Prendete un venerdì sera in una qualunque città europea. Gente che se ne va a cena fuori, ragazzi che si raccolgono in piazze e piazzette, coppie che entrano in un’automobile, signori attempati che passeggiano sul marciapiede. Brusio, traffico, clacson, porte che sbattono, gente che litiga, baci, abbracci e tutto il chiacchiericcio della festa, del venerdì di festa, il sabato che arriva, eppoi il giorno del Signore, il giorno dell’ozio, dormire, riposare, festeggiare, leggere, mangiare. Prendete un venerdì sera che non apre solo la festa settimanale ma ne apre una che pare infinita. Una festa lunghissima, una città che si ferma per una settimana eppoi zoppicando finge di ripartire e per ripartire aspetta solo qualche manciata di giorni e subito sposta la festa fuori dal centro della città, in un parco che sembra vivere solo per quei giorni, festa, festa grande, che esplode definitivamente nel centro del centro della città, in un’arena circolare dai colori bianco e ocra, i colori che raccolgono meglio il sole asfissiante che brucerà tutto da maggio in poi. Prendete questo venerdì sera di mostruosa attesa, tra campane che suonano ovunque, chiamando i quarti d’ora, le mezzore, le ore e nessuno tiene più il conto e del resto a chi importa? Importa altro. Importa la festa che sta per aprirsi. Una festa che pare a tal punto infinita che i più sapienti sanno già l’incubo della sua fine.
Siete a Sevilla, certo, nella Spagna più profonda, il venerdì che precede il sabato gonfio d’attesa da cui si srotolerà la Semana Santa. Un delirio di cattolicesimo e paganesimo fino alla domenica di Pasqua. Poi giorni di finta quotidianità e subito la feria cittadina. La Feria de Abril. E tori, tori, tori ogni giorno. Fino a una domenica straziante, circa un mese più tardi, con tori dal carattere imprevedibile, nome scolpito nella pietra: Miura, i tori che più morti hanno fatto fra i toreri del mondo.
Siete a Sevilla, certo. E potreste rimanere delusi perché qui il folklore non sanno cosa sia. E i turisti sono migliaia e migliaia ma a pochi importano le loro esigenze, a parte gli alberghi che raddoppiano i loro onorari e qualche furbo pronto a approfittare. Per il resto, disinteresse. Nessuna attenzione verso chi viene da lontano, non sa nulla e immagina soltanto di presenziare al solito evento un po’ folle e un po’ anacronistico, raccontato innumerevoli volte da riviste di viaggi e guide. Del resto c’è altro a cui pensare. Il dovere chiama. E bisogna, innanzitutto, festeggiare. Così, di venerdì sera, il venerdì che precede la più lunga festa di Spagna e forse d’Europa e magari del mondo intero, è l’attesa quel che conta. Basta fare due passi. I negozi di tessuti zeppi di madri e figlie che indicano rotoli immensi e definiscono il taglio. Rivenditori di incenso a ogni angolo che fanno bruciare odori religiosi e sensuali. Palchi che vengono approntati lungo le vie in cui passeranno le processioni. Balconi rivestiti di velluto rosso da cui i proprietari benediranno, berranno, godranno. Pasticceri al lavoro su un’infinità di dolci casalinghi, ritoccando a modo loro i sacri principi delle tradizioni. Bar che esplodono di birre spillate in bicchierini di vetro sottile, gin tonic, whisky e cola, vermouth della casa. Sigari accesi, ogni tanto, e ogni tanto ancora del tabacco nero che brucia in sigarette bianche. Mani che battono ritmi flamenchi. Voci smorzate che accennano improvvisazioni flamenche. E campane che continuano a battere rintocchi, chiese aperte e sciame di persone che entrano e escono per ammirare gli immensi palchi rifiniti di fiori, il Cristo che va alla morte, il Cristo condannato, il Cristo morente, il Cristo morto o risorto. E le infinite Vergini, infinite, sì, ma di due tipi: quelle che piangono e quelle beate nella loro consapevolezza. Candele, cera, offerte, tintinnar di monete. Sulle scale delle chiese, mendicanti che si muovono in cantilene grottesche ondeggiando su bastoni, spingendo cappelli rovesciati verso passanti veri o immaginari. Dietro a loro, baracchini che rivendono frutta secca e soprattutto almendras, almendras, almendras. Quel marrone chiaro, ricoperto di sale che fa scintillare le mandorle sotto le luci elettriche della sera. Richiami silenziosi dai baracchini dei rivenditori e mani che formano un cono di carta in un battibaleno, due cucchiaiate di almendras, qualche moneta. Poi subito via verso un bar. Pioverà anche stavolta? Ma certo. Certo che pioverà anche quest’anno. Ma cosa importa a noi? La festa sta per cominciare.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).