di Teresa Franco
Capire il passato, ricomporre le tessere della storia, collegando destini, eventi, persone, è sempre stato il movente della scrittura di Corrado Stajano. Spazio e tempo non sono solo categorie interdipendenti, ma linee sempre più aggrovigliate e quindi continuamente significanti: tanto più labili quanto più sembrano ingabbiare, come delle carceri (“latomie della memoria”, le avrebbe chiamate lo scrittore).
In questo ultimo libro, Eredità (Il Saggiatore, 2017), ancora una volta il narratore rivisita uno dei momenti più tragici del Novecento, il fascismo, la guerra, scegliendo però un’angolazione nuova. Il discrimine temporale è il 1939, anno in cui si stipula il patto d’acciaio tra Italia e Germania, e i rispettivi ministri degli esteri, Ciano e Ribbentrop si incontrano a Como per suggellare nel fasto delle celebrazioni popolari gli imminenti accordi. Attorno a questa data, si organizzano un prima e un dopo nell’esistenza del protagonista, ma anche due geografie ben distinte. Da una parte Como, temporanea residenza del bambino, città dell’infanzia tradita, come già Cremona, una delle due Patrie smarrite dell’omonimo libro (Garzanti 2001); dall’altra parte Milano, città in cui cresce il ragazzo e che rimarrà sempre il simbolo della Resistenza e della ricostruzione anche quando il suo mito si sarà degradato ne La città degli untori (Garzanti 2009).
Da questo punto focale la narrazione procede avanti e indietro, seguendo i consueti movimenti sussultori, ma senza affondi troppo lontani. Stajano infatti riprende il filo dell’autobiografia dopo aver scandagliato per anni il suo nucleo più privato: l’infanzia, la giovinezza, il rapporto con i genitori, il doloroso rispetto per il padre, capitano dell’esercito e, dopo l’8 settembre, prigioniero politico in un lager di Berlino. Il risultato è una scrittura più tersa, confessionale proprio nell’autocontrollo della terza persona, e nella struttura bipartita che sdoppia la voce del protagonista, distinguendo non solo tra personaggio e narratore, ma soprattutto tra l’ingenuo bambino, il “Figlio della Lupa” della prima parte, e il solitario e disilluso “ragazzo” del dopoguerra. Tra questi due personaggi non c’è soluzione di continuità come si converrebbe al genere autobiografico, ma una frattura incolmabile, uno strappo violento che improvvisamente ricopre di vergogna e ridicolo l’innocenza del bambino: il Figlio della Lupa, infatti, «Sente di assomigliare a Pinocchio: “Com’ero buffo, quand’ero un burattino!”» (p. 117).
Due momenti, due luoghi e dunque anche due voci diverse. Quella del bambino caratterizzata dall’insistita litania del negativo: il Figlio della Lupa non sa, non sente, non capisce. La sua incolpevole partecipazione al fascismo si intreccia con quella, più colpevole, di altri personaggi, tutti passati per Como: Alida Valli, diva del cinema dei telefoni bianchi, l’architetto Giuseppe Terragni, interprete del modernismo fascista, e la biografa e amante, Margherita Sarfatti, inventrice del “dux”. Attraverso le loro vicende, Stajano cerca di penetrare l’ideologia del regime, le ragioni del consenso e il sotterraneo perdurare della sua eredità nel carattere degli italiani. La storia ufficiale delle parate e dei discorsi si sgretola così in una somma di contraddizioni private.
Nel giro di pochi anni, però, l’ignoranza del bambino si trasforma in una sana attitudine al dubbio, quasi un interiorizzato imperativo montaliano, e in questo ragazzo quindicenne, privo di punti fermi («ero pieno di domande» scriveva Stajano in Patrie smarrite, p. 68), nasce il desiderio di raccontare la realtà che lo circonda. Il ragazzo è già prefigurazione del cronista, ovvero di quel “ragazzo invecchiato” –ancora a un’eco montaliana –, capace di camminare tra le macerie con la stessa lucida freddezza con cui, nel 1969, si addentrerà nello scempio della Banca dell’Agricoltura. La narrazione riprende moduli molto simili a La città degli untori; e mentre il ragazzo allena lo sguardo per affinare l’intuito dell’archeologo, il narratore rivendica apertamente il suo modello manzoniano: «Il ragazzo ha letto a scuola il famoso romanzo, lo capirà e lo amerà da grande, il tempo fa maturare significati e giudizi» (p. 129).
All’intreccio della prima parte si sostituisce il racconto unico del ragazzo, con i suoi ricordi e le sue meditazioni. Il solo personaggio storico ammesso nella cerchia delle sue frequentazioni è David Maria Turoldo, su cui l’autore fa convergere l’altra eredità, quella della Resistenza. Il “frate rosso”, già omaggiato in altre occasioni, è qui rievocato per le sue qualità contrastanti di predicatore umile e di “sovversivo”, capace di ispirare «con la forza della passione lo spirito di libertà» (p. 146).
Stajano riesce ad abbandonare le reticenze, rivendicando, forse per la prima volta, il desiderio di sentirsi “scabro ed essenziale”, come il famoso fanciullo montaliano. La limpidezza della scrittura impone un freno alla divagazione e accetta come un rischio calcolato la possibilità di ripetersi. Le stesse citazioni, e alcune dichiarate preferenze (Manzoni e il Montale dei motetti e della Bufera) sono qui esibite per tematizzare la circolarità dei ricordi, e sono da leggersi, anch’esse, come un segno dell’eredità culturale che ha “armato” la coscienza critica dell’autore contro la guerra.
Per questa ricerca della proprie radici tra le tante eredità collettive, verrebbe quasi naturale considerare il libro un romanzo di formazione. In Patrie smarrite, Stajano aveva scritto: «La guerra mi cresce nella testa. Mi sono talmente immedesimato nella storia che sto raccontando, e anche nella grande storia, da sentirmi come il personaggio di un romanzo che mi si sgretola davanti agli occhi» (p. 31). Nonostante Stajano ricorra come sempre all’efficace innesto di documenti diversi, dalle lettere ai diari, dalle carte ufficiali ai gli articoli di giornale, il filo della narrazione è più teso. L’intento principale risiede infatti nel mostrare sia lo sgretolamento della storia che la costruzione di un’identità, inoltrandosi anche su territori finora inesplorati. In una delle parti più poetiche del libro seguiamo il ragazzo entrare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. La sacralità della vita appare doppiamente violata nella devastazione dell’edificio. Eppure proprio negli interrogativi che gli apostoli del cenacolo leonardesco sembrano rivolgere al ragazzo il narratore coglie la denuncia del male e l’investitura a cercare il bene.
Verrebbe naturale, dunque, parlare di romanzo, se non sapessimo quanto poco attraente è per Stajano l’uso di questa “parola magica” come la chiamerebbe Garboli, non a caso anche lui tra i “maestri infedeli” (Maestri Infedeli, Garzanti, 2008) ad essere citati nel libro. Per scrivere un romanzo, ha spiegato Garboli, non basta un’immaginazione oceanica, ci vuole anche una sconfinata, indiscussa fiducia nelle proprie creazioni. Questa fiducia il ragazzo cresciuto sotto le bombe non ha mai voluto concedersela. Il dono del dubbio continua, invece, a gettare interrogativi su pagine intense di partecipazione e memoria.