devono morire.
Solo sguardo a metà via
questo mio senza mente ormai.
Che affare è il loro?
Una musica è fortissima
per ogni passo, e ho dolore sordo
dallo sguardo non so dove.
Figure amate.
*
……………………………………physical dimensions
Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.
L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.
Qui.
Oh.
***
da Tersa morte (2013)
Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie
[le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.
*
Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
È avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
È una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.
*
Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.
***
“Il legame tra poesia e biografia in Benedetti è fortissimo in quanto componente del suo, e nostro, esistenzialismo di fondo. Non, dunque, nel senso già ungarettiano di una esaltazione mitica della propria vita in scrittura né (devo ricordarlo?) sotto un profilo confessionale o intimista. Il testo è legato alla persona che l’ha scritto non in quanto individuo “storico”, ma proprio in quanto essere umano a-storico, antropologico. La tensione massima in Benedetti è nello sforzo di far coincidere, nella lingua, il proprio io storico con questo individuo antropologicamente determinato: «È successo un tempo / ma è come fosse adesso / perché anche adesso è un tempo». Sono le istanze dell’esistenza contro le istanze della storia. È la consapevolezza di appartenere a una specie che nei secoli ha dovuto fare i conti con la stessa precarietà. […] Affinché i due personaggi di cui sopra, individuo storico e individuo antropologico, si incontrino o almeno si affaccino sul medesimo orizzonte, è necessario non barare con la lingua, non assumere atteggiamenti reattivi e tantomeno demiurgici. La lingua è la cosa meno soggetta alla storia che abbiamo, non dobbiamo assaporarla ma accettarla ed es porci in essa. La scrittura è il luogo della verità.” (Stefano Dal Bianco)
“Per Benedetti, fin dagli esordi, essere fedeli alla realtà è stata sempre una condizione imprescindibile. In un certo senso umile e antiretorica, ma molto concentrata, da lì in avanti la sua scrittura in versi è cresciuta seguendo sempre una tenace fedeltà alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse, quelle che entrano a fare parte dell’esperienza di un individuo nel tempo che gli è dato in sorte, accumulata giorno dopo giorno, anno dopo
anno. Nella parola ‘esperienza’ si trova la chiave di lettura di questa poesia. I testi di Benedetti non documentano o fotografano in modo oggettivo la realtà. Non c’è mai realismo, in senso stretto. Troviamo piuttosto le impressioni e gli insegnamenti (le abrasioni, anche) che lascia in un individuo l’esperienza vissuta, fluida, mobile, variabile. Se è vero che la caratteristica di maggior rilievo di ogni autore è di saper rielaborare in una poetica la propria esperienza, quella di Benedetti si distingue in modo incisivo perché pone due problemi essenziali: come si può rappresentare nella scrittura in modo autentico l’esperienza vissuta da un individuo, senza trasfigurarla in pose eroiche, istrioniche, profetiche, o attribuirle una vaticinante investitura civile; e come la poesia possa essere uno spazio etico di conoscenza e di insegnamento attraverso la rappresentazione dell’esperienza stessa. Queste riflessioni su un problema sfaccettato e complesso, perfino “drammatico” per chi come Benedetti vive la letteratura nel pieno senso del destino, si trovano in modo esemplare fin dal suo primo libro importante, Umana gloria (2004), tra i più belli della poesia italiana contemporanea.” (Antonio Riccardi)
Nelle sue pagine migliori e memorabili, Mario Benedetti fissa sulla pagina una voce originale e tenace, la cui incisività è innanzi tutto segnata dallo smarrimento: l’unità della memoria, dell’identità di cui abbiamo bisogno, è fragile, sempre percorsa da traumi, incomponibile altrimenti che nel conflitto e nell’amorosa concordia della parola e del tempo. Nessuno come Benedetti mostra come luoghi e tempi diversi possono stare insieme nella coscienza rimanendo slegati, in un’ambiguità emotiva non risolta, per la sola forza dell’esperienza che li ha attraversati in quel granulare composto di relazioni che è un “io”. Lo stesso andamento del verso e della sintassi compone uno spazio curvo, formato da prospettive diverse il cui comune punto di fuga è sempre l’istante inafferrabile, la miracolosa coincidenza del sentire e della realtà, che rievoca ciò che vede, che vede rievocando. È la magia di un giro di frase, che tiene insieme cose che insieme non sono mai state: non durerà, ma cogliere questo passare della vita vissuta è sentirsi investiti dalla sua fragilità e dalla sua forza. (Gian Mario Villalta)
Immagine: Piet Mondrian.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).